di Ivan Quaroni
Manikarnika Ghat 2, 2020, olio su tela, cm 180 X 220
Per descrivere la pittura di Pietro Geranzani sono stati usati spesso i termini di “Realismo” ed “Espressionismo”, rimarcando, in qualche modo, la natura fondamentalmente irrequieta del suo linguaggio, che non si attaglia perfettamente né all’una né altra definizione. Più che ricorrere a una codificazione grammaticale, meglio sarebbe rilevare come la sua “vulgata” figurativa sia equidistante tanto da un approccio puramente mimetico e documentaristico della realtà, quanto da un afflato arbitrariamente immaginifico e fantastico. Si può dire, piuttosto, che la sua pittura (insieme pastosa, tattile, materica) intrattiene con la realtà un rapporto di non-coincidenza. Cioè che è una pittura che affonda nella carne del mondo, ma non vi si limita, eccedendolo sul piano simbolico.
Acquerello 062, 2020, acquerello su carta, 31 x 31 cm.
Questo sovrappiù abita una regione intermedia tra il reale e il fantastico che il filosofo e studioso islamista Henri Corbin ha definito Mundus Imaginalis, una dimensione abitata da visioni che si collocano a metà tra il sensibile e l’intellegibile. Ma è bene precisare che la nozione di immaginale di Corbin non ha nulla a che fare con quella di immaginario. Non indica, infatti, l’universo fantastico e proiettivo, ma un piano dell’essere in cui le forme assumono una densità spirituale che le distacca dalla mera contingenza. Pietro Geranzani non dipinge mai il mondo così com’è. Riesce, invece, a coglierne la vibrazione sottostante (o soprastante), a catturare qualcosa che non si esaurisce nel piano degli eventi fenomenologici. Il che è piuttosto sorprendente, dato che la sua pittura ha spesso un’origine mediatica – cioè si enuclea da un rapporto preferenziale con la fotografia o con il fotogramma di video, che sono già, essi stessi, due strumenti di selezione della realtà. Tuttavia, essendo la sua un’arte non pianificata, erratica, in un certo senso anche improvvisativa, quell’iniziale imprinting fotografico o video (di cui è peraltro spesso l’autore) viene inevitabilmente modificato dal gesto pittorico.
Acquerello 015, 2020, acquerello su carta, 31 x 31 cm.
A livello procedurale, Geranzani parte sempre da uno sguardo che raccoglie e trasfigura frammenti di realtà ordinaria, per poi restituirceli in forma di rivelazioni, epifanie, apparizioni. Il merito è del potere trasformativo della pittura (e della sua in particolare), capace di distillare quell’essenza pura, liberata dal contingente, che è poi la sostanza atemporale dell’immagine. Secondo Jean Clair, il “sentimento di qualcosa d’infinito, d’illimitato, di «oceanico» per riprendere Freud, che solo il neonato sarebbe in grado di sentire come stato primitivo della coscienza, l’uomo «compiuto», l’artista, all’apice della sua vita e della sua opera, avrebbe […] il potere di ritrovarlo e di assaporarlo a suo piacimento come il momento della pienezza conquistata dell’io, e di farlo condividere agli altri.”[1] Così, quando Pietro Geranzani dipinge le scene ambientate in India, a Varanasi, che sono tratte dalla sua esperienza di viaggiatore, ma che fatalmente si espandono fino a toccare un altro ordine di realtà, anche noi avvertiamo una specie di tensione metafisica, qualcosa che trascende la mera rappresentazione di un evento rituale o liturgico.
Manikarnika Ghat 1, 2020, olio su tela, 175 x 200 cm.
In Manikarnika Ghat 1 (2020), ad esempio, il gesto dell’uomo che porge un recipiente d’acqua verso una mano tesa – estensione di un’identità ignota, che sfonda i confini visibili del campo iconografico -, diventa quasi un atto di sacralità disarmante. Il banale viene completamente stravolto, riplasmato dallo sguardo dell’artista in un modo che non sarebbe possibile cogliere se fossimo immersi nel flusso degli eventi. Anche l’immagine dell’altro uomo, quello coperto da ghirlande di fiori e banconote nel dipinto Manikarnika Ghat 2 (2020), ha qualcosa di sfuggente. Si sottrae, insomma, a una leggibilità lineare e ci obbliga a entrare in un campo indeterminato, dove la cognizione logica lascia il campo a ipotesi e speculazioni di altro tipo. E qualcosa di simile avviene, nell’opera intitolata Varallo (2022), dove la tensione drammatica si coagula in un’immagine altrettanto ingannevole. Quello che sembra un atto violento è, infatti, il momento di una sequenza coreografica dove i due danzatori mimano una scena di strangolamento.
Varallo, 2022, olio su tela, 155 x 200 cm.
Insomma, quella di Geranzani è – per usare ancora una definizione di Jean Clair – un’arte liberata dal tempo (zeitlos), perché sposta la visione oltre la soglia fenomenica. Una qualità trasfigurativa che ritroviamo in Opuwo (2020), un dipinto legato a un viaggio dell’artista in Namibia, dove l’attenzione si concentra non sulla spettacolarizzazione dell’esotico, ma sul nodo invisibile che lega corpi, memorie e identità in una curiosa inquadratura rialzata che crea un’atmosfera straniante.
Opuwo, 2022, olio su tela, 180 x 220 cm.
Anche la figura del guerriero in Ritratto di NN, con il copricapo totemico e la postura ieratica, s’impone come una presenza perturbante, manifestazione di un mondo arcaico e primordiale che trascende la dimensione prosaica. Così come accade nei dipinti in cui la pittura esplora la superficie degli oggetti, indagandone la forma e la consistenza. È il caso di Protoreaster Lincki (2019), dove la visione in close up di una stella marina si trasforma in una sorta di topografia aliena.
Protoreaster Linckii, 2019, olio su tela 40 x 40 cm.
Opposta alla densità di questa piccola tela è, invece, l’apparente rarefazione di I’m Susceptible to Stars in the Sky, I’m Incurably Romantic (2019), che spalanca un varco sulle profondità dello spazio siderale. Ma ancora una volta, l’immagine non è, come sembra, una mera visione astronomica, ma piuttosto, e ancora una volta, la proiezione di un altrove che qui diventa simbolo di un sentimento (romantico, appunto) di nostalgia. La pittura di Geranzani è sempre attratta da ciò che è imprecisabile, da ciò che resta al di qua o al di là del dicibile e che, dunque, può essere espresso solo nella dimensione dell’immaginale.
I’m Susceptible to Stars in the Sky, I’m Incurably Romantic, 2019, olio su tela, 170 x 170 cm.
Le opere su carta in bianco e nero accentuano questa qualità. Fanno parte di un più ampio corpus di 62 acquerelli, eseguiti durante la clausura pandemica del 2021, concentrando la potenza espressiva e il rigore formale in un perimetro circoscritto, formato da un foglio quadrato di 31 centimetri per lato. In questi lavori la monocromia non impoverisce la rappresentazione ma, semmai, la concentra in una dimensione ipnotica, dove i contrasti si fanno più netti e le campiture più profonde.
Acquerello 054, 2020, acquerello su carta, 31 x 31 cm.
La pittura diventa anzi un linguaggio che attinge a una forma di conoscenza non lineare, non argomentativa. Le iconografie, che affondano nel repertorio dei media e derivano da fotogrammi televisivi o ritagli fotografici, restituiscono l’impressione fugace di una realtà aleatoria e inafferrabile. Geranzani ci mostra, in fondo, che non c’è bisogno di abbandonare il mondo per coglierne gli aspetti più enigmatici. Basta adottare una prospettiva diversa, guardare con sufficiente intensità. Solo così la pittura diventa una forma di conoscenza visionaria, uno strumento per attingere al Mundus Imaginalis.
Acquerello 055, 2020, acquerello su carta, 31 x 31 cm.
[1] Jean Clair, Critica della modernità. Considerazioni sullo stato delle belle arti, 1984, Umberto Allemandi & C., Torino, p. 36.
Testo scritto in occasione di un evento corporate organizzato da Fondazione Maimeri
Fondazione Maimeri, Corso Cristoforo Colombo 15, Milano










