di Ivan Quaroni
Stanza di Città -Roma, 1983, olio su tela, cm 400×200
Per comodità o forse per una certa pigrizia della critica, Arduino Cantàfora è sempre stato incasellato nella sfuggente categoria degli “architetti-pittori”, professionisti inclini allo sconfinamento disciplinare, cui appartengono figure di spicco come Antonio Sant’Elia, Enrico Prampolini, Ico Parisi, Giò Ponti, Ugo La Pietra, Riccardo Dalisi, Alessandro Mendini e, naturalmente, Aldo Rossi, suo mentore e maestro. Gianni Contessi, autore del libro Architetti-Pittori e Pittori-Architetti. Da Giotto all’età contemporanea (Dedalo edizioni, Bari, 1985), sosteneva, però, che la pittura di Cantàfora, fortemente influenzata dalla sua formazione “realista” e caravaggesca, avesse poco a che fare con la sua attività di architetto. Scriveva, infatti, che “Essa dunque, in senso stretto, non fa neppure parte di quell’architettura dipinta che sembra essere uno dei bracci più o meno secolari della così detta Tendenza”[1], il movimento architettonico guidato da Aldo Rossi, di cui La città analoga, dipinto di Cantàfora presentato alla Triennale di Milano del 1973, rappresentava un emblematico manifesto visivo. E, in effetti, anche Francesco Moschini, analizzando quel dipinto, che considerava un’appendice visiva del tema rossiano della città contradditoria, una specie di collage di edifici storici e stili differenti, notava una discontinuità nel percorso di Cantàfora: “[…] sembrava d’un tratto che egli avesse negato la sua più autentica formazione «realista» che dal ’68 in poi lo aveva visto impegnato in una serie di riletture caravaggesche”[2].
La città banale, 1980, olio su tela, cm 200×400
Certo, la collaborazione con Aldo Rossi, durata fino al 1979, aveva vincolato Cantàfora al soggetto architettonico, ma il suo approccio alla pittura era rimasto quello tipico del naturalista, abituato a osservare e catalogare la morfologia delle forme organiche. Prima di diventare copista di Caravaggio, infatti, si era impratichito di anatomia, tassidermia ed entomologia, discipline che, insieme all’interesse per le scienze, avevano affinato la sua capacità di osservazione e analisi della realtà.
La pittura di Cantàfora è, dunque, il risultato di una formazione peculiare, cui hanno contribuito numerosi fattori. Relegarla alla categoria della “pittura d’architettura” significa non riconoscerne la vera natura, ovvero quella di essere, semplicemente, “pittura”. Anzi, “grande pittura”, che dialoga non solo con la tradizione artistica lombarda del Cinque e Seicento, ma anche con il Divisionismo di Angelo Morbelli, la Metafisica di De Chirico, i maestri del Realismo Magico tra le due Guerre e i realisti nordeuropei, come il danese Vilhelm Hammershøi. Più che un “architetto-pittore”, si potrebbe definire un “pittore-pittore”, se non si rischiasse, così, di confonderlo con il gruppo degli artisti analitici che così venivano chiamati negli anni Settanta. E allora basterebbe chiamarlo “pittore”, una sola volta, così da accomunarlo, finalmente, alla schiera dei suoi simili.
Quando ritornerà, 2023, Vinilico e olio su tavola, cm 70×50
Il disegno rappresenta la pietra angolare dell’arte di Cantàfora, una pratica fondamentale anche per l’apprendistato degli artisti antichi (e di molti moderni). Come osservava Henri Focillon: “Quale che sia la forza di ricezione e di invenzione della mente, senza il concorso della mano essa non darebbe vita che a un tumulto interiore”[3]. Il disegno si fa con le mani, “esse sono lo strumento della creazione”, scriveva lo storico dell’arte francese, “ma prima di tutto l’organo della conoscenza”[4]. Un’affermazione riecheggia anche nelle parole di Cantàfora, quando dichiara che “Il disegno ha rappresentato il senso del mio guardare il mondo e, nella misura del possibile, la maniera di cercare di capirlo”[5]. Per lui il disegno non è solo uno strumento di ricostruzione, ma anche di riflessione e comprensione della realtà. Disegnando, l’artista scopre che le forme naturali tendono a ripetersi: “Quando vedo nel cranio umano i forami per il passaggio dei nervi, li ritrovo identici nel cranio di un bovino o di un primate o di un elefante”[6].
Su questo tipo di conoscenza analitica della morfologia delle forme, s’innesta poi la personalità dell’artista, con la sua inclinazione evocativa e nostalgica. Cantàfora sviluppa, infatti, una concezione del disegno come “memoria” su cui edifica nuovi immaginari. Dato che i ricordi sono sempre imperfetti, la loro ricostruzione richiede una certa dose di immaginazione.
Per lui il disegno è un “abito mentale”, costruito attraverso una pratica pluriennale, ma anche una forma di rievocazione che ha caratteristiche terapeutiche. “Per me”, spiega, “la memoria è anche anamnesi, un ricordare che cura”[7]. Quest’idea – in parte derivata dalla filosofia platonica, in cui la “reminiscenza” è considerata il supremo atto conoscitivo, in parte mutuata dal linguaggio medico, dove è usata per designare la raccolta particolareggiata delle informazioni di un paziente -, la si ritrova in molti dipinti di Cantàfora, pervasi da una delicata rêverie.
L’ora perduta, 2020, Vinilico su tavola, 70 x 50 cm
Nei grandi lavori come La Città banale (1980) e Stanze di città. Roma (1983), presentati rispettivamente alla Biennale di Architettura di Venezia del 1980 e alla Biennale d’Arte di Venezia del 1984 – esposti per la prima volta insieme in questa mostra –, la vena memoriale sembra assumere un valore quasi programmatico, riconducibile alla prassi dello studio di Aldo Rossi o all’eredità concettuale del postmodernismo. Al contrario, nei dipinti privati – se così possiamo definirli – il tono elegiaco si distingue per una qualità particolare, espressa attraverso una grammatica di predilezioni e ricorrenze. In primo luogo, fatta eccezione per i periodici autoritratti, nei quadri di Cantàfora spicca l’assenza di figure umane, ereditata dalla Metafisica novecentesca, ma anche dalle Città ideali del Rinascimento. A ciò si aggiungono le atmosfere immobili, quasi cristallizzate, conseguenza di una volontà di “bloccare un momento di tempo sfuggente, guidato dalla malinconia del ricordo” [8]. Emblematica, in tal senso, è la raffigurazione dell’orologio a muro – talvolta con le lancette ferme su un’ora meridiana (Au prochain toc il sera…, 2023), altre volte senza lancette (L’ora perduta, 2020) -, che rimanda al dipinto L’enigma dell’Ora (1911) di Giorgio De Chirico. Un altro elemento chiave è la luce, fulcro di tutta la sua produzione pittorica, che condensa l’idea di una memoria ricostruttiva e, in un certo senso, palliativa, nell’ossessione, tipicamente hopperiana, per riverberi, riflessi e giochi d’ombra che nei suoi quadri scandiscono gli scorci di interni architettonici: ingressi, corridoi, androni, vani scale e varchi, insomma stanze di transito che, paradossalmente, si trasformano in una teoria di sale d’attesa, dove il flusso temporale sembra interrompersi.
Au prochain toc il sera…, 2023, Vinilico e olio su tavola, cm 70×50
La sospensione evocata da questi luoghi suggerisce una pausa contemplativa. Le pareti bicromatiche, simili a boiserie dipinte, accolgono giochi di luce e ombre: le finestre proiettano arabeschi geometrici (Scale III, 2020) e reticoli luminosi (Porta sul giroscale, 2025; Finestra e fontana, 2025). Gli aditi sono spesso contraddistinti da simbolici pavimenti a scacchiera, immancabili nelle aule dei templi massonici, come nelle case dei primi del Novecento (Au N. 5 de la rue Centrale à Lausanne II, 2024; Stanza con acquaio, 2025). Le stanze con fontane e piscine coperte, simili ad ambienti termali, acuiscono l’impressione di calma e placidità (Primo interno milanese, 1985-2023; Nell’acqua, 2024; Riflessi II, 2020).
Au N 5 de la rue Centrale à Lausanne II, 2024, Vinilico e olio su tavola, cm 50×35
Il tutto è dipinto con una precisione di dettagli che richiama l’acribia descrittiva di certe pagine di Gadda. Ad esempio, quelle in cui lo scrittore delinea, con matematica esattezza, forma e proporzioni delle mattonelle milanesi in uso tra il 1890 e il 1910[9]. Non sorprende che sia Gadda sia Cantàfora siano di estrazione borghese meneghina ed abbiano ricevuto, pur in tempi diversi, una formazione tecnica al Politecnico di Milano: il primo come ingegnere, il secondo come architetto. Un tratto comune, questo, che si riflette nell’approccio analitico, evidente nei rispettivi ambiti artistici.
Riflessi II, 2020, Vinilico su tavola, cm 70×50
Nel caso di Cantàfora, quest’approccio consiste nel saper concentrare, come ha scritto Fulvio Irace, “il suo sguardo ‘esatto’ e iperrealistico su un’idea di spazio abitato, intriso di uno spleen di ascendenza nordica, assai congeniale, d’altra parte, al suo carattere introverso e meditativo”[10]. C’è, però, anche la capacità d’integrare l’esattezza con l’invenzione, cioè di creare qualcosa di diverso a partire da ciò che si conosce. Come nel caso della tavola intitolata Filarete, Codussi (2021), dove due architetture veneziane poste in luoghi diversi della città, vengono affiancate con uno stratagemma che ricorda i postmoderni accostamenti di edifici di La Città banale (1980) o delle Stanze di città. Il quadro rappresenta uno scorcio del sestiere di Castello con la vista dell’abside della Basilica di San Pietro, accanto alla quale si staglia il bianco campanile rinascimentale in pietra d’Istria eretto da Mauro Codussi, mentre a sinistra, su una grande affissione, compare un illusionistico capriccio architettonico con il bugnato di Cà del Duca, palazzo affacciato sul Canal Grande, nel sestiere di San Marco, realizzato, appunto, dal Filarete. “Reinventare spazi conosciuti, è costruire un mattone sull’altro”, confessa Cantàfora, “un luogo già costruito con i mattoni di una conoscenza garantita, e il risultato è ogni volta differente”[11].
Filarete, Codussi, 2021. Vinilico su tavola, cm 80×120
Come nel caso di alcuni d’apres che che riprendono sue opere del passato, inquadrandole in una cornice geometrica dipinta. Ad esempio, Sala teatrale (1975-2023), dove il motivo della visione urbana da un interno anticipa la serie dei Teatri di città e mostra come la conoscenza pregressa degli edifici rappresentati si unisca a una propensione combinatoria fantastica. Una disposizione che ritroviamo in Primo interno milanese (1985-2023), dove le due finestre simmetriche si aprono sulla visione diurna e fluidificante del sobrio carattere costruttivo del capoluogo lombardo.

Primo interno milanese, 1985-2023, olio su tela, cm 80×105
L’elemento inventivo è, in verità, sempre presente nelle opere di Cantàfora, anche se in una forma sottile, invisibilmente intrecciata con la realtà oggettiva di un edificio o di un paesaggio. Un esempio è la grande tela intitolata Stanza di Città Roma (1983), concepita come una sorta di creativa interpolazione tra il modello rappresentato dalla Città analoga(1973), con la sua studiata giustapposizione di edifici di epoche e stili differenti, e il genere settecentesco dei quadri di quadrerie. In particolare, il famoso dipinto Gallerie di vedute di Roma antica (1758) di Giovanni Paolo Pannini, da cui il dipinto di Cantàfora sembra aver mutuato l’impianto architettonico con le grandi volte a botte. Ma l’estro dell’artista si trova anche nel modo in cui continuamente reinventa il tema del rapporto tra interno ed esterno architettonico (Quando ritornerà, 2023; Riflessi II, 2020), quasi traducendo in immagini l’idea di “Ripetizione differente”[12] teorizzata dal filosofo Gilles Deleuze, anticipatrice di quella tendenza postmoderna che nella pittura italiana si sarebbe espressa nelle correnti del Citazionismo, dell’Anacronismo e della Pittura colta. Inventiva e anamnesi s’intrecciano, invece, nel motivo, assiduamente reiterato, della città d’acqua, che comprende tanto i capricci lagunari – da Le Venezie possibili (2014), esposto al Musée des Beaux-Arts di Nancy[13], al già citato Filarete Codussi (2021) – fino alle fantasie nordiche di Giornate di novembre I e Giornate di novembre II, entrambe del 2025, in cui l’artista rappresenta, sotto un cielo boreale, un rettifilo di edifici industriali che si specchiano nelle acque dei canali o delle darsene di una non meglio precisata città dell’Europa settentrionale.
Giornate di novembre I, 2025, vinilico e acrilico su tavola, cm 70×50
Insomma, Cantàfora è un pittore di difficile classificazione. Non è un iperrealista, ma la sua è una pittura esatta, più vera del vero. Non è, come si diceva, un architetto-pittore, sebbene immagini di edifici e interni architettonici affollino le sue opere. Non è un pittore citazionista, nel senso del movimento guidato da Maurizio Calvesi, nonostante il fatto che, come notava qualcuno, nella sua pittura ci sia “il precedente di De Chirico spaziale e, poi, di quegli ambienti spettrali che dalla metafisica derivarono Grosz, Grossberg, Raderscheidt nella Germania degli anni venti; e magari qualche iperrealista, un Monroy e anche i nostri Ferroni, Titonel, Sarri, Ceccotti e quel delirante esistenziale dello spagnolo Lopez Garcia”[14]. È, invece, un pittore cólto, cioè coltivato, istruito, enciclopedico, un po’ anatomista e un po’ entomologo, ma anche tassidermista, modellista, architetto, insegnante e feramatore. Insomma, un pittore unico.
Le secret de l’aleph,2023, vinilico e olio su tavola, cm 70×50
[1] Gianni Contessi, Intervista ad Arduino Cantafora, in Arduino Cantafora. Quadri di un’esposizione, a cura di Francesco Moschini, galleria A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma, 21 febbraio – 13 marzo 1979, edizioni A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma, 1979.
[2] Francesco Moschini, L’architettura della realtà e la realtà dell’architettura, in Arduino Cantàfora, Le stagioni delle case. La Casa del Sole Nascente e l’annesso Ospedale di St. James, Edizioni Kappa, Roma, 1980, p. 5.
[3] Henri Focillon, Elogio della mano, in Henri Focillon, Vita delle forme. Seguito da Elogio della mano, Giulio Einaudi, Torino, 2000, p. 114.
[4] Ibidem.
[5] Luca Ribichini, Arduino Cantàfora. I bastioni di Orione, «AR Magazine», N. 129/130, Rivista dell’Ordine degli Architetti P. P. C. di Roma e Provincia, gennaio-settembre 2024, p. 254.
[6] Ivi, p. 257.
[7] Ivi, p. 258.
[8] Ivi, p. 259.
[9] “…l’apotèma di quelle mattonelle misurava centimetri 5,196: mentrechè il raggio del circolo circoscritto raggiungeva i 60 millimetri: le due misure sono interdipendenti, per il che non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso dell’esagono”. Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa. Disegni milanesi, Adelphi, Milano, 2014, p. 87.
[10] Fulvio Irace, Cose, Case, Città. Cantafora e Mendini a confronto, «Arte», aprile 2016, Cairo Editore, Milano, p.117.
[11] Gianni Contessi, Intervista ad Arduino Cantafora, Op. cit.
[12] Pubblicato in Francia nel 1968, il saggio di Gilles Deleuze, Différence et repétition, è pubblicato in Italia per la prima volta nel 1971, col titolo Differenza e ripetizione, nella traduzione di Giuseppe Guglielmi per i tipi de Il Mulino, Bologna.
[13] Architectures Impossibles, a cura di Sophie Laroche, catalogo dell’esposizione al Musée des Beaux-Arts, Nancy, Francia, 19 novembre 2022 – 19 marzo 2023, Snoeck Publishers, Gand, Belgio, 2022.
[14] Dario Micacchi, Quindici stanze per una casa, «L’Unità», martedì 23 novembre 1982, Società editrice l’Unità, Roma.
Arduino Cantafora. Anamnesi
a cura di Ivan Quaroni
20.02.2025 – 29.04.2025
Antonio Colombo artecontemporanea
Via Solferino 44, Milano

















