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Carlo Nangeroni. Il dominio della luce

27 Set

di Ivan Quaroni

“Il pensiero è una freccia, il sentimento è un cerchio”.
(Marina Cvetaeva)

1973,Studio, acrilico su tela

Studio, 1973, acrilico su tela

“Dipingere è dipingere, prima di tutto, quindi non è progettare la pittura”[1]. Con queste parole Carlo Nangeroni chiariva il carattere fondamentalmente erratico del suo lavoro. “Non ho nulla da fondare, da edificare, per fare i miei quadri”, aggiungeva, “mi lascio guidare dall’istinto”[2].

Per lui, giunto tardi all’esperienza astratta e, come molti suoi coetanei, per il tramite della lezione informale, l’assunzione dei valori geometrici serviva a inquadrare le intuizioni in un registro alfabetico che si sarebbe formalizzato solo agli inizi degli anni Sessanta con l’acquisizione di quel lemma circolare che avrebbe poi reiterato in una variegata gamma di combinazioni. Le ragioni di quest’approccio, maturato in un clima di silenziosa e alacre autonomia, si possono in parte spiegare col particolare percorso biografico di Nangeroni, fitto d’incontri e d’esperienze passate al vaglio di una sensibilità vigile, sempre attenta a coltivare e proteggere la propria visione.

Nato nel 1922 a New York da genitori immigrati e poi tornato in Italia nel 1926 per studiare, formandosi tra il ’38 e il ’42 alla Scuola d’Arte Beato Angelico di Milano e ai corsi serali di Brera condotti da Mauro Reggiani, Carlo Nangeroni fa ritorno nella Grande Mela nel 1946 per restarvi fino al 1958.

Gli anni del soggiorno newyorchese sono ricchi d’incontri con artisti come Oscar Kokoshka, Conrad Marca-Relli, Philip Guston, Willelm De Kooning, Jackson Pollock, Franz Kline e soprattutto Alexander Archipenko, del cui studio diventa un assiduo frequentatore. Dal 1951, inoltre, Nangeroni lavora alla National Broadcasting Company, uno dei più importanti network radio-televisivi americani, occupandosi delle scenografie di spettacoli teatrali e opere liriche. In questo periodo, ricorda Cesare Vivaldi, dipinge “rilievi bianco su bianco tessuti su elementi figurali, o dipinti scaldati appena da leggere bave di colore: poi nel 1958 un momento breve d’espressionismo astratto”[3].

Col ritorno a Milano nel ’58, il linguaggio pittorico Nangeroni, a contatto con artisti come Lucio Fontana, Gianni Dova, Emilio Scanavino, Enrico Castellani e altri concretisti italiani, si avvia verso una grammatica più icastica e costruttiva, fatta di figure astratte ed elementari, composte in modulazioni ondulatorie e seriali in cui si fondono luce, colore e musicalità.

Il rapporto dell’artista con musica – che aveva segnato la sua esperienza di scenografo alla N.B.C. e che aveva coltivato per interesse personale, si riversa nel suo immaginario pittorico sotto forma di partiture visive. A New York, infatti, aveva seguito tutti i concerti diretti da Toscanini, Cantelli e Ansermet ed era entrato in contatto con il musicista d’avanguardia Edgar Varèse, interessandosi ai suoi esperimenti sulla manipolazione dei suoni. Le iterazioni ritmiche già presenti nelle opere dei primi anni Sessanta – si veda, ad esempio il dipinto a olio Diagonali serie luce Idel 1962 – si formalizzano ben presto in diagrammi popolati di strutture circolari, vocaboli basilari di una pittura sempre più irretita in una razionale griglia cartesiana. “È alla soglia degli anni sessanta” – scrive Alberto Veca – “dopo il ritorno da un soggiorno negli Stati Uniti […] che Nangeroni trova una soluzione plastica a cui, sia pure con soluzioni diverse, resterà sostanzialmente fedele fino ad oggi, quella di un’unica figura protagonista, il cerchio e la sua impaginazione modulare”[4].

Questi dots, o punti-luce, diventano la misura di un sistema espressivo fondato su differenze, anche minime, di luce, colore e ritmo. La seriazione dei dischi, con le sue combinazioni e intersezioni di segmenti curvi e lineari, assume lo statuto di un metodo di lavoro, insomma di uno schema variabile che dischiude infinite possibilità espressive, permettendo alla luce e al colore di organizzarsi in una teoria di tabulati armonici e cadenzati.

Il cerchio, già dalle Iterazionidel ’63, è utilizzato come modulo di suddivisione della superficie pittorica, organizzata in partizioni ortogonali che evidenziano lo stringente dialogo tra figure e sfondo. Tuttavia, il formato usato da Nangeroni destabilizza la tradizionale griglia modernista. Infatti, come nota Kevin McManus, “contrariamente alla ‘casella’ della griglia, il cerchio non era dedotto direttamente dalla forma della cornice, ma era invece arbitrario rispetto ad essa, riferito ad una matematica di tipo, per così dire, lirico”[5].

In controtendenza rispetto alle indagini ottiche, cinetiche e programmate in voga in quel decennio – dal Gruppo Zero di Düsseldorf (1957) al Gruppo T e alla rivista Azimut di Milano (1959), dal Gruppo N di Padova (1960) al Groupe de Recherche d’Art Visuelle di Parigi (1960), tutte formazioni caratterizzate da un approccio alle arti visive di tipo razionale e scientista –, Nangeroni matura un linguaggio astratto che lascia un discreto margine a dubbi e intuizioni. Le sue composizioni, infatti, registrano sottili variazioni di luce, slittamenti e alterazioni della forma che creano una tensione dinamica fra gli elementi e consentono all’artista di verificare i limiti della griglia cartesiana. Cosa che, di fatto, avviene nelle Strutturedella seconda metà degli anni Sessanta e in opere della fine del decennio come l’acrilico intitolato Seriale elementi scorrevoli(1969).

L’introduzione di elementi apparentemente “estranei” alla disposizione ortogonale dei moduli circolari, quali, ad esempio, i segmenti curvilinei nei Percorsi ritmati, le scie di colore che delimitano le aree di scorrimento nelle Struttureo la resa quasi puntinista dei cerchi, debitrice dei procedimenti fotomeccanici della stampa a retino del Metodo Benday (e ampiamente divulgati dalla pittura di Roy Lichtenstein e Sigmar Polke), si ritrova anche nelle Mutazionidei primi anni Settanta. La riflessione è condotta entro i confini di uno spettro cromatico rigoroso e minimale, che oscilla tra bianchi, neri e scale intermedie di grigi.

1970, Mutazioni, acrilico su tela copia

Mutazioni, 1970, acrilico su tela

In questa serie di opere, come pure nelle coeve Interferenze, Nangeroni ricorre a ingegnose interpolazioni di moduli e a eleganti giochi di velature che generano tessiture animate da delicate pulsazioni ritmiche e luminose. Il processo usato dall’artista insiste su sottili scarti e piccole differenze all’interno di uno schema, quello cartesiano appunto, che serve a delimitare il campo d’azione e a circoscrivere il dominio operativo dell’indagine.

“Lo scarto plastico, di evidenza e peso, fra il fondo, il continuo dei dischi e le figure, che successivamente velano il tutto”, conferma Alberto Veca, “si basa su differenze minime, realizzate attraverso la sovrapposizione di stesure di colore diluito”[6]. A questa procedura si aggiunge poi l’inserto di barre verticali e orizzontali. Nelle Interferenze, tutte datate 1971, il reticolo dei punti luce è messo in relazione con sovrastanti o sottostanti moduli quadrangolari che in alcuni casi evidenziano le partizioni dell’impianto ortogonale. In particolare, le marcature costituite dai segmenti neri (o rossi) alterano il ritmo compositivo di questi lavori, rendendolo più sincopato rispetto al più compatto flusso armonico delle Mutazioni.

L’aritmia, peraltro già presente nei rilievi della metà degli anni Sessanta come, ad esempio, la shaped canvasdel 1966 intitolata Path, subisce un incremento con l’inserzione di linee e campi di colore diagonali. Nell’opera Proiezionidel 1972 le scie rosse che collegano i tre moduli superiori del lato verticale destro della tela con i tre a sinistra del lato orizzontale inferiore sanciscono l’irruzione di una tridimensionalità illusoria in un campo sostanzialmente piatto, dove i dotssi “muovevano” lungo assi di ascisse e ordinate. D’altronde, come aveva già dimostrato Theo van Doesburg, l’introduzione di una retta obliqua era bastata a scardinare l’idealistico impianto cartesiano di Mondrian, aprendolo alle implicazioni architettoniche della geometria solida. L’interesse per la dimensione plastica in senso stretto, pur presente nell’opera di Nangeroni, appare, però, accessorio rispetto alle preoccupazioni di ordine ritmico e luministico.

Nelle Mutazioni, nelle Interferenze, cosi come negli Elementi in movimento, gli scarti minimi e le sottili gradazioni di colore e luce si rivelano, quasi epifanicamente, entro i confini di un metodo che non persegue alcun diktat programmatico ma anzi, come rileva ancora Alberto Veca, “a dispetto di qualunque logica riduttivamente ‘ortodossa’ dell’arte costruita”[7]. “I miei problemi sono stati altri”, conferma Nangeroni, “l’iterazione, il movimento nella luce, l’idea di continuo, ma sempre dentro la pittura, il fare e i farsi della pittura”. Il suo, ammette, è “un lavoro fatto più di curiosità che d’indirizzi preventivi”[8].

Quel che c’è d’ineffabile in queste “epifanie” non può, dunque, lasciare campo a peregrine interpretazioni. È vero, come ricorda Alberto Zanchetta che, in un articolo su Il Corriere della Sera del 27 febbraio 1985, Riccardo Barletta definisce i quadri di Nangeroni “esercizi di lettura di forme-colori-movimenti sulla tela, che rimandano a strutture dell’interiorità”[9], ma è più plausibile pensare, come fa Franco Passoni, che una metodologia libera, non vincolata da una volontà progettuale, abbia portato l’artista “all’individuazione di tutti quegli avvenimenti formali e plastici, cromatici e vitali che introduceva all’interno dello spazio”[10].

È lo stupore della scoperta, quindi, il motivo generante dell’alfabeto di Nangeroni, che introduce nel costrutto cartesiano elementi estranei allo scopo di verificare la tenuta del suo alfabeto chiuso e insieme duttilissimo.

Le opere dei primi anni Settanta, che costituiscono il corpo principale di questa mostra, testimoniano una fase cruciale di raggiunta maturità del suo linguaggio pittorico. Pur sottoposti a una stringente riduzione cromatica – processo che favorisce un raffinamento del costrutto, dell’impianto, insomma dell’ossatura razionale della sua grammatica -, i lavori qui esposti mostrano una sostanziale estraneità alle coeve ricerche “optical”, caratterizzate da implicazioni scientifiche e psicologiche legate ai meccanismi di percezione. “Se in alcune opere si avvertono suggestioni di questo tipo”, scrive Claudio Cerritelli, “è solo in quanto i ritmi strutturali del colore sono inevitabilmente coinvolti nei processi di rispondenza ottica, di ambiguità percettiva o di deformazione illusoria delle forme: effetti involontari di carattere geometrico”[11]. Piuttosto, la griglia e i moduli, variamente combinati e “perturbati” da linee rette e curve, sono coinvolti in un processo di trasformazione della materia in luce. Una trasformazione che si fa, nel tempo, sempre più evidente e che porterà alla maturazione di uno stile che attraverserà, con impressionante coerenza, i decenni successivi. Già nel 1985, Nangeroni dichiara, infatti, che “il costrutto non è che il dato fondativo, la protagonista è ormai la luce che, cellularmente, modula la superficie per filtri continui”[12].


Note

[1]Franco Passoni, Carlo Nangeroni, in Carlo Nangeroni, catalogo della mostra alla Casa del Console, Calice Ligure, 5 agosto – 16 setetmbre 2000.
[2]Ibidem.
[3]Cesare Vivaldi, Lettera a Carlo Nangeroni, collana Arte Moderna Italiana n. 67, a cura di Vanni Scheiwiller, catalogo della mostra alla Galleria Lorenzelli, Milano, febbraio, 1976.
[4]Alberto Veca, Note ai margini, in Carlo Nangeroni. Continuo discreto, catalogo della mostra alla Lorenzelli Arte, Milano, 4 febbraio – 3 marzo 1999, p. 7.
[5]Kevin McManus, Carlo Nangeroni tra un millennio e l’altro, in “Titolo”, anno VI, n. 11, Inverno/Primavera 2016.
[6]Alberto Veca, Note ai margini, Op. cit., p. 8.
[7]Ibidem.
[8]Flaminio Gualdoni, Conversazione con Carlo Nangeroni, in Carlo Nangeroni, catalogo della mostra alla Lorenzelli Arte, Milano, febbraio 1985.
[9]Alberto Zanchetta, On the Dot, in Carlo Nangeroni. 60 cum laude, catalogo della mostra al Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, 14 dicembre 2014 – 15 febbraio 2015, p. 17.
[10]Franco Passoni, Carlo Nangeroni, Op. Cit.
[11]Claudio Cerritelli, Varianti, verifiche, anzi sorprese, catalogo della mostra alla Galleria d’Arte Soave, Alessandria, 29 ottobre – 27 novembre 2005, Edizioni Riza, Milano, p. 11.
[12]Flaminio Gualdoni, Conversazione con Carlo Nangeroni, Op. cit.


Info:

Carlo Nangeroni. Il dominio della luce
a cura di Ivan Quaroni
Opening: venerdì 26 ottobre
ABC ARTE
via xx settembre, 11A
16121 Genova
Tel. 010 868 3884
www.abc-arte.com

Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta

20 Feb

LA RICOSTRUZIONE DELLA PITTURA

di Ivan Quaroni

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Gli anni Settanta sono stati, per certi versi, una sorta di strettoia in cui si sono radicalizzati (anche politicamente) i fermenti culturali degli anni Sessanta mentre, parallelamente, sotto la superficie corrusca del tempo, ribollivano aneliti e pulsioni che avrebbero poi costituito l’identikit della sensibilità post-moderna. Artisticamente, è stato un periodo compresso tra il rigore selettivo del Minimalismo, dell’Arte Concettuale e dell’Arte Povera e l’ondivago, seducente afflato libertario della Transavanguardia (ma anche dell’Anacronismo, del Citazionismo, dei Nuovi Nuovi). Sul delicato passaggio tra queste due contrapposte epifanie culturali, sono maturate le ricerche di artisti come Riccardo Guarneri, Claudio Olivieri e Claudio Verna, che con altri compagni dovettero far fronte all’indebolimento (almeno nominale) della pittura. Esaurita la stagione delle sperimentazioni informali, e alle prese con l’eredità fertile ma aggressiva del Concettuale, che archiviava la pittura come uno strumento tradizionale e conservativo, questi artisti avvertirono certamente una sensazione di pericolo e di allerta, domandandosi se per caso a essere esausto non fosse piuttosto un certo modo di fare pittura, condizionato da velleitarie esigenze di rappresentazione e da pretestuosi contenuti letterari. Proprio qui, intorno a tale questione, nacque la volontà di rifondare il valore di una pratica millenaria ripartendo dalle sue basi, ossia dai fondamenti grammaticali e linguistici che andavano ripensati e verificati alla radice. Invece di buttar via il bambino con l’acqua sporca, i cani sciolti – come li definì Giorgio Griffa – della Pittura Analitica decisero di salvaguardare e rifondare una prassi ormai data per spacciata. Con un atto di coraggio, che peraltro implicava l’accettazione, almeno momentanea, di uno stato di minorità culturale rispetto alle tendenze dominanti, i pittori-pittori, come furono spesso chiamati, non solo scongiurarono il rischio di estinzione della pittura, ma costruirono, lentamente e inesorabilmente, le premesse per quel ritorno di cui godettero pienamente i frutti i più disimpegnati esponenti delle future generazioni.

Non fosse stato per loro, per l’impegno che individualmente (prima) e collettivamente (dopo) profusero artisti come Guarneri, Olivieri, Verna (e i loro compagni di viaggio Carmengloria Morales, Giorgio Griffa, Marco Gastini, Pino Pinelli, Enzo Cacciola, Paolo Cotani, Gianfranco Zappettini, Elio Marchegiani, Carlo Battaglia e altri), forse la storia dell’arte italiana avrebbe preso un altro corso. Quel che è certo, col senno di poi, è che in quel fatidico decennio i destini incrociati di Verna, Olivieri e Guarneri hanno giocato un ruolo primario nel processo di ridefinizione della pratica pittorica. Ciascuno a proprio modo e con la propria storia, hanno affrontato analiticamente (con opere e scritti) il problema del linguaggio, adottando talora lo stesso atteggiamento critico dei detrattori della pittura. Invece di trincerarsi dietro i valori della tradizione, hanno eletto il dubbio e la verifica a fondamenti del loro operare, scoprendo, così, che ridotta all’osso ed epurata da ogni tentazione descrittiva, la pittura poteva riassumersi in un vocabolario minimo, fatto di lemmi primari: luce, colore, segno (ma anche tempo, spazio, struttura). Il loro più grande merito, che costituisce anche un elemento distintivo rispetto all’Astrazione classica, è stato quello di interrogarsi non solo sugli oggetti della pittura (le opere), ma sull’atto stesso del dipingere. L’aspetto processuale e operativo è stato, infatti, un tema centrale nelle loro riflessioni, insieme alla cognizione degli strumenti sintattici basilari della prassi pittorica e alla consapevolezza del carattere intenzionale e deliberato del fare pittura. Sia nelle opere di Guarneri, che in quelle di Olivieri e Verna degli anni Settanta, pur con esiti formali diversi, si avverte una profonda adesione ai fondamenti linguistici, sentiti come presupposti necessari dell’indagine. Verna e Olivieri esordiscono negli anni Cinquanta e nello stesso periodo, parallelamente all’attività musicale, anche Guarneri inizia a dipingere. Nella decade successiva, la crisi ormai conclamata dell’Informale e l’affermarsi delle sperimentazioni ottiche e cinetiche da una parte e minimaliste e concettuali dall’altra, influiscono necessariamente sulla coscienza di chi pratica la pittura. Quell’attitudine riflessiva e autocritica, che in seguito porterà i tre artisti alla costruzione di un campo pittorico autonomo e privo di referenti esterni, una specie di terza tappa dell’Astrazione, dopo la Geometrica e l’Informale, nasce dunque prima. Anche se giunge a maturazione solo nei primi anni Settanta.

In particolare, Riccardo Guarneri muove i primi passi nell’ambito dell’Astrazione Informale, con opere che si sviluppano intorno al confronto tra campiture cromatiche e partiture segniche. Inizialmente, la sua idea, modellata sull’esempio di Rothko e perseguita con i compagni del Gruppo Tempo 3 (Gian Carlo Bergoni, Attilio Carreri, Gianni Stirone), è di comporre una via mediana tra l’arte concreta e informale. A influenzarlo sono soprattutto le teorie gestaltiche sulla percezione e le indagini dell’arte cinetica e programmata, suggestioni che egli traduce in una pittura chiara e monocromatica solcata da interventi a grafite colorata che formano una filigrana geometrica sensibile e vibrante. Si tratta, come scrive l’artista nel 1974, di “una geometria più interiore che formale”, costruita quasi liricamente, come trascrizione dell’esperienza personale nell’accadimento della pittura. “A me piace che la pittura si serva del suo medium specifico che poi è la pittura stessa”, dichiara Guarneri, “quella pittura che per il suo particolare linguaggio riesce a comunicare emozioni e sensazioni che sarebbero impensabili in altre forme di linguaggio”.[1] L’artista identifica il colore con la luce creando immagini fondate sulla trasparenza e sulla rarefazione, oltre che sulla strutturazione di uno spazio quasi oscillante, dove le tensioni strutturali e le cadenze ritmiche della geometria affiorano, come evanescenti apparizioni, da una sostanza lattescente. I quadri albini di Guarneri rientrano, per sua stessa ammissione, in quel filone della pittura denominato “bassa percezione”, che impone al riguardante un prolungamento dei tempi di osservazione. Sono opere difficili da fotografare, tutte giocate su pulsazioni minime del bianco che offrono all’artista l’opportunità di vagliare la natura luminosa del colore. Anche il segno a grafite obbedisce all’imperio della luce, facendosi sottile fino al limite ottico, e organizzandosi in geometrie fantasmatiche, di una levità a stento percettibile.

Quadrangoli, triangoli e bande lineari, infatti, si articolano sotto la pelle nivea del colore, come a indicare l’esistenza di uno spazio ulteriore, non immediatamente accessibile. Ma è bene rimarcare che lo spazio per Guarneri non è mai prospettico, né atmosferico. È, semmai, un costrutto mentale, una proiezione ideale, baluginante e instabile e, dunque, inafferrabile. Mentale e ideale è pure la prefigurazione di un campo o di una superficie su cui innestare un fitto e sottilissimo tracciato grafico che trasmuta gli elementi segnici in diafane epifanie di colore. In un testo di Guarneri, scritto in forma di lettera all’amico Claudio Olivieri per un catalogo del 2012, l’artista torna ancora sulla questione della percezione, definendo i propri lavori come “opere a lento consumo”, dove ombra e luce producono “una astrazione lirica, leggera e impalpabile ma sempre rigorosa nel suo farsi”.[2] E rigore e lirismo sono, infatti, motivi fondanti di tutta la sua ricerca, sempre protesa verso la formulazione di un linguaggio capace di conciliare l’elemento aureo e razionale della ragione con la sostanza fragile e sensibile delle emozioni.

Anche l’esordio di Claudio Olivieri alla fine degli anni Cinquanta avviene nell’ambito dell’Arte Informale, ma nel decennio successivo il suo interesse è rivolto alle ricerche futuriste sulla scomposizione della luce. Nelle opere di quel periodo la gestualità del segno si risolve in sottili fenditure di colore, che squarciano la materia cromatica, evidenziando già l’interesse per il dato procedurale, per l’azione stessa del dipingere. Nel testo del catalogo di una mostra del 1966 a Milano scrive: “spazio e cose mi appaiono in un unico fiotto, come una sola pulsazione, che trascina con se l’accadere e il formarsi, il precipitare e il deporsi di elementi frammentari che trovano la loro corrispondenza non per virtù compositiva ma per una specie di gravitazione, di magnetismo attrattivo e repulsivo pronto a compromettersi in caos, a rientrare nell’indistinto, nel limo della mia coscienza da cui era nato”.[3] L’attenzione per una pittura intesa come accadimento appare già in questa precoce affermazione, dove peraltro filtra un modo di sentire più affine alla poetica romantica che non al razionalismo analitico. La sensibilità mercuriale e notturna di Olivieri si manifesta nella predilezione per oscure masse cromatiche, emergenti da una profondità ctonia, appena rischiarata da sferzanti fasce di luce. All’inizio degli anni Settanta, la superficie dei dipinti di Olivieri è ancora sensibilizzata da guizzi grafici, collocati in posizione periferica rispetto al plasma scuro del colore.

Nel 1971, Cesare Vivaldi parla di “fasce luminose che si contrastano, si accampano sulla tela in recisa dialettica l’una rispetto alle altre sino a trovare un equilibrio che riguarda non soltanto lo spazio del quadro ma anche lo spazio nel quale il quadro agisce”.[4] Anche in questo caso, lo spazio non è inteso come illusione prospettica, ma è, piuttosto, una qualità del colore, che si espande sulla superficie con un movimento ascendente, quasi di fluida emersione. Non ci sono forme organizzate, né rapporti gerarchici all’interno dell’immagine, dove prende il sopravvento la natura eventuale, formativa della pittura. Il risultato è qualcosa di formalmente indeterminato, mobile, sfuggente, come il distendersi di una formazione ancora in atto, in cui i costrutti mentali e le necessità pratiche si scontrano in un continuo processo di reciproca verifica. Già dalla seconda metà degli anni Settanta, però, i lavori dell’artista trovano una struttura più stringente, con i colori che si alternano in fasce e vele di diversa intensità luministica, creando una pulsante dinamica interna. Per Olivieri la pittura non è un campo statico, ma un luogo che documenta la costruzione e il disfacimento dell’immagine. “Penso che la pittura sia innanzitutto qualcosa di corporeo”, scrive nel 1978, “un prolungamento della fisicità e non una specie di protesi linguistica intercambiabile e sostituibile”.[5]

Dopo una fase di claustrale sperimentazione, l’uscita di Claudio Verna tra il ’67 e il ’68 avviene sotto il segno del rigore formale, nel clima del neo astrattismo romano e fiorentino. Le iniziali suggestioni neoplastiche, mediate dalla lezione di Dorazio (ma anche di Magnelli e Licini) si coagulano intorno alla dialettica tra struttura e colore, un discorso che l’artista mette a fuoco nei lavori dei primi anni Settanta, dove le forme geometriche fanno da supporto alla pienezza cromatica. Nel 1973, sulle pagine di Flash Art, Verna ammette come “non ci sia mezzo più duttile della pittura per portare avanti un discorso in cui hanno tanta importanza luce e colore”.[6] Nella serie iniziata nel 1970, contrassegnata dalla lettera A, seguita da un numero progressivo, la geometria, quando c’è, è posta al servizio del colore e delle sue possibilità. Lo spazio dell’opera assume una connotazione ambigua, incerta su cui si svolge l’esperienza processuale della pittura, ormai svincolata da necessità narrative e rappresentative. Il dipinto diventa, così, il momento di una procedura di verifica duplice, della disciplina pittorica, con la sua millenaria storia, ma anche del ruolo sociale dell’artista e del suo impegno a ridefinire costantemente i presupposti della sua azione. Per Verna non esiste arte senza critica, perché né la teoria artistica né la pratica pittorica possono sussistere autonomamente senza perdere di significato. Questo implica che la progettazione dell’opera deve necessariamente misurarsi con l’azione pittorica, la quale non può mai ridursi a mera esecuzione. Sul piano fattuale, come nota l’amico Piero Dorazio, Verna “costruisce il suo spazio per zone di colore, per campiture e accenti, da un margine della tela all’altro. Il suo colore è spazio vibrante, non è più elemento di una costruzione per piani o linee di uno spazio da riempire e previsto. È spazio radiante ogni campitura e sagoma che egli scelga nel repertorio pittorico che è suo e non è della geometria né del design”.[7]

Nella prima metà della decade, e anche oltre, i quadrati, i rettangoli e le strisce orizzontali che compaiono nelle sue opere disegnano una geometria instabile e costruiscono uno spazio percettivo stratificato, dominato dalle tensioni liriche e timbriche del colore, che diverrà sempre più centrale nella sperimentazione degli anni successivi. I dipinti di questo periodo, ben esemplificati nell’accurata selezione di questa mostra, evidenziano come, pur partendo da presupposti diversi, di matrice appunto neoplastica e neo astratta, Verna giunga a maturare quell’attitudine critica che sarà poi la marca distintiva di molti membri della frastagliata compagine della Nuova Pittura.

Rivedere, a distanza di quarant’anni, alcune delle opere che Verna, Olivieri e Guarneri hanno realizzato in quel periodo decisivo, ci permettono di valutare come le promesse implicitamente contenute nelle loro indagini siano state pienamente mantenute. Chi pratica oggi la pittura e cerca una qualche consapevolezza nelle ragioni del proprio operare è a questi artisti (e ai loro compagni) che deve guardare, più che ai cinici, disincantati vessiliferi del postmoderno. Chi pensa che la pittura sia ancora un dominio fertile, all’incrocio tra la speculazione teorica e la sperimentazione pratica, deve necessariamente riappropriarsi di questo capitolo fondamentale della recente storia dell’arte. Perché è tra disjecta membra della Pittura Analitica, di quell’aggregato d’individualità affini, che si trovano i padri fondatori – anzi rifondatori – della pittura contemporanea.

Info

Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta
a cura di Ivan Quaroni
Opening: giovedi 25 febbraio 2016, ore 18.30
25 febbraio – 29 aprile 2016

Galleria Progetto Arte ELM
Via fusetti 14, 20143 Milano
Tel/Fax +390283390437
e-mail: info@progettoarte-elm.com

[1] Claudio Cerritelli, Riccardo Guarneri. Arie di luce, Arie di luce, cat. Ferrarin Arte, Legnago (Vr), 2011.

[2] Riccardo Guarneri, Caro Claudio…, in Claudio Olivieri, L’urgenza di accadere, cat. Ferrarin Arte, Legnago (Vr), 2012.

[3] Claudio Olivieri, È ormai acquisita…, in Olivieri, cat. Salone Annunciata, Milano, 1966.

[4] Cesare Vivaldi, Olivieri, cat. Galleria del Milione, Milano, 1971.

[5] Claudio Olivieri, Non posso spiegare…, in Claudio Olivieri, bollettino della Galleria Lorenzelli n.9, Milano, 1978.

[6] Claudio Verna, Quale pittura?, in Flash Art n.38, Politi editore, Milano, 1973.

[7] Piero Dorazio, in Claudio Verna, cat. Galleria dell’Ariete, Milano, 1970.