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Angelo Barile. Aristocratica

26 Set

di Ivan Quaroni

 

 

Voglio le mie tasche piene
E sangue e ferro e sabbia nelle vene
L’oro e l’eresia
Profondo rosso obliqua simmetria
Ed una nave orienta la prua
In alto mare a liberare…
Aristocratica
Occidentale falsità
(Matia Bazar, 1984)

 

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Il Pop Surrealismo, un linguaggio artistico originato dalla mescolanza di cultura alta e bassa, capace, cioè, di combinare l’attitudine fantastica del surrealismo con l’immediatezza del pop, è uno stile pittorico tipicamente postmoderno. Come il Postmodern, infatti, saccheggia l’immaginario visivo della storia dell’arte per innestarlo sulla corteccia neurale della sensibilità odierna, passando in rassegna i codici della cultura di massa in tutta la loro estensione.

Non stupisce, quindi, che alla base di questo linguaggio vi sia una buona dose d’ironia, sovente controbilanciata da una volontà di recupero del lavoro artigianale e da un ricorso ad abilità e tecniche attraverso cui s’intende riaffermare il primato della pittura sul campo delle produzioni artistiche della contemporaneità (categoria, peraltro, divenuta sempre più mobile e aleatoria).

All’idea di una pittura intesa come dominio d’infinite combinazioni iconografiche, perimetro claustrale di una pratica virtualmente inesauribile, si rifà la ricerca di Angelo Barile, pittore che riassume molti dei tratti distintivi di questa nuova categoria estetica, generatrice di universi paralleli, in bilico tra storia e finzione.

Elemento tipico di questo linguaggio espressivo che negli ultimi vent’anni ha assunto diverse forme ed etichette – con definizioni che spaziano da Lowbrow Arta New Gothic, da Cartoon Realisma Big Eye Art, da  Edgy Cuteness a Pop Expressionism – è, senza dubbio, la volontà di riscrittura della realtà, ossia l’anelito a reinventare i generi tradizionali partendo dal proprio background culturale, da quel patrimonio di letture, ascolti, visioni, ma anche gusti, predilezioni e manie che formano un originale punto d’osservazione sul mondo.

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Si potrebbe obbiettare che, fin dall’alba dei tempi, gli artisti hanno filtrato l’osservazione della realtà con la lente d’ingrandimento della propria weltanschauung, che è, appunto, una personalissima forma d’intuizione e di visione del mondo. Tuttavia, a differenza degli artisti antichi e moderni, quelli della postmodernità possono accedere a un serbatoio d’immagini e suggestioni quantitativamente inimmaginabile. Possono, quindi, da perfetti bricoleur, saccheggiare ogni tipo d’iconografia per formare inedite combinazioni e creare, così, qualcosa di assolutamente nuovo.

Gli artisti come Angelo Barile, obbediscono solo alla propria volontà pulsionale, al piacere erotico di servirsi di qualsiasi fonte iconografica per stravolgerla e riformularla alla luce di una nuova necessità espressiva. È merito di Achille Bonito Oliva aver sdoganato questo tipo di pratica nel delicato passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta, proponendo un’arte che “finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il labirinto, inteso come ‘lavoro dentro’, come escavo continuo dentro la sostanza della pittura”[1].

“L’assunto iniziale”, spiega Bonito Oliva, “è quello di un’arte come produzione di catastrofe, di una discontinuità che rompe gli equilibri tettonici del linguaggio a favore di una precipitazione nella materia dell’immaginario non come ritorno nostalgico, come riflusso ma come flusso che trascina dentro di sé la sedimentazione di molte cose, che scavalcano il semplice ritorno al privato ed al simbolico”[2].

Anche per Angelo Barile non si tratta solo di un semplice ritorno al privato, ai propri gusti e alle proprie ossessioni. Certo, la volontà pulsionale è la leva che muove in profondo la sua pittura, ma il dominio operativo della sua indagine, la piattaforma su cui si svolge, è il genere, immediatamente riconoscibile, della ritrattistica nobiliare (e sacra) del post-rinascimento e dell’era barocca e rococò. L’orizzonte delle sue incursioni è, infatti, quello della quadreria aristocratica occidentale, spazio avito in cui il ritratto non è più soltanto complemento d’arredo o oggetto devozionale, ma frammento di un discorso composito, tassello di quella storia frastagliata che comunemente chiamiamo “collezione”, un mix di esibizione genealogica e di proiezione del proprio status quo.

Diversamente dalla quadreria aristocratica e borghese, quella dipinta oggi da Angelo Barile è, invece, una sorta di psicografia, la manifestazione e descrizione di fatti mentali attraverso elaborati grafici in forma di ritratto fantastico.

Da qualche tempo, ormai, Angelo Barile insiste sulla rappresentazione di volti e fisionomie dai tratti speciali che, in parte, fanno pensare agli stilemi di deformazione anatomica in uso sia nell’arte occidentale che orientale. Basti pensare ai bambini dipinti da Margaret Keane – la cui storia è superbamente raccontata nel film Big Eyes di Tim Burton – o ai personaggi Kawaii dei manga giapponesi, che con il loro aspetto infantile ispirano sentimenti di tenerezza, per capire come il corpo ipertrofico sia diventato un modello di rappresentazione diffuso, corroborato anche dall’uso massiccio di emoticoned emojinel gergo visivo di internet.

Rispetto ai canoni della Big Eye Art o della cosiddetta Edgy Cuteness, i personaggi di Barile non ispirano necessariamente tenerezza. L’artista, infatti, pur non rinunciando a dare enfasi espressiva agli occhi, tradizionalmente considerati “finestre dell’anima”, si concentra sulla definizione di un modello di sintesi anatomica che rimanda solo perifericamente al mondo dei cartoon charactero dei vinyl toy, e che, piuttosto, sembra alludere al processo d’infantilizzazione di una società composta in larga parte da adultescentiaffetti da sindrome di Peter Pan.

A queste generazioni il messaggio ironico, e insieme affettuoso, di Angelo Barile deve apparire piuttosto chiaro. In esso è adombrato un processo di demitizzazione tipico della cultura postmoderna. Il corpo, classicamente percepito come unità di misura armonica del cosmo, assume qui una valenza destrutturante. Esso non è più un modello di riferimento aulico, ma la testimonianza dello stato psicologico ed emozionale dominante nella società liquido-moderna teorizzata da Zygmunt Bauman.

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Angelo Barile usa questo espediente per accorciare le distanze tra sé e l’osservatore, per abbattere le barriere che separano l’arte dalla gente comune e riallacciare, così, i fili di un discorso prematuramente interrotto dall’elitarismo delle avanguardie concettuali.

Eppure, questa sua strategia, è tutt’altro che accondiscendente. Si può affermare, invece, che le infantili ipertrofie dell’artista siano il cavallo di Troia per la trasmissione di messaggi tutt’altro che popolari.

Barile ricorre a un’iconografia che non corrisponde ai dettami pop d’immediatezza e riconoscibilità, come ad esempio, nel caso di quegli artisti che usano supereroi, personaggi dei fumetti e delle favole o illustri protagonisti della cronaca odierna. Sceglie, anzi, di costruire la sua psicografia su fonti storiografiche e letterarie, spesso rimodulando i codici rappresentativi della tradizione rinascimentale e barocca.

La sua quadreria di ritratti comprende figure come Melissa, la ninfa che allevò il piccolo Zeus sul Monte Ida per sottrarlo alla furia fagocitatrice del padre Crono, o Ipazia di Alessandria d’Egitto, filosofa, matematica e astronoma greca, caduta per mano di una folla di cristiani in tumulto e perciò divenuta simbolo della libertà di pensiero.

Accanto ai personaggi dell’antichità, si stagliano i rappresentanti della nobiltà rinascimentale italiana, come le anodine figure dei De’ Roberti, duchi di Reggio Emilia, soppiantati da quelle, ben più potenti, degli Estensi (da Bianca a Ginevra d’Este, da Adalberto III a Carlo Filiberto II ed Ercole III). C’è, poi, la tragica immagine della zarina Anastasia Romanov, assassinata dai bolscevichi e ci sono quelle più ironiche di Vanessa Cattani, madre di Lucrezia Borgia e di Emilia Mariani, prima suffragetta italiana. Si tratta di personaggi sconosciuti (o quasi) al grande pubblico, con le sole eccezioni (ma ne siamo poi così sicuri?) della pulzella d’Orleans Giovanna D’Arco, eroina nazionale francese, e di Dorian Gray, popolare figura di dandy creata dalla penna di Oscar Wilde, simbolo di raffinatezza e, insieme, di decadenza morale.

Ogni dipinto, inquadrato in una cornice aurea e concepito come un ritratto commemorativo con l’epigrafe del nome e degli anni di nascita e morte, riepiloga i caratteri del personaggio con l’aggiunta di particolari apocrifi, che molto rivelano dell’immaginario pop di Barile.

Ipazia, ad esempio, è raffigurata come una ribelle col corpo tatuato, una sorta di bad girlgotica su cui volteggia la sagoma metallica di un disco volante, forse un indizio della sua personalità “aliena”, culturalmente in netto anticipo sulla sua epoca.

Più filologico è, invece, il ritratto di Melissa, la levatrice di Zeus, accompagnata da due api giganti (più quella effigiata nell’elegante fermaglio sulla veste), in osservanza all’etimologia del suo nome, che significa, appunto, “produttrice di miele”. A questa fanno da pendantgli ovali di Cronoe Rea, rispettivamente padre e madre del sommo dio olimpico.

Nella carrellata dei ritratti estensi, spiccano quelli conturbanti di Biancae di Ginevra: la prima, che alla morte del marito Galeotto I Pico divenne religiosa, è raffigurata con una ciocca di capelli scompigliata dal vento, metafora d’inevitabili cambiamenti; la seconda, moglie di Pandolfo Sigismondo Malatesta, defunta poco più che ventenne (e immortalata da un celebre dipinto di Pisanello) è, invece, l’emblema del tempus fugit.

Una sorta d’irriverente memento mori è il trittico di personaggi che compone l’opera dedicata alla dinastia dei Roberti (1115-1430), stranamente rappresentati in abiti settecenteschi e intenti a compiere – comprensibilmente! – un’elaborata coreografia di gesti scaramantici.

Angelo Barile ama confondere le acque, adattando ai personaggi di un’epoca precedente la foggia di acconciature e costumi barocchi, come si evince anche dall’opera dedicata ad Adalberto III detto il Margravio, fondatore della dinastia degli Estensi nell’alto medioevo. “La mia grande passione per la musica classica barocca”, ammette, infatti, l’artista, “mi ha avvicinato a un universo visionario fatto di messaggi confusi, di vestiti azzardati, più simili a impalcature, e di parrucche improbabili e altissime, piene di accessori assolutamente inutili”, come nel caso degli Arredi vestitivi – tanto per citare un postmoderno come Mendini – di Carlo Filiberto II ed Ercole III d’Este, tempestati di bottoni, mostrine, fermagli, nappine, pizzi, trine e merletti.

Altro esempio di reinterpretazione di una figura storica è quello di Anastasia Romanov, sul cui volto si addensa, come per effetto di una meteorologia allegorica, la nube di un futuro da tregenda. A quest’immagine malinconica, capace di raccontare con un guizzo pittorico rivelatore, la triste sorte della zarina vittima del bolscevismo e poi canonizzata dalla chiesa ortodossa, fa da contraltare quella lieve e scanzonata della socialista e femminista Emilia Mariani, prima suffragetta italiana, amante dei fiori e accanita fumatrice di sigari.

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Pescando dalla storia e dal mito, Angelo Barile costruisce una carrellata di caratteri esemplari, lontanissimi dalle luci della ribalta massmediatica, eppure capaci di riportare alla nostra attenzione, attraverso il filtro lenticolare di un remoto passato, un universo valoriale che ci appare irrimediabilmente perduto. Se, infatti, dietro ogni suo ritratto c’è una storia, e quindi un insegnamento di qualche tipo, sia esso scanzonato o edificante, dietro le icone della tecnocrazia odierna non c’è nulla, nessun racconto universale o condivisibile, solo l’involucro vuoto di un idolo senza volto. Epitome e compendio di quelle che Jean Clair definiva le disjecta membra della modernità, ovvero i frammenti sparsi di questo nostro tempo liquido, è La Madonna del nulla, una versione capovolta e distorta dell’antica devozione per tutto ciò che vi è di sacro, vitale ed evolutivo nella vita e nell’arte. I ritratti di Angelo Barile, pur risultanti dal postmoderno appianamento di ogni gerarchia culturale, stanno lì a ricordarci che la pittura serve anche a questo. Non solo a ricostruire un’identità storica, ma a ristabilire, finalmente, un rapporto di senso, vale a dire profondo ed esperienziale, tra lo spettatore e le immagini.

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NOTE:

[1]Achille Bonito Oliva, LaTrans-avanguardia italiana, Giancarlo Politi Editore, 1980, Milano, p. 44.

[2]Op. cit., pp. 45-46.


INFO

Angelo Barile. Aristocratica
a cura di Ivan Quaroni
Galleria Casati Arte Contemporanea
Via Valprato 68 Torino
Opening 26 settembre,  h.18.00 – 21.30
Tel.+39 039 9635366 – +39 329 5941841
email:art@casatiartecontemporanea.it 
torino@casatiartecontemporanea.it

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