Let’s meet there, at The old gas station, 2025, acrilico su tela, 130×81 cm
La pittura di Riccardo Nannini nasce dall’attenzione verso ciò che accade ogni giorno, dall’osservazione di momenti della quotidianità che vengono traslati in immagini chiare, intellegibili, di semplice immediatezza. Eppure, dentro l’apparente linearità del suo stile pittorico, si insinua sempre un elemento di incertezza, un dettaglio che introduce nel quadro una leggera tensione e impedisce alla scena di fissarsi in un ordine stabile. È il particolare modo con cui l’artista trasforma il vissuto in una narrazione mobile, aperta all’imprevisto. Non tutto, infatti, nelle nitide immagini di Nannini scorre placidamente. Alcuni elementi iconografici, per esempio, introducono nel racconto qualcosa di dissonante, che trasforma ogni scena in un piccolo mistero.
Welcome, 2025, acrilico su tela, 40×50 cm
Nannini ama dipingere le villette dei sobborghi con i loro giardini e cortili, le desolate stazioni di servizio e perfino i muretti che separano le abitazioni dalle strade un po’ malridotte, insomma quelli che delimitano lo spazio domestico e privato, elidendolo dal contesto pubblico e dall’ambiente naturale. Tutti luoghi che sembrano usciti da una pellicola di David Lynch o di Tim Burton, ma che l’artista vira in un immaginario da fumetto o cartone animato, con cui racconta storie reali o almeno plausibili. Sono posti immobili, luoghi d’attesa in cui mancano il chiasso e lo strepito della vita reale. Anche quando le scene sono affollate di figure, nei dipinti dell’artista si ha la sensazione che i personaggi siano consapevoli di essere osservati, come se stessero “recitando” la vita. Che stiano partecipando a una festa improvvisata, come in The Old Gas Station (2025), o posando in costume per una foto ricordo, come in The Carnival Party (2025), gli uomini, le donne e perfino gli animali di Nannini hanno sempre una strana fissità, come attori colti nel fermo immagine di un film muto. Eppure, Nannini adotta una tavolozza limpida, dominata da rosa, azzurri e verdi che danno all’immagine una luminosità diffusa e rendono l’atmosfera allegra. Ma, allora, perché tutto questo silenzio? Come si spiega questa enigmatica e imbambolata sospensione in un contesto evidentemente feriale? L’artista sceglie colori accesi, dispone le figure e distribuisce i pesi nello spazio, riuscendo a ottenere questo curioso contrasto che fa vibrare ogni scena.
The Unicorn, 2025, acrilico su tela, 50×40 cm
Molto, nel linguaggio pittorico di Nannini, nasce da una formazione da autodidatta. L’artista ha costruito il proprio mestiere attraverso una pratica costante, lo studio diretto della tradizione figurativa italiana e un confronto continuo con la cultura visiva contemporanea. Le esperienze nel campo dell’architettura e del design gli hanno fornito gli strumenti per pensare per immagini e per strutturare la rappresentazione con estremo rigore. Il trasferimento dalla Toscana a Barcellona lo ha poi portato a contatto con la cultura spagnola. La città catalana, con la sua luce netta, i colori saturi e la vitalità delle strade, ha introdotto nella sua pittura una dimensione più diretta e concreta. In quella realtà, nutrita dai contrasti della vita urbana, Nannini ha trovato un modo originale di raccontare il quotidiano intrecciando esperienza, osservazione e memoria. Dal punto di vista artistico, sono stati importanti anche l’incontro con il Pop Surrealismo americano – mediato in Spagna da artisti come Sergio Mora e Joan Cornellà – e con la tradizione del Costumbrismo, variante iberica della pittura di genere ottocentesca, che trae ispirazione dagli abiti, dai costumi e dagli usi popolari. Tutti questi influssi sono confluiti in un linguaggio misurato, in cui coesistono levità, ironia e attenzione verso le dinamiche sociali e culturali della contemporaneità.
Carnival Party, 2025, acrilico su tela, 40×50 cm
Nonostante l’atmosfera festosa e i colori vivaci, nella pittura di Nannini la calma è solo apparente. Una sottile inquietudine, infatti, percorre le sue narrazioni, mostrando come la vita civile si basi sul precario equilibrio tra forze strutturanti e caotiche. “Camminare sulla linea”, dice Riccardo Nannini, “significa vivere in bilico tra armonia e pericolo, tra leggerezza e disincanto”. Il titolo Walk the Line, rubato a una canzone di Johnny Cash, descrive appunto la volontà dell’artista di osservare la quotidianità e i suoi frequenti slittamenti nell’irrazionale. Dal punto di vista linguistico, Nannini riesce a creare una sorta di polarità tra una grammatica formale controllata e un contenuto iconografico dissonante.
Tiger Queen, 2024, acrilico su tela , 73×92 cm
Un esempio è Breakfast with Wolves (2025), che mostra due aspetti divergenti di una tranquilla domenica mattina. Il dipinto raffigura una coppia che fa colazione nel giardino di casa, una tipica villa monofamiliare del suburbio occidentale, mentre fuori, oltre il muretto che separa la loro proprietà dal vialetto esterno, sul manto sbrecciato del marciapiede, si aggirano due lupi selvaggi. Sono due mondi che s’incontrano: quello privato, all’apparenza familiare e rassicurante, e quello pubblico, caotico, pericoloso, dove, appunto, infuriano i lupi. In Tiger Queen (2024), al di qua di un analogo muro di cinta, oltre il quale si scorge l’ennesima villetta ordinata, una donna con una tigre al guinzaglio passeggia su un viottolo disseminato di simboli della società dei consumi: una banconota, il pasto di una famosa catena di fast food, un orologio, alcune pillole, un mozzicone di sigaretta. Intanto, un uomo fotografa la scena, come se si trattasse di un servizio di moda. È una visione inconsueta, che normalizza l’eccedente e il bizzarro, presentandoli come qualcosa di “cool”.
Breakfast with Wolves, 2025, acrilico su tela, 92×73 cm
Welcome (2025) propone, invece, una scena più esplicita: siamo questa volta all’interno dello steccato, nel giardino di una tradizionale casetta di legno. Sull’acciottolato che porta all’ingresso, il proprietario, imbracciando un fucile, attende forse un ospite indesiderato. Intorno a lui ci sono i segni di un’esistenza ordinaria, regolare, da cui non traspare alcun indizio di squilibrio. Ma è proprio qui, nell’apparente normalità, che la linea di confine s’incrina e l’irrazionale minaccia di irrompere. In fin dei conti, con la sua pittura, Riccardo Nannini rappresenta la normalità come una soglia percettiva, uno spazio in cui la regolata struttura del visibile cela, appena sotto la superficie, le forze disgregatrici dell’entropia.
«L’aurea luce dell’essere soprasostanziale, circondando i profili futuri, li manifesta e dà la possibilità al nulla astratto di passare a un nulla concreto, di diventare potenza»[1]. (Pavel Florenskij)
Brebus, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
“John Cage dice che non sapere da dove cominciare è una forma comune di paralisi. Il suo consiglio: cominciare da qualsiasi parte”. Lo scrive il designer canadese Bruce Mau nel suo celebre Manifesto incompleto per la crescita[2], un breve vademecum in 43 punti per creativi e progettisti pubblicato nel 1998. In effetti, è noto che John Cage si serviva di tecniche aleatorie e casuali per eliminare ogni aspetto soggettivo nella composizione delle sue opere. Ad esempio, usò l’I Ching – l’antico libro cinese dei mutamenti, una specie di compendio della saggezza taoista nella forma di profetici esagrammi – per creare nel 1951 l’opera per pianoforte Music of Changes. Prima di lui, i surrealisti avevano esplorato lo stesso principio con le pratiche dell’automatismo psichico e dei cadaveri eccellenti[3], che servivano ad aggirare la sorveglianza del pensiero logico e a far emergere le associazioni dell’inconscio. “Viviamo ancora sotto il regno della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare”, scriveva, infatti, André Breton nel Manifesto surrealista del 1924, “ma ai giorni nostri, i procedimenti logici non si applicano più se non alla soluzione di problemi di interesse secondario”.
Wellspring, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
Un’eco della riflessione di Breton si può trovare anche nell’attitudine di Paolo Pibi a superare la tradizionale formula della creazione pittorica. Quella, cioè, che traduce l’idea iniziale in una serie di studi e bozzetti preparatori, passa poi allo studio delle luci e dei colori e giunge, infine, all’esecuzione del dipinto. Una metodologia standard che, secondo l’artista, non porta nessuna novità all’interno della prassi pittorica.
Ascend, 2025 , acrilico su tavola, 70×50 cm
“Chi dipinge ragionevolmente”, afferma, infatti, Pibi, “non fa altro che eseguire un compito [perché] la ragione ci guida in strade già battute”[4]. A differenza dei surrealisti, da cui spesso prende le distanze, Pibi non è interessato all’elemento inconsapevole o subcosciente dell’automatismo psichico. Al contrario, rinunciando al classico iter creativo, che include la ricerca di fonti iconografiche e modelli a cui ispirarsi, prova invece a capire in che modo nascono le idee, come diventano immagini e, soprattutto, come possono essere tradotte in una pittura esatta, fedele all’originaria forma epifanica.
Moonlit Depths, 2025, acrilico su tela, 30×20 cm
Un’epifania è, in senso più ampio, un’apparizione, una forma che viene alla luce. Nel caso di Pibi è un’immagine che si coagula nella coscienza prima che l’artista la dipinga su tela. In molti hanno scritto che la sua è una pittura meditativa, ma è una definizione piuttosto generica. Infatti, molti artisti considerano la pratica pittorica come una forma di meditazione. Nel suo caso, questa propensione si manifesta nella forma di un’inconsueta capacità di concentrazione, o meglio di una particolare ricettività nei confronti delle forme che si producono nella mente e che affiorano alla coscienza vigile. Per lui “non sapere da dove cominciare” – come scrive Bruce Mau -, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per dipingere. Bisogna, infatti, fare a meno di qualsiasi elemento possa influenzare la creazione, come il ricorso a foto, disegni o altro che non provenga direttamente dall’occhio interiore dell’artista.
Layers, 2025, acrilico su tavola, 50×70 cm
Pibi non parte da un’idea, ma trova le immagini in itinere. Il paesaggio, che è un tema iconografico ricorrente nel suo lavoro, ha a che fare con questa prassi. L’artista comincia, quasi sempre, col dipingere la volta celeste, una campitura uniforme che, solo in seguito, si riempie di presenze: l’ingombro delle nubi (Thershold, 2025), la scia luminosa delle stelle cadenti (Brebus, 2025), una processione di lune aliene (Moonlit Dephts, 2025), le maglie di una matrice reticolare (Fisherman Cottage, 2025), perfino un pattern che sembra uscito da una tela di Peter Schuyff (Anchor Point, 2025). Dal cielo l’attenzione si sposta alla conformazione del paesaggio, come in un graduale discendere verso uno stato di maggiore concentrazione. E allora affiorano le montagne, i boschi, i prati e i pianori rocciosi.
Source, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
Giunto alla definizione del primo piano, lo stato di raccoglimento è massimo, la contemplazione ha raggiunto la sua acme. Affiorano, quindi, le immagini più inaspettate: una teoria di pneumatiche pepite d’oro (Sacrae Symphoniae, 2025), una figura femminile smaterializzata, come un aggregato di particelle dipinto da un pittore puntinista (Liminal, 2025); un pozzo freatico illuminato nel recesso di una caverna (Wellspring, 2025); un vecchio fontanile sbrecciato col murale sbiadito di una Madonna (Source, 2025); infine una natura morta psichedelica, con fiori e steli iridescenti (Luminary 1, 2025) e una vanitas con fiammelle fluttuanti come spettrali fuochi fatui (Luminary 2, 2025).
Luminary 1, 2025 , acrilico su tavola, 30×25 cm
Sono effigi improvvise, figure fuori contesto che trasformano i quadri di Pibi in sogni lucidi, fatti di panorami minuziosamente descritti, oggetti fedelmente cesellati, ineccepibili morfologie che la perizia dell’artista rende credibili, quasi reali. Tutto ciò che nella sua pittura può sembrare soggettivo, capriccioso, arbitrario è, invece, il risultato di una fedele restituzione delle visioni interiori, il frutto di una zelante acribia nel tradurre in termini ottici la natura di quelle apparizioni.
Thershold, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
Semmai, quel che è personale, perfino stravagante, è il suo approccio ai materiali e un certo suo modo di “confezionare” i dipinti che guarda alle esperienze estetiche del design. Dipinti come Saint Denise (2025), Brebus, Sacrae Symphoniae e Thershold, ad esempio, testimoniano un certo gusto per l’impaginazione grafica. Sono, infatti, tutti dipinti di piccole dimensioni dove i soggetti iconografici dei tondi sono inscritti in superfici quadrate monocromatiche, che recano agli angoli le lettere del cognome dell’artista (P, I, B, I). Fanno da cornici a questi dipinti, come pure alle tele rettangolari Moonlit Dephts e Fisherman Cottage, degli spessi elastici colorati. Invece, a far da perimetro all’opera Anchor Point è una lunga cinghia di fissaggio, simile a quelle usate per assicurare i carichi durante un trasporto.
Super, 2025, acrilico su tavola, 70×23 cm
La tavola ovale su cui è dipinto Super (2025), un paesaggio artico con tanto di foro circolare e segnalatore per la pesca su ghiaccio, è addirittura inserita nel piatto di una racchetta da tennis, al posto delle corde. L’interazione tra la tavola e il supporto dà origine a più di una suggestione. Così, mentre la griglia ortogonale delle corde sembra essere migrata nel dipinto, dove assume le sembianze dell’iridato reticolo stagliato sulla calotta boreale, la racchetta che fa da cornice al quadro evoca, come un ritratto in absentia, la forma delle ciaspole usate dagli eschimesi per camminare sulla neve.
Fisherman Cottage, 2025, acrilico su tela, 30×20 cm
A parte le concessioni a quella che si potrebbe definire come una specie di estetica orientata all’oggetto, la pittura di Pibi non subisce altre distrazioni. Si concentra, piuttosto, sulla creazione di un immaginario che mira a raggiungere un alto grado di realtà. E reali, in un certo senso, le immagini che si formano durante il processo pratico e contemplativo di Pibi, lo sono davvero. Soprattutto perché scaturiscono da una percezione attenta, da una condizione di sorveglianza e discernimento dei recessi mentali. Vale a dire da una disposizione d’animo radicalmente diversa da quella che caratterizza la cosiddetta arte medianica dei sensitivi.
Sacrae Synfonie, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
Se, come afferma l’esperta Paola Giovetti, “nel capriccioso e bizzarro mondo del paranormale ci imbattiamo in fenomeni sconcertanti, in produzioni artistiche che sgorgano senza la partecipazione cosciente dell’autore […]”[5], nel caso di Pibi l’arte è il prodotto di un’attività lucida, letteralmente chiaroveggente, dalla quale zampillano piccoli universi plausibili, mondi minimi distillati in uno spazio stringato e conciso, ad altissima densità immaginativa.
Luminary 2, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
[1] Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémire Zolla, 1977, Adelphi Edizioni, Milano, p.157.
[3] Il Cadavre exquis, o “cadavere squisito”, è un gioco collettivo di scrittura o disegno su carta, nel quale più partecipanti contribuiscono alla creazione di un testo o di un’immagine senza conoscere ciò che gli altri hanno realizzato prima di loro.
[4]Intervista di Ilaria Introzzi, Nouvelle Factory, 2020, in Paolo Pibi. Luminarium, a cura di Chiara Manca, catalogo della mostra omonima, 19 gennaio – 10 febbraio 2023, Fondazione Bartoli-Felter, Cagliari.
[5] Paola Giovetti, Arte medianica. Pitture e disegni dei sensitivi, 1982, Edizioni Mediterranee, Roma, p.16.
La sana abitudine, 2020, tecnica mista su tela, 130×120 cm
Peter Sager, autore di un meticoloso studio sulle declinazioni del Realismo nell’arte contemporanea, scrive che “Non c’è rappresentazione della realtà senza il suo concetto, senza una visione almeno quotidiana di essa, senza l’esperienza e la concezione di tutto ciò che la realtà è per ogni epoca.”[1] I modi in cui oggi vediamo la realtà non sono gli stessi dei pittori realisti francesi dell’Ottocento. A dividere Courbet dall’epoca moderna sono i nuovi strumenti di documentazione del reale: la fotografia, il cinema, la televisione, la cartellonistica pubblicitaria, il web, pratiche, tecniche, dispositivi che hanno radicalmente ridefinito la nostra concezione di realtà. L’odierno pittore realista non cerca più di rappresentare una storia, cioè di dare corpo a una narrazione visiva, ormai dominio quasi esclusivo di altri media, ma usa la pittura per osservare e cogliere l’essenza degli oggetti nella loro apparenza.
Se non ora, quando?, 2022, tecnica mista su tela, 88×110 cm
Philip Rallo appartiene a questa categoria. La sua arte nasce da un gesto lento e disciplinato, da una disponibilità a vedere che restituisce alle immagini il tempo necessario per formarsi. Dai suoi dipinti promana una sensazione di ordine e controllo, una chiarezza costruttiva che suggerisce un rapporto meditato con la forma. Le proporzioni sono calibrate, la luce distribuita con misura, la materia organizzata in modo coerente, come se il quadro nascesse da un progetto interiore fondato sulla precisione. Le superfici pittoriche restituiscono l’idea di una esecuzione meticolosa, fatta di verifiche e ripensamenti, di passaggi successivi che sedimentano nella consistenza del colore e nelle trame segniche dei tessuti. Si può, infatti, capire come la sua pittura sia fondata su una procedura costruttiva paziente, articolata, in cui molto è dovuto all’abilità tecnica e a quello che una volta si chiamava mestiere.
Morning Bliss, 2023, tecnica mista su tela, 80×103 cm
La sua formazione, d’altronde, racconta molto di questa attitudine. Gli studi di architettura compiuti tra gli Stati Uniti e le facoltà di Genova e Milano gli hanno trasmesso il senso delle proporzioni e la consapevolezza dello spazio. Alla scuola di illustrazione del Castello Sforzesco di Milano ha invece affinato il controllo del segno e la precisione del dettaglio. Poi, l’esperienza professionale nel mondo della pubblicità, in particolare, ma non solo, nel settore prodotti alimentari, gli ha permesso di comprendere a fondo la meccanica della visione e la capacità del colore di trasformare la materia pittorica in un’immagine desiderabile. È lì, infatti, che l’artista ha imparato la grammatica della luce e la strategia della persuasione ottica, un sapere che oggi, traslato in pittura, diventa riflessione lenta, quasi meditativa, sull’atto stesso del guardare.
Gran soffice, 2020, tecnica mista su tela, 240×115 cm
Quando passa all’atto pittorico, Philip Rallo trasforma quella linearità progettuale in un esercizio di armonia visiva, nella quale il colore diventa materia e la forma trova una misura sensibile. L’artista regola la densità dell’impasto, lima gli equilibri tonali, affina i rapporti tra pieni e vuoti fino a raggiungere una coerenza che si percepisce anche nei più minuti dettagli dell’immagine.
I soggetti prediletti da Philip Rallo appartengono, con qualche rara eccezione, all’universo domestico: bicchieri, tazze, posate, tovaglie, ma soprattutto dolci, frutti, latte, marmellata, miele e cioccolato, insomma tutto l’armamentario visivo di un’ideale colazione italiana o di un goloso spuntino pomeridiano, trattati come immagini attraenti. Frollini, croissant, tavolette di cioccolato e poi spicchi di panettone, croccanti da colazione con burro e miele, fette di pane con marmellata o crema di nocciole sono soggetti osservati con la pazienza di chi vuole non solo capirne la consistenza ottica e tattile, ma anche metterne alla prova la capacità seduttiva, quello che nel gergo pubblicitario si chiama appetizing, ossia la capacità del messaggio, sia esso visivo o testuale, di rendere un prodotto alimentare appetibile, invitante per suscitare nel potenziale cliente il desiderio di acquisto e di consumo immediato.
Doppiamente buono, 2022, tecnica mista su tela, 110×130 cm
Guardando i suoi lavori si riconoscono i riferimenti che Philip Rallo assimila senza ostentazione, come parte di una genealogia consapevole. Dalla Pop Art americana, per esempio, ricava la coscienza della cultura visiva contemporanea, la consapevolezza che l’immagine commerciale fa parte del nostro quotidiano e che il mondo del consumo ha generato un repertorio estetico comune. Si pensi, ad esempio, a lavori come Sandwich and Soda di Roy Lichtenstein (1964), White Bread di James Rosenquist (1964), oppure ai molteplici dolci dipinti da Wayne Thiebaud e alle monumentali fette di torta di Claes Oldenburg (Floor Cake, 1962). Con l’Iperrealismo, invece, ha in comune l’ossessione per il dettaglio, la definizione delle forme e la pulizia del segno, non, però, la freddezza fotografica, sostituita da un approccio squisitamente pittorico, visibile soprattutto nelle trame di tovaglie e canovacci. In alcune opere si avverte perfino una sintonia con i modi della pittura di Domenico Gnoli nella minuzia dei particolari, trattati come elementi quasi autonomi dell’immagine. Infine, il piacere con cui delinea schemi e motivi decorativi delle stoffe e dei tessuti su cui apparecchia le sue gustose still life fanno pensare a certa Pattern Painting americana o ad artisti Neo Geo come Peter Schuyff.
The Healthy Choice, 2022, olio su tela, 95×100 cm
Nella pittura di Philip Rallo è infine inevitabile riconoscere anche l’influsso della Metafisica, evidente nell’equilibrio della composizione e nell’attenzione con cui l’artista scandisce gli oggetti nello spazio. Questo patrimonio genetico si traduce in un principio costruttivo fondato sulla limpidezza formale, sulla precisione delle proporzioni e sulla sapiente distribuzione della luce che definisce con esattezza ogni dettaglio. Da questa impostazione deriva la sensazione di estrema compostezza, in cui ogni elemento dell’immagine sembra occupare il proprio posto naturale. È, però, un rigore formale che non crea un’atmosfera algida. Semmai acuisce la nitidezza delle figure, restituendo alle cose la loro piena e fragrante evidenza.
Dolce in un modo pazzesco, 2022, olio su tela, 110×97 cm
Nonostante l’estrema leggibilità della pittura di Rallo, nella sua opera non tutto si trova sulla superficie. Per lui vale, infatti, quel che scrive Riccardo Dottori a proposito dell’arte di De Chirico, cioè che “le forme sono l’espressione del significato a cui rinviano, ma il significato è sempre qualcosa di più dell’espressione: un invisibile presente nel visibile perché quest’ultimo possa essere visto e compreso”[2]. Sebbene sia vero, infatti, che nella memoria visiva dell’artista riaffiora, com’è ovvio, il linguaggio della pubblicità italiana degli anni Settanta e Ottanta, con le sue luci uniformi e le sue composizioni equilibrate, è altrettanto evidente che le iconografie di Rallo, nate, in origine, per sedurre il consumatore, trovano nella sua pittura un tempo nuovo, più lento e meditativo. Ciò che era pensato per durare il tempo di una campagna pubblicitaria acquista spessore e consistenza. Le immagini commerciali, nate per una fruizione rapida, perfino distratta, diventano forme pittoricamente strutturate, formalizzate in uno stile riconoscibile, ma senza alcuna intenzione nostalgica. L’artista le riporta appunto alla lentezza della pratica pittorica e a un tempo di osservazione che carica le cose di nuovi significati.
La sana abitudine 2, 2023, tecnica mista su tela, 128×115 cm
E a pensarci bene, anche solo vedere quelle immagini affrancate dall’abituale palinsesto visivo che le accompagna nelle confezioni dei prodotti alimentari, produce un effetto straniante, quasi liberatorio. Senza il contesto narrativo, gli elementi simbolici del marchio, le scritte secondarie, lo stile del lettering che caratterizzano il packaging degli alimenti industriali, infatti, le immagini riacquistano una sorta di originaria innocenza, tornano ad essere semplicemente forme dipinte, pittura pura. Allora, in questo senso, l’arte di Philip Rallo può diventare un viatico contro la dissipazione dello sguardo, una testimonianza di come la pittura sia una pratica capace di trasformare la visione in un atto consapevole, ricordandoci che vedere è, prima di tutto, un altro modo di pensare.
La dolce bontà, 2021, tecnica mista su tela, 95×150 cm
[1] Peter Sager, Le nuove forme del realismo, 1976, Gabriele Mazzotta editore, Milano, p. 9.
[2] Riccardo Dottori, Giorgio De Chirico. Immagini metafisiche, 1976, La Nave di Teseo, Milano, p. 31.
All’evento la Galleria partecipa con lo stand personale dedicato all’artista Philip Rallo, dove verrà esposta una selezione delle sue opere più recenti.
Una tira l’altra, 2023, tecnica mista su tela, 100×140 cm
“Andremo di metamorfosi in metamorfosi, inesorabilmente”. (Alejandro Jodorowsky)
Peso specifico, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×120 cm
Il percorso pittorico di Daniela Volpi si configura come una progressiva immersione nella materia. Nelle opere precedenti l’artista si era concentrata sul volto come luogo privilegiato della manifestazione interiore. Quei volti sospesi in campiture monocrome restituivano l’impressione di icone sottratte alla mercificazione visiva, immagini femminili depurate dalle convenzioni mediatiche e restituite a un’aura sacrale. L’attenzione era rivolta allo sguardo, inteso come soglia di accesso a una dimensione che oltrepassa la mera rappresentazione. Ogni volto appariva come epifania di un enigma, immagine paradigmatica della bellezza intesa come necessità dell’anima.
Nella nuova serie di opere, riunite sotto il titolo Trasformazione, il baricentro si sposta sulla rappresentazione del corpo intero, che diventa soggetto e superficie insieme, forma che nasce direttamente dalla sperimentazione di nuovi materiali che introducono nella pittura qualità imprevedibili. L’artista utilizza, infatti, accanto ai più tradizionali acrilici, anche sostanze inartistiche come la ruggine e il cemento, con le quali plasma non solo le figure femminili – che costituiscono il centro focale della sua indagine – ma anche gli ambienti, tutti giocati su un’elegante e ridottissima palette di colori. La ruggine, con la sua natura mutevole, lascia tracce che non seguono un disegno preimpostato. Le colature si diffondono, ispessendosi in punti che diventano macchie incandescenti o depositi bruni, e generando, così, superfici instabili che somigliano a morfologie minerali.
Corpi in ruggine, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 100×100 cm.
Il cemento aggiunge consistenza, fornisce basi e blocchi che sostengono le figure, ma introduce anche un elemento di artificialità che allude alla dimensione urbana e innaturale della vita contemporanea. L’incontro di queste due sostanze genera un tipo di pittura in cui al gesto dell’artista si somma la reazione dei materiali che portano nel quadro una memoria autonoma. Ogni opera diventa, così, un campo attraversato da fenomeni chimici e fisici che plasmano le figure. L’incontro di queste sostanze è parte di un procedimento creativo erratico, in cui l’opera si forma in itinere, cioè senza seguire un progetto prestabilito. L’artista procede, infatti, intuitivamente, cercando proprio nei materiali utilizzati i motivi e le soluzioni che determinano il formarsi dell’immagine. Un esempio si trova nelle speculari tele intitolate Corpi in ruggine (2025), che insieme formano un ideale dittico. Qui i corpi affiorano dal fondo ossidato attraverso colature che tracciano linee di contorno fluide e indeterminate. Le anatomie compresse, strette in un viluppo di nervi, muscoli e ossa si stagliano sulla ruggine come sculture acefale. Le macchie ferrose imprimono su queste membra il segno irrimediabile del tempo, lasciando allo spettatore la percezione di un organismo irrisolto, instabile, in continua metamorfosi.
Nei due dipinti intitolati Distanze (2025) – anch’essi pensabili come una sorta di diade – l’attenzione si concentra, invece, sul rapporto tra la figura e lo spazio, tra l’ingombro dei corpi e l’ambiente pneumatico che vi si oppone. In una tela, è raffigurato un corpo femminile, di cui ancora una volta non vediamo il volto, seduto a gambe incrociate e con i palmi delle mani rivolti verso il cielo, come in una sorta di solenne supplica. Nell’altra, la postura è irregolare, contorta, avvoltolata su sé stessa. In entrambi i casi l’epidermide è irrorata dai riflessi sanguigni della ruggine, in contrasto con lo sfondo grigio, percorso da erosioni e dilavate striature. Sono opere in cui lo spazio vuoto diventa elemento quasi tangibile, una presenza solida che regola la relazione tra i due corpi, generando una forte corrente emotiva.
Sia Corpi in ruggine che Distanze introducono per la prima volta la rappresentazione di corpi senza volto, ma adombrano anche il tema del doppio, che affiora nella presenza di figure doppie, che rimandano all’esperienza biografica dell’artista e al forte legame con la sorella gemella Cristina. Tuttavia, nelle opere di Daniela Volpi la gemellarità non corrisponde mai a una simmetria perfetta. C’è sempre uno scarto, una differenza che preserva l’unicità individuale. Le sue figure riflettono una condizione di costante sdoppiamento, come se la condizione di costante metamorfosi (interiore ed esteriore) generasse sempre una forma altra, una specie di alter ego che accompagna l’individuo nel proprio percorso. Si può dire che in queste tele la duplicazione di figure diventi un momento essenziale del processo di trasformazione, cui fanno eco anche i diversi stati di ossidazione. Le posture chiuse, i corpi serrati in sé stessi rimandano, invece, a uno stato di gestazione interiore, come nel caso dell’opera Equilibri (2025) in cui sono rappresentate due figure sedute in posizione raccolta su un massiccio basamento di ferro. In questo dipinto, dove le aree ossidate diffondono vibrazioni cromatiche irregolari e le campiture cementizie dello sfondo conferiscono all’immagine una severa uniformità, torna il motivo dello sdoppiamento e della moltiplicazione dell’immagine, che qui non assume mai il carattere negativo e perturbante del doppelgänger freudiano. Le figure gemellari, pressoché identiche, differiscono solo per dimensioni e consistenza: solida e compatta la figura grande in primo piano, evanescente e fantasmatica quella piccola, contornata da una sottile linea aurea. Eppure, c’è tra loro una evidente corrispondenza morfologica ed emotiva, come se, oltre alla fisionomia, fossero legate da identici stati d’animo.
Dualità, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×120 cm.
Qualcosa di analogo succede anche in Dualità (2025), un dipinto dove due corpi similari, accovacciati ognuno su un piedistallo, alla stregua di sculture viventi, si differenziano non solo per l’ineguale dimensione, ma anche per la diversa intensità di definizione: una figura più delineata, l’altra più sfumata. Dissimili sono anche le texture che caratterizzano questi nudi ambigui, per la prima volta non espressamente femminili. Nella figura minore, a sinistra, le venature ferrose solcano l’epidermide come tatuaggi tribali, mentre nella maggiore, a destra, la pelle è percorsa da screpolature, infiorescenze e corrosive incrostazioni. Qui la duplicazione è eteroclita, irregolare, anomala e genera nel campo pittorico due distinte varianti iconografiche, che avvalorano la tesi della singolarità nella similarità.
Equilibri,2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×100 cm
L’impatto dell’uso di ruggine e cemento diventa oltremodo evidente nel dipinto intitolato In bilico (2025), in cui la figura femminile, rappresentata in posizione contratta su un basamento chiaro, col busto piegato in avanti e le braccia raccolte, presenta sul dorso un curioso pattern a losanghe esagonali, generato dalle ossidazioni ferrose. Queste venature di ruggine segnano la superficie del corpo come una trama di ramificazioni organiche. La base che regge il corpo e ne sottolinea il peso, è caratterizzata da una pellicola pittorica crepata e difforme, che simula perfettamente la consistenza di vecchio blocco cementizio. Daniela Volpi ci offre qui un’immagine di disarmante fragilità attraverso la rappresentazione di una figura in precario equilibrio, che sembra opporsi alla condizione di instabilità con la sola forza interiore.
Il ciclo raggiunge il suo momento apicale nell’opera Peso specifico (2025), che mostra tre donne collocate su diversi basamenti. La prima, trattata con campiture di ruggine, trasmette densità e solidità. La seconda, più rarefatta, suggerisce una condizione intermedia, sospesa tra formazione e dissolvenza. La terza, costruita con cemento, appare radicata pur poggiando su una base trasparente. L’opera raccoglie, quindi, tre modi di intendere la figura, ciascuno caratterizzato da una diversa qualità materica. L’artista gioca sull’ambivalenza tra ciò che appare e ciò che è, tra ciò che sembra solido e può rivelarsi vuoto e ciò che appare fragile, ma rivelare sorprendentemente una grande forza. “È in questo dialogo tra pesantezza e leggerezza”, spiega Daniela Volpi, “che si compie la metamorfosi dell’essere, la sua trasformazione appunto”.
In bilico, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 100×100 cm
Questa articolazione di stati materici e corporei trova riscontro nell’intero ciclo, costituito come una sequenza di figure ridotte ad atti essenziali e collocate in posture concentrate. La scelta di Daniela Volpi non è, infatti, quella di raccontare una storia, ma di fermare, per così dire, una serie di gesti elementari e significativi – sedersi, piegarsi, inginocchiarsi, rannicchiarsi – e di affidare a queste configurazioni minime il compito di esprimere il senso dell’opera. È così che la metamorfosi evocata in Peso specifico diventa un principio ordinatore di tutta la serie, dove ogni quadro rappresenta la tappa di un processo evolutivo.
La principale caratteristica di questa serie è il trattamento delle superfici pittoriche, che mostrano colature, abrasioni e screpolature, tracce dell’inesorabile trascorrere del tempo. Se le zone ossidate diffondono una gamma di cromie calde e vibranti, le campiture di cemento introducono elementi freddi, che assumono la forma di compatti blocchi geometrici. Da questa commistione di materiali inconsueti, nasce ogni figura, che si presenta come emanazione diretta della materia. Le donne di Volpi, infatti, si stagliano nello spazio pittorico come presenze concrete, ineludibili, testimoni di un passaggio, di un momento esistenziale transitorio che resta aperto a ulteriori metamorfosi. Ed è proprio in questa adesione totale alla materia che si riconosce la cifra più autentica della ricerca di Daniela Volpi, un’indagine che finalmente restituisce alla pittura un carattere di essenzialità e di necessità.
My native land, 2023, acrylic on canvas, 235×95 cm
Tra paesaggio e identità nazionale esiste una relazione che spesso sfugge a chi è abituato a considerare il primo semplicemente come una estensione dell’ambiente naturale. Secondo la Convenzione europea del paesaggio, un documento promosso dal Consiglio d’Europa a Firenze nel 2000, a cui hanno aderito 40 paesi, tra cui l’Ucraina, “esso designa una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Ciò significa che, come tutte le cose plasmate dall’uomo, il paesaggio è un luogo carico di memorie, proiezioni, aspettative e significati che possono tradursi in valori identitari o nazionali.
La pittrice ucraina Iryna Maksymova interpreta emblematicamente questo aspetto del paesaggio, trasfigurandolo in un immaginario visivo che attribuisce al corpo umano (soprattutto femminile) un ruolo centrale nella programmatica rappresentazione della forza e vitalità di una nazione assediata. Sul corpo, e dunque sull’esperienza concreta e sensibile della realtà, si fonda, infatti, il concetto di appartenenza al paesaggio e, per estensione, all’identità culturale e nazionale.
Divka, 2024, textile, 155×130 cm
Nativa di Kolomyia, una cittadina nella provincia di Prykarpattia caratterizzata dalla presenza di una forte tradizione legata alla pittura popolare e alle produzioni delle arti applicate, Iryna Maksymova traduce il proprio interesse per il folclore ucraino e per l’arte ingenua in un lessico figurativo capace di combinare le suggestioni del passato con le urgenze del presente. Nei suoi dipinti e nei suoi arazzi tessuti a mano il tema dell’identità nazionale si sovrappone a motivi legati all’emancipazione femminile e alla sensibilità ecologica, sfociando in una dimensione estetica che attinge tanto all’arte degli outsider quanto alla cultura visiva del graffitismo esteuropeo (di cui fanno parte anche i connazionali Aec e Waone, del duo Interesni Kazki).
Don’t bother, 2023, acrylic on canvas, 120×95 cm
Il titolo di questa mostra, Landscape’s Body, si riferisce in particolare alla riflessione sulle ferite e le modificazioni subite dal territorio ucraino a causa della guerra con la Russia. La recente produzione di Iryna Maksymova ruota attorno alla rappresentazione simbolica del proprio paese. L’artista prende spunto sia dalla fonetica femminile di parole come “Paese” (країна) e “Ucraina” (Україна), sia dalla personificazione, anch’essa femminile, della “Madre Patria”, così come è rappresentata nel gigantesco monumento de-sovietizzato che guarda verso est, dalle colline che sovrastano la sponda destra del fiume Dnepr, dove sorge la Kiev storica. Da qui deriva la rappresentazione di figure femminili che incarnano il vigore e la vivacità di una nazione resistente, che non si lascia abbattere dalle drammatiche vicende belliche.
Quelli dipinti da Maksymova sono nudi di ragazze e donne dalla fisicità prorompente, dee di un Olimpo rivisitato, come la Leda di Becoming a Swan o le orgiastiche Muses, che celebrano il lato panico ed erotico dell’esistenza, abbattendo pregiudizi e tabu che da secoli stigmatizzano la fisicità femminile. Ma sono anche fanciulle innocenti, giovani indifese protette da temibili guardiani, come gli animali custodi del dipinto Safekeeper e dell’arazzo Little Princess.
Safekeeper, 2023, acrylic on canvas, 95×95 cm
L’artista usa un linguaggio pittorico semplice e immediato di matrice neoprimitivista, dove il segno espressionista e gestuale si fonde con la naïveté di pittori autodidatti come Mariya Pryimachenko, la cui arte è intimamente legata al folclore e alla cultura rurale dell’Ucraina. Come la Prymachenko, infatti, anche Iryna Maksymova rappresenta spesso animali reali o fantastici (come, ad esempio, il mitico Pegasus dell’arazzo omonimo), caricandoli però di significati simbolici e talvolta politici.
Il suo bestiario, composto da creature senzienti, in un certo senso equiparabili all’uomo, rappresenta, in realtà, una radicale critica alla cultura antropocentrica, principale responsabile delle violenze perpetrate sugli animali. Nell’opera di Maksymova, in certi casi la rappresentazione zoomorfa si inserisce nel quadro di precisi temi iconografici – come, ad esempio, il cigno del mito di Leda (Becoming a Swan) o il biblico serpente tentatore in Conscience -, in altri, invece, trae spunto dalla cronaca, come nel caso del gallo raffigurato nell’acrilico su tela intitolato Symbol, che ricorda quello in ceramica, diventato uno dei simboli della resistenza ucraina dopo la pubblicazione di una foto dei bombardamenti di Borodianka, divenuta virale nel web. Nell’immagine si vede una caraffa a forma di gallo rimasta intatta sulla mensola di una cucina di un appartamento divelto dalle bombe. Curiosamente, quel vaso a forma di gallo è opera dello scultore ucraino Prokop Bidasiuk (1895), le cui opere sono state esposte al National Museum of Ukrainian Folk Decorative Arts di Kiev.
Symbol, 2023, acrylic on canvas, 105×95 cm
D’altra parte, come dice l’artista, “Con le mie opere figurative e naïf, io do voce ai problemi del mondo che mi toccano personalmente e cerco di promuovere l’uguaglianza e l’interconnessione, sviluppando, allo stesso tempo, i motivi tradizionali del folclore ucraino in nuove forme visive”. Come nel dipinto Holubka Dance, dove il motivo della popolare danza nuziale “Holubka” (che in italiano significa “colomba”) si trasforma in un’occasione per sostituire il paradigma classico della coppia in una più avventurosa esperienza orgiastica. Altro tema iconografico legato al folclore ucraino è quello delle bacche di Kalyna, disseminato in molte opere dell’artista, sia nella naturale forma vegetale in Mother, Becoming a Swan, Cat e Conscience, e sia in foggia di perle nelle collane che cingono i colli delle sue eroine in Don’t Bother, In the Wild Woods e Muses.
La Kalyna (o Viburnum Opulus) è un albero da fiore che cresce in Ucraina ed è conosciuto fin dai tempi antichi, quando si credeva che avesse il potere di donare l’immortalità e di unire le generazioni nella lotta contro il male. Le sue bacche di colore rosso ornano i ricami, i gioielli e perfino il costume nazionale delle donne ucraine ma, soprattutto, sono celebrate nella canzone Ой у лузі червона калина (“Oh, viburno rosso nel prato”), un brano patriottico scritto dal compositore Stepan Čarnec’kyj nel 1914, divenuto poi l’inno dell’Esercito Insurrezionale Rivoluzionario Ucraino tra il 1918 e il 1921, e, in seguito, ripreso da David Gilmour dei Pink Floyd nella cover intitolata Hey, Hey, Rise Up!, a sua volta ispirata alla versione a cappella della band ucraina BoomBox, che l’ha cantata in tournée negli Stati Uniti proprio il 24 febbraio 2022, giorno in cui è iniziata quella che Putin ha definito eufemisticamente una “operazione militare speciale”.
Holubka Dance, 2023, acrylic on canvas, 140×120 cm
Nelle opere di Iryna Maksymova, la simbologia delle bacche di Kalyna, simbolo della passione e vitalità del popolo ucraino, è anche un’allusione allo spargimento di sangue provocato dalla guerra in corso. In generale, le simbologie usate dall’artista sono sempre duplici, interpretabili sia in senso tradizionale, che in riferimento ai fatti dell’attualità e della cultura contemporanea. Ad esempio, la creazione di arazzi cuciti a mano recuperando scampoli di tessuti è un chiaro riferimento alla produzione tessile del folclore ucraino, ma è, allo stesso tempo, il segno della sensibilità ecologica dell’artista e della sua volontà di evitare ogni spreco attraverso l’upcycling, una pratica creativa che, a differenza del comune riciclo, basato sulla trasformazione dei materiali in nuovi prodotti, conserva le proprietà degli oggetti, reimpiegandoli in modo da essere chiaramente riconoscibili.
Questo è anche il motivo per cui, dovendo sfruttare pattern e texture dei tessuti, negli arazzi, l’impronta gestuale della pittura di Iryna Maksymova sembra lasciare il campo al carattere ornamentale tipico delle produzioni tessili tradizionali. Anche il dipinto intitolato Odesia, raffigurante un gruppo di donne discinte posate su un cumulo di teschi e incorniciate da grappoli di bacche di Kalyna, può essere variamente interpretato. Da una parte, infatti, il quadro richiama l’immaginario tipico dell’artista, con le sue prorompenti figure femminili che esibiscono fieramente la propria fisicità, dall’altra fa esplicito riferimento, fin dal titolo, alla città portuale considerata la perla del Mar Nero. Odessa, antico crocevia tra Oriente e Occidente, fondata nel XVIII secolo da un napoletano di origini spagnole dove un tempo sorgeva l’insediamento dell’antica colonia greca di Odesso, negli ultimi due anni è stata oggetto di ripetuti attacchi aerei e missilistici russi. Certo, nel dipinto non c’è alcun riferimento diretto a questi fatti, ma allora, come interpretare la presenza di quei teschi?
Mother, 2023, textile, 175×130 cm
Iryna Maksymova è evidentemente una pittrice che si avvale di simboli e metafore per raccontare una realtà, quella dell’odierna Ucraina, sospesa tra i fantasmi del passato, gli orrori del presente e le speranze di un futuro migliore. La sua opera riesce ad essere politica pur senza scadere mai nel didascalico. A differenza dell’arte prodotta da tanti “Artivisti” contemporanei, spesso esteticamente brutta o insignificante, la sua arte non rinuncia alla bellezza. Il segno pittorico selvaggio e gioioso dei suoi dipinti e le raffinate trame tessili dei suoi arazzi sono le armi con cui Iryna Maksymova incanta lo sguardo dell’osservatore rendendolo, simultaneamente consapevole del dramma che affligge il suo paese. La dimostrazione che la seduzione è, quasi sempre, il miglior modo per trasmettere un messaggio.
Iryna Maksymova. Landscape’s Body
by Ivan Quaroni
A relationship exists between landscape and national identity that often escapes people who are accustomed to thinking of the former as merely an extension of the natural environment. According to the European Landscape Convention, a document issued by the Council of Europe in Florence in 2000, undersigned by 40 countries including Ukraine, “the landscape is part of the land, as perceived by local people or visitors, which evolves through time as a result of being acted upon by natural forces and human beings.” This means that like all things shaped by man, the landscape is a place charged with memories, prospects, expectations and meanings, which can translate into identifying or national values. The Ukrainian painter Iryna Maksymova emblematically interprets this aspect of landscape, transfiguring it in a visual imaginary that assigns a central role to the human body (above all female) in the programmatic representation of the force and vitality of a besieged nation. The concept of belonging to the landscape and, by extension, of cultural and national identity is therefore based on the concrete, perceptible experience of reality.
In the wild woods, 2023, acrylic on canvas, 145×95 cm
Born in Kolomyia, a city in the province of Prykarpattia known for its strong tradition of folk painting and the production of arts and crafts, Iryna Maksymova translates her interest in Ukrainian folklore and naïve art into a figurative lexicon capable of combining impressions of the past with the urgent issues of the present. In her paintings and hand-woven tapestries the theme of national identity overlaps with motifs connected with women’s liberation and ecology, enabling an aesthetic dimension that draws on outsider art as well as the visual culture of Eastern European graffiti and street art (also in the work of fellow countrymen AEC and Waone, of the duo Interesni Kazki). The title of this exhibition, Landscape’s Body, refers in particular to reflections on the wounds and changes inflicted on the Ukrainian territory by the war with Russia. Iryna Maksymova’s recent production focuses on the symbolic representation of her country. The artist takes her cue from the feminine phonetics of words like “country” (країна) and “Ukraine” (Україна), as well as the personification, again in feminine terms, of the “Mother Country,” as represented in the gigantic de-Sovietized monument that looks eastward from the hills above the right bank of the Dnepr River, the location of historic Kyiv. The result is the depiction of female figures that embody the vigor and vivacity of a resistant country, that does not let itself be overwhelmed by the dramatic developments of the war.
Little Princess, 2022, textile, 170×140 cm
Maksymova’s works are nudes of girls and women with abundant physiques, deities of a revisited Olympus, like the Leda of Becoming a Swan or the orgiastic Muses, which celebrate the Panic and erotic side of existence, destroying the prejudices and taboos that have stigmatized female physicality for centuries. But there are also innocent maidens, protected by fearsome guardians, like the tutelary animals of Safekeeper and the tapestry Little Princess. The artist utilizes a simple, immediate pictorial language based on a Neo-Primitivist matrix, where the expressive and gestural approach blends with the naïveté of self-taught painters like Mariya Prymachenko, whose art is closely tied to the folklore and rural culture of Ukraine. Like Prymachenko, in fact, Iryna Maksymova often depicts real or fantasy animals (like, for example, the mythical Pegasus of the tapestry of the same name), but endows them with symbolic and sometimes political meanings. Her bestiary composed of sentient creatures, comparable to human beings in a certain sense, actually represents a radical critique of anthropocentric culture, held responsible for the violence perpetrated against animals.
Becoming a Swan, 2023, acrylic on canvas, 140×95 cm
In Maksymova’s work, in certain cases the zoomorphic representation is inserted in the context of precise thematic references – like the swan of the Leda myth (Becoming a Swan) or the biblical tempting snake in Conscience. In other pieces, however, the stimuli come from current events, as in the case of the rooster portrayed in the acrylic on canvas titled Symbol, linking back to the ceramic figurine that became one of the symbols of Ukrainian resistance after the posting of a photo of the destruction at Borodianka that went viral on the web. The image shows a jug with the shape of a rooster, which had remained intact on a kitchen shelf in a bombed-out flat. Curiously enough, that jug with the form of a rooster is a piece by the Ukrainian sculptor Prokop Bidasiuk (1895), whose creations were shown at the Ukrainian National Museum of Decorative Folk Art in Kyiv.
Coscience, 2023, acrylic on canvas, 105×95 cm
As the artist herself puts it, “with my figurative and naïve works I point to the problems of the world that impact me personally, and I attempt to foster equality and interconnection, at the same time developing the traditional motifs of Ukrainian folklore in new visual forms.” As in the painting Holubka Dance, where the motif of the wedding folk dance “Holubka” (which means “female dove”) is transformed into an opportunity to replace the classic paradigm of the couple with a more adventurous orgiastic experience. Another visual theme connected to Ukrainian folklore is that of the berries of the Kalyna, scattered in many of the artist’s works, both in natural botanical form in Mother, Becoming a Swan, Cat and Conscience, and in the guise of pearls for the necklaces worn by her heroines in Don’t Bother, In the Wild Woods and Muses. The Kalyna (or Viburnum Opulus) is a flowering tree that grows in Ukraine and has been known about since ancient times, when it was believed to have the power of granting immortality and uniting generations in the struggle against evil. Its red berries decorate embroidery, jewelry and even the national costume of Ukrainian women, but above all they are honored in the song Ой у лузі червона калина (“Oh, the Red Viburnum in the Meadow”), a patriotic march written by the composer Stepan Charnetsky in 1914, which then became the anthem of the Ukrainian Insurgent Army from 1918 to 1921. David Gilmour of Pink Floyd created a piece around it, titled Hey, Hey, Rise Up!, also taking inspiration from the a cappella version by the Ukrainian band BoomBox, sung during a tour in the United States precisely on 24 February 2022, the day that marked the beginning of what Putin has euphemistically defined as a “special military operation.”
Odesia, 2023, acrylic on canvas, 195×165 cm
In the works of Iryna Maksymova the symbolism of the Kalyna berries, representing the passion and vitality of the Ukrainian people, also alludes to the bloodshed caused by the war in progress. In general, the symbols used by the artist are always dual, ready for a traditional interpretation but also as a reference to current events and contemporary culture. For example, the creation of tapestries made by hand using fabric remnants is a clear reference to the textile products of Ukrainian folk art, but at the same time it is a sign of the ecological sensibilities of the artist and her desire to avoid any waste through upcycling, a creative practice that unlike ordinary recycling based on the transformation of materials into new products conserves the properties of objects, reutilizing them in such a way that they are clearly recognizable. Having to utilize the patterns and textures of the fabrics in the tapestries, this is why the gestural aspect of Iryna Maksymova’s painting seems to leave room for the ornamental character typical of traditional textile creations. The painting titled Odesia, depicting a group of near-naked women sitting on a pile of skulls and framed by bunches of Kalyna berries, can also be interpreted in various ways. On the one hand, the painting reminds us of the typical imagery of the artist, with her exuberant female figures proudly displaying their physical nature; on the other, the work makes explicit reference, straight from the title, to the port city considered the pearl of the Black Sea. Odessa, the historic crossroads between East and West, founded in the 18 th century by a Neapolitan of Spanish origin at what was once the location of the ancient Greek colony of Odessos, has been subjected over the last two years to repeated attacks by Russian planes and missiles. While there is no direct reference to these acts of war in the painting, the question remains: how can we interpret the presence of those skulls?
Motherland, 2024, textile, 195×155 cm
Iryna Maksymova is clearly a painter who relies on symbols and metaphors to narrate a reality, that of today’s Ukraine, suspended between the phantoms of the past, the horrors of the present and hopes for a better future. Her work manages to be political without ever becoming simplistic. Unlike the art produced by many contemporary “artivists,” which is often aesthetically dull or insignificant, her art never gives up on beauty. The wild, joyful pictorial substance of her paintings and the refined woven patterns of her tapestries are the weapons with which Iryna Maksymova enchants the gaze of observers, while simultaneously making them aware of the dramatic situation in her country. A demonstration of the fact that seduction is almost always the best way to send a message.
Nicola Caredda, Sauvage, 2024, acrilico su tela, 120×100 cm
La pittura in Italia è tornata d’attualità. Lo testimoniano le numerose mostre ad essa dedicate nelle gallerie d’arte e le recenti rassegne istituzionali che, però, puntano più sulla quantità che sulla qualità. Si mappano le nuove generazioni, si cercano legami con le tradizioni immediatamente precedenti, si tenta, un po’ a fatica per la verità, di individuare temi e iconografie ricorrenti, ma la pittura è un’arte difficile. “Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia)”, scriveva Giorgio De Chirico, “non si risolve a chiacchiere e facilonerie”[1]. Il magistero della pittura richiede sacrificio e duro lavoro, perciò un buon criterio di selezione dei pittori odierni non dovrebbe basarsi unicamente su presupposti anagrafici, ma qualitativi.
Silvia Paci, La Maga Armida, 2023, olio su tela, 136×205 cm
Già, ma come si definisce la qualità in pittura? E soprattutto chi può definirla? “Viviamo in un paese in cui ciascuno crede di sapere qualcosa di pittura, e quindi di poter dire la sua”, o almeno così la pensava Federico Zeri, secondo cui “è frequentissimo che, qui da noi, si parli di opere d’arte senza un’adeguata preparazione, senza cioè avere educato l’occhio alla lettura del fatto figurativo”[2]. Se a questo si aggiunge la favorevole congiuntura che ha riportato la pittura alla ribalta delle cronache e che, inevitabilmente, ha prodotto nuove schiere di accoliti – non solo tra gli artisti più giovani, ma perfino tra i galleristi (improvvisamente fulminati sulla via di Damasco) e tra i curatori à la page (che giurano di essere, fin dalla prima ora, strenui difensori di questa pratica secolare) – riuscire a compiere una selezione, a separare, come si dice, il grano dal loglio, diventa un’impresa davvero difficile. Ma se a farlo è una galleria come quella di Antonio Colombo, che dal 1998, anno della sua fondazione, ha ospitato le mostre dei migliori pittori italiani, e un curatore, come il sottoscritto, che non ha mai fatto mistero della sua marcata predilezione per quadri e pittori, potrebbe venirne fuori qualcosa di buono.
Paolo Pibi, Die inneren augen, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Sotto il magniloquente titolo di Pittori d’Italia e l’ironico sottotitolo Giovani, giovanissimi… anzi maturi – tributo all’arguzia di Ennio Flaiano e al celebre paradosso (Certo, certissimo… anzi probabile) con cui lo scrittore e giornalista abruzzese evidenziava il labile confine tra il vero e il falso – abbiamo riunito dodici giovani e meno giovani pittori italiani in un compendio minimo. Una mostra che non vuole essere la versione tridimensionale di un atlante, di un almanacco o di un regesto ambizioso della nuova pittura del Belpaese, ma semmai un laicissimo Libro d’Ore, con dodici artisti che più diversi non si può, a incarnare la devozione verso il più antico dei linguaggi visivi.
El Gato Chimney, Street Madness, 2023, gouache e acquerello su carta cotone, 70×50 cm
Sono artisti che provengono da varie regioni d’Italia, alcuni dei quali hanno vissuto o vivono ancora all’estero, a dimostrazione che se un genoma italico della pittura esiste, non può che essere spurio, contaminato, ibrido. Nessun genius loci e tantomeno nessuna definizione di una presunta “pittura sovranista” (come qualcuno ha tentato di fare) può descrivere le complesse circostanze che hanno contribuito alla loro formazione. Per fortuna, nessun pittore la cui arte sia intimamente italiana ha mai dovuto esibire un certificato di cittadinanza. Si ricorderà che Giorgio De Chirico dipingeva le sue “Piazze d’Italia” dalle sponde della Senna, senza per questo essere meno italiano, lui che in Italia non ci era nemmeno nato.
Melania Toma, Luna-Creature, 2023, pigmenti, carboncino, fibre di lana e olio su tela, 180×150 cm
108 (Guido Bisagni), Nicola Caredda, El Gato Chimney, Jacopo Ginanneschi, Agnese Guido, Dario Maglionico, Fulvia Mendini, Riccardo Nannini, Silvia Negrini, Silvia Paci, Paolo Pibi e Melania Toma sono artisti di generazioni differenti – nati tra il 1966 e il 1996 -, ognuno dei quali rappresenta un approccio, un linguaggio o uno stile singolare nell’ampio spettro espressivo della pittura. Trovare sintonie, concordanze, corrispondenze nelle opere di questi artisti richiede un complicato lavoro di cucitura, insomma un tentativo, per niente facile, di individuare affinità e analogie che aiutino a tessere un ordito leggibile o almeno probabile degli umori della pittura italiana.
Prima di cominciare, si tenga a mente che – come ricordava lo storico dell’arte francese Henri Focillon – Leon Battista Alberti considerava la pittura una realtà magica o, meglio, “un meccanismo ragionato con una parte di mistero”. Pensava, inoltre, che lo sguardo del pittore fosse privilegiato perché “come il filosofo, meglio del filosofo, il pittore costruisce un mondo”[3].
Agnese Guido, Learning, 2021, ceramica smaltata, 34x21x1 cm
Questo è evidente nell’opera di Melania Toma, basata sull’interpolazione tra pittura, scultura e arte tessile. Nei suoi dipinti astratti, le forme si coagulano in maniera ambigua e sfuggente, riflettendo l’idea di possibili ibridazioni tra l’organico e l’inorganico, l’umano e l’inumano. È il suo modo di costruire un mondo che scarta l’eredità delle politiche coloniali e azzera, nell’ottica di una nuova ecologia, ogni gerarchia tra gli enti, abolendo la distinzione tra soggetto e oggetto e tra individuo e collettività. L’artista interpreta i propri quadri, simili a feticci e realizzati con pittura a olio, carboncino, pigmenti naturali e fibre tessili, come dei dispositivi per guarire identità ferite e frammentate.
Melania Toma, Danza-Creature, 2023, pigmenti, carboncino e olio su tela, 80×80 cm
La pittura di 108 è, invece, concepita come una specie di autoritratto in divenire, che con le sue forme morbide e scorrevoli traduce nel linguaggio astratto la natura inquieta e mutevole dell’identità. Le sue figure fluide, plasmate in una palette di toni scuri interrotti da rari inserti geometrici colorati, formano diagrammi di flussi di coscienza, schemi misteriosi in precario equilibrio tra ordine e caos.
108, After the rain 2, 2023, tecnica mista su tela, 80×60 cm
Astratta, nonostante gli esiti figurativi, è la procedura pittorica di Paolo Pibi, che trasla in immagini idee e vagheggiamenti mentali, senza peraltro servirsi di alcun supporto iconografico (fotografie, disegni o altro). Il risultato è inevitabilmente somigliante a un’allucinazione ad occhi aperti, qualcosa di surreale e, allo stesso tempo, estremamente dettagliato, costruito con l’acribia di un miniaturista capace di rendere verosimile e plausibile un’illusione o una fantasticheria.
Paolo Pibi, Le lune e il falò, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Un mondo fantastico, di pura invenzione è anche quello meticolosamente dipinto da El Gato Chimney, che trasfigura in forme simboliche di uccelli e altre creature zoomorfe motivi psicologici, ma anche concetti ricavati dal folclore e dalle tradizioni esoteriche e alchemiche. Il conflitto tra i desideri dell’individuo e le convenzioni sociali, come pure quello tra materia e spirito sono sovente rappresentati con l’immagine di un animale avvolto e quasi avvinto da filamenti e fibre da cui tenta di liberarsi, mentre il tema della parata di Yōkai, mostri e fantasmi della mitologia giapponese mirabilmente dipinti sulle pagine di una Moleskine, è invece un’allegoria dell’irrompere dell’irrazionale nella dimensione quotidiana.
El Gato Chimney, That place inside you, 2024, gouache e acquerello su carta cotone, 153×100 cm
Ispirata alle fiabe e ai racconti popolari, la pittura di Silvia Paci ha un impianto fortemente narrativo, tutto giocato sull’alternanza di registri drammatici e umoristici e sulla mescolanza di iconografie sacre e profane. Per costruire le sue visioni, popolate di personaggi in preda a una febbrile agitazione, l’artista usa un linguaggio espressionistico, connotato da una gamma cromatica ridotta e riconoscibile. Talvolta, l’artista introduce all’interno delle sue tele, l’immagine di oggetti da lei stessa creati, come bambole di pezza e curiosi copricapi, che intensificano la straniante sensazione di assistere a un misterioso rituale o a una sorta di possessione collettiva.
Silvia Paci, Il martirio di S.Eutropio, 2023, olio su tela, 170×150 cm
I dipinti di Agnese Guido hanno sempre un’atmosfera surreale, risultato di un particolare modo di interpretare la realtà ordinaria che indaga soprattutto gli aspetti più curiosi, poetici, buffi o imprevisti. Il carattere sognante delle immagini, la sospensione tra incanto e stupefazione e la tendenza ad animare oggetti o paesaggi inanimati, sono elementi caratteristici di tutta la sua pittura, che dialoga tanto con la tradizione simbolista ed espressionista, quanto con la cultura popolare dei fumetti e dei cartoni animati.
Agnese Guido, Allegoria del relax, 2023, olio su lino, 192x145cm
Riccardo Nannini usa una grammatica pop e surreale, in parte derivata dai fumetti, per dipingere tele in cui i simboli del consumismo odierno compaiono, come un’interferenza, all’interno di narrazioni oniriche e fantastiche. Nei suoi lavori più recenti, l’artista riflette sul rapporto tra singolo e collettività, rappresentando piccoli gruppi di individui distribuiti in un arcipelago di minuti isolotti. L’atmosfera feriale di queste Isole felici non riesce a occultare, però, il senso di solitudine che serpeggia nella calca di personaggi impegnati in attività ludiche o di svago. La presenza sporadica di alieni dalla pelle verde allude, inoltre, al tema diversità, sia essa sociale, culturale o sessuale.
Nannini Riccardo, El Reencuentro, 2023, acrilico su tela, 114×195 cm
Sintetico, piatto, ma elegantissimo è l’alfabeto visivo di Fulvia Mendini, che nei suoi dipinti compie una concisa schematizzazione formale. Il limpido tratto lineare, la ricercata bidimensionalità e i raffinati accostamenti cromatici sono segni distintivi di una maniera pittorica che l’artista declina in una gamma di ritratti ieratici e di succinte nature morte, dove all’impianto geometrico si affianca il gusto per la descrizione di dettagli come gioielli, decori e ornamenti che impreziosiscono le sue composizioni.
Fulvia Mendini, Luce, 2024, acrilico su tela, 60×50 cm
Di stretta osservanza cartesiana è la pittura di Silvia Negrini, dominata dal lucidus ordo della geometria, arma logica e calcolata che l’artista applica a un’economia di gesti minimi con i quali si propone di cogliere l’essenza imperturbabile delle cose. Così, ad esempio, riduce in efficaci diagrammi le morfologie dei paesaggi o tramuta in poligoni le architetture e gli oggetti, riuscendo a produrre immagini semplici e perfettamente leggibili. La sua grammatica formale, fatta di contorni netti e tinte piatte, può essere interpretata come un adattamento dei principi del Modernismo alle mutate esigenze espressive della pittura concettuale contemporanea.
Silvia Negrini, Land, 2020, smalto su tavola, 30X40 cm
Di segno opposto è, invece, l’attitudine di Nicola Caredda, che dipinge meticolose visioni di un futuro distopico, somigliante a una grande e desolata periferia urbana. L’artista attinge alla memoria di posti visti in passato, scorci di luoghi e angoli di città ricombinati in un paesaggio inventato ma plausibile, che mostra i resti di un mondo trascorso attraverso detriti e rifiuti della civiltà consumistica. Sono visioni notturne di spazi disabitati, disseminati di indizi e segni che rimandano alla cultura italiana, e che compendiano atmosfere e stati d’animo vissuti dall’artista in immagini di perturbante bellezza, che suscitano un immediato piacere retinico.
Nicola Caredda, (call me baby!), 2024, acrilico su tela, 50×40 cm
Dalla memoria di luoghi e persone reali ha origine il processo creativo di Dario Maglionico, che ricostruisce i ricordi, inevitabilmente alterandoli con l’ausilio dei programmi di modellazione 3D e della fotogrammetria, usati come strumenti per generare immagini che servono allo studio compositivo dei suoi soggetti. La pittura è, dunque, la fase finale di un iter operativo che si conclude con le Reificazioni, un ciclo di dipinti in continua evoluzione che rappresentano uno studio sulla percezione dello spazio e del tempo. Nelle sue opere, i personaggi compaiono simultaneamente in diversi punti dello spazio, come forme fantasma persistenti, che marcano i luoghi lasciando una sorta di residuo esperienziale.
Dario Maglionico, Reificazione #91, 2024, olio su tela, 140 x 90 cm
L’arte di Jacopo Ginanneschi nasce da un’attenta osservazione della Natura e dal recupero dei valori tecnici e compositivi degli antichi maestri, da cui deriva anche l’idea di un’adesione verso l’essenza, più che l’apparenza, delle cose. Nei suoi olii su tavola, infatti, si possono notare alcune piccole incongruenze, discrepanze generate dall’adozione della prospettiva multipla o dal fatto che le immagini sono sovente costruite combinando visioni di luoghi diversi. Il risultato è una pittura insieme realistica e straniata, veridica e surreale, che coglie l’incanto nelle forme fenomeniche e la magia nel quotidiano.
Jacopo Ginanneschi, Sant’Antonio Abate trova il rifugio di San Paolo Eremita, olio su tavola, 90×90 cm, 2024
[1] Giorgio De Chirico, Impressionismo, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole de Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 51.
[2] Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di Ludovica Ripa di Meana, 1999, Neri Pozza, Milano, p. 7.
[3] Henri Focillon, Piero della Francesca, trad. italiana di Fabrizia Lanza Pietromarchi, Abscondita, Milano, p. 38.
Fuoco prometeico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 97×90 cm
Wilhelm Worringer pensava che all’origine dell’impulso creativo ci fosse “il bisogno di creare – di fronte allo sconvolgente e inquietante mutare dei fenomeni del mondo esterno – dei punti di quiete, delle occasioni di riposo, delle necessità nella cui contemplazione potesse sostare lo spirito esausto dell’arbitrarietà delle percezioni”[1]. Così, lo studioso tedesco pensava che, proprio perché svincolata da ogni legame col mondo esterno, l’astrazione geometrica offrisse a tale impulso una prima soddisfazione, anzi una forma di felicità. Eppure, “a causa della profondissima, intima connessione tra tutte le cose della vita, la forma geometrica costituisce anche la legge morfologica della materia cristallina inorganica”[2]. In altre parole, la forma geometrica rappresenterebbe sia una via di fuga dall’incessante metamorfosi delle forme, sia l’intima struttura di rocce, minerali, gemme e cristalli. Essa sarebbe, allo stesso tempo, fuori e dentro la materia.
Spazio cosmico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 84×113 cm
L’interesse di De Fazio per le forme inorganiche dei minerali e per le strutture (organiche e inorganiche) di cristalli e rocce si è poi precisata ulteriormente a partire dagli anni Novanta, attraverso il passaggio a una pittura che azzerava ogni spunto iconografico per virare verso una grammatica astratta, o meglio, apparentemente aniconica. Iniziavano, così, a emergere proprio in quegli anni gli elementi caratterizzanti di un linguaggio che ruotava attorno al rapporto tra il colore, la luce e geometria. Si registrava, insomma, nella sua pittura un piacere per i pattern e le trame ricorsive prodotte dalle forze geofisiche sulla terra e, in particolare, sugli oggetti studiati nelle discipline della petrologia, mineralogia e gemmologia.
Anche Henri Focillon ha affrontato il tema del rapporto tra opera d’arte e fissità, tra creazione e quiete, avvertendoci, però, che tutte le forme plastiche “Sono soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente, ed al principio degli stili, che, con una progressione ineguale, tende successivamente a saggiare, a fissare e a disciogliere i loro rapporti”[3]. In sostanza, per il grande storico dell’arte francese l’opera d’arte è immobile solo in apparenza, anzi essa “esprime un desiderio di fissità, è un arresto; ma alla maniera di un momento nel passato. In realtà l’opera nasce da un mutamento e ne prepara un altro”[4]. L’aspirazione alla fissità cristallina nell’arte s’incontra ben prima dell’affermazione dei linguaggi aniconici del Novecento. Nel Rinascimento italiano una tendenza mineralizzante si ravvede nel modo in cui Carlo Crivelli dipinge gli altari marmorei o tramuta i frutti in incorruttibili pietre dure (Immacolata Concezione, 1492, National Gallery, Londra); nella passione di Andrea Mantegna per la geologia (Madonna delle Cave, 1488-90. Galleria degli Uffizi, Firenze); nelle spigolose forme di Cosmè Tura (Calliope, 1460, National Gallery, Londra), di cui il Longhi rilevava la “natura stalagmitica; un’umanità di smalto e di avorio, con giunture di cristallo…”[5]. Questi, però, sono solo alcuni dei molteplici esempi. Lo sa bene Giuseppe De Fazio, artista che, a partire dalla fine degli anni Settanta, reinterpreta alcune iconografie di opere rinascimentali. All’inizio, come notava Valerio Terraroli, le scelte artistiche di De Fazio “si orientano verso il recupero del valore tattile della pittura e un costante impegno, talvolta capzioso, nell’elaborazione tecnica delle forme e dei colori, al fine di restituire una realtà vissuta e interpretata attraverso sedimentazioni di archetipi e qualità pittoriche di ascendenza classica”[6]. L’artista traeva, infatti, spunto da opere di Mantegna, Leonardo, Michelangelo, Giorgione, Tiziano e Caravaggio – ma anche di Matisse, Bonnard e Van De Velde -, i cui soggetti modificava in configurazioni spigolose e volumetrie che evocavano la consistenza dei cristalli.
Meduse Fusione mineralica, 2020, encausto cera e pigmenti su juta, 134×134 cm
A distanza di oltre trent’anni, ritroviamo quello stesso piacere nella recente produzione dell’artista, abbinato a un inesausto anelito sperimentale che si esprime soprattutto nella scultura, dove composti industriali come il siporex – un calcestruzzo costituito di cemento e sabbia silicea -, il polistirene o la resina cementizia, sono associati a materiali più nobili come il metallo in foglie o addirittura la madreperla. Nella pittura, invece, Giuseppe De Fazio preferisce combinare tecniche tradizionali come l’encausto e l’olio, che gli permettono di enfatizzare la componente luministica delle sue composizioni, immagini che indagano la materia inorganica con straordinaria fedeltà. Sono dipinti, scrive, infatti, Marcello Séstito, che “farebbero la gioia di musei naturalistici o geologici”[7], proprio perché scandagliano, come se si trattasse di un ingrandimento al microscopio, la struttura geometrica di quarzi (Ametista, 2015), detriti spaziali (Meteorite, 2007) o minerali (Fluorite, 2015). Il risultato della sua ricerca compone un vasto archivio di forme, luci e colori che fanno della sua pittura (ma anche della sua scultura) una sorta di prismatico regesto di geometrie sotterranee. L’artista le chiama “estrazioni dalla madre terra”, sorta di carotaggi che catturano il flusso energetico di un sottosuolo in continuo movimento e trasformazione. Infatti, più che il bisogno di staticità e quiete cui accennava Worringer, nella pittura di Giuseppe De Fazio emerge piuttosto la natura magmatica e dunque mobile delle forze che agitano il mondo geologico. L’artista non solo “tenta di pietrificare e mineralizzare attraverso la pittura che ha un supporto bidimensionale”, come sostiene Séstito, “ciò che per sua natura è tridimensionale”[8], come rocce, pietre e gemme, ma riserva lo stesso trattamento anche a oggetti del regno animale e vegetale – come nel caso di Meduse “Fusione mineralica” (2022), Olive (2021) e Melograna (2022) –, a fondali marini e fiotti di magma lavico – Sommersione (2023) e Fuoco prometeico (2023) – e perfino a iperoggetti di sovrumana estensione come lo Spazio cosmico (2022). Insomma, De Fazio cristallizza qualsiasi soggetto, mineralizza tutto, fabbricando, così, un alfabeto che definire aniconico sarebbe azzardato. È vero, infatti, che nei suoi dipinti le uniche figure che si scorgono sono quelle geometriche, forse il riflesso platonico di un antico ideale di perfezione archetipica, ma è altrettanto vero che tali geometrie sono desunte dall’osservazione di strutture reali e configurazioni concrete dell’organico e dell’inorganico. Semmai, c’è nel lavoro di De Fazio un procedimento astrattivo (oltre che estrattivo), nel senso che l’artista astrae – [dal latino abstrahĕre, composto da abs «via da» e trahĕre «trarre»] -, cioè distoglie l’attenzione dalla realtà circostante, per concentrarsi su ciò che è invisibile ai più, cioè la dimensione geologica dell’esistenza. Una dimensione che esubera di molto la nostra capacità di comprensione. De Fazio rende, quindi, visibile ciò che possiamo a malapena immaginare, cioè il tumulto interiore della materia, la tettonica molecolare che fonde e plasma e vetrifica le sostanze terrestri fino a renderle fulgide e iridescenti.
Pirite, Polistirene, resina cementizia, stucco e metallo in foglie
Tuttavia, mentre nella pittura il suo sguardo, come quello di Focillon, coglie le forme “soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente”, nella scultura, come voleva Worringer, riesce a soddisfare quel “bisogno di creare […] dei punti di quiete, delle occasioni di riposo” in cui contemplare ciò che ai nostri sensi appare inalterabile, come la purezza strutturale di una roccia sedimentaria (Alabastro fiorito 1 e Alabastro fiorito 2, 2023) o l’aliena corazza geometrica di un solfuro di ferro (Pirite, 2022). E così, si può dire che l’artista riesca a far convergere nelle sue memorie dal sottosuolo – le plastiche e le pittoriche – due concezioni contrapposte dell’arte: la visione statica, cristallina, di origine platonica e quella dinamica, mobile, più affine allo spirito avanguardistico del Novecento. Il tutto in un’epoca in cui le barriere stilistiche sono crollate e ogni contrapposizione ideologica (perfino quella tra figurazione e astrazione) risulterebbe nient’altro che il segno di un’ingenuità culturale.
Sommersione, 2023, olio su cotone, 140×205 cm
L’arte di Giuseppe De Fazio è un’arte in cui i confini tra le forme reali e le loro interpretazioni sono sfumati e incerti, dove la precisione realistica delle geometrie cristalline e minerali convive con l’arbitrarietà delle loro estensioni a ogni aspetto del mondo naturale. Un’arte così non può che essere considerata una forma di “astrazione ambigua”[9] o di “pittura ibrida”[10], che si sottrae a ogni rigida classificazione per abbracciare il mistero indistinto della creazione.
[1] Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, 2008, Einaudi, Torino, p. 37.
[5] Roberto Longhi, Officina ferrarese, 1980, Sansoni, Firenze, p. 24.
[6] Valerio Terraroli, Giuseppe De Fazio, catalogo della omonima mostra itinerante, San Zenone all’Arco, Brescia; Sala San Rocco, Este (PD); Biblioteca Comunale, Tropea (VV), 1989, Litografia G.A.M., Roma.
[7] Marcello Sèstito, Giuseppe De Fazio. Grumi contratti di senso, 2017, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), p. 18.
Apollineo vs Dionisiaco, 2022, tecnica mista, graffio, serigrafia, combustione su tela, 100x 150 cm
Nel suo Tentativo di autocritica, scritto quattordici anni dopo la pubblicazione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, Friedrich Nietzsche sente il bisogno di precisare che è nell’arte, e non nella morale, che si esprime la vera attività metafisica dell’uomo.
Non avrebbe potuto maturare questa convinzione senza aver esplorato il ruolo di due principi contrapposti nella formazione della tragedia greca, ed estensivamente dell’arte tutta: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica”, afferma nell’incipit della sua opera prima, “quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”[1].
L’antitesi composta da questi due aggettivi si riferisce, naturalmente, ad Apollo e Dioniso, divinità dell’Olimpo greco che esemplificano, in estrema sintesi, i concetti contrapposti di ordine e caos su cui si fonda la cultura greca. È curioso, peraltro, che lo stesso termine “tragedia” (Τραγῳδία), di origine attica e traducibile come “canto del capro”, abbia origine proprio nei riti dionisiaci, in cui comparivano personaggi vestiti da capri.
Il dionisiaco, come spirito che si esprime nei riti attraverso l’abbandono a esplosioni mistiche e sensuali che favoriscono una primaria comunione con la natura, s’inserisce nel discorso filosofico di Friedrich Nietzsche come un elemento che cambia radicalmente l’originario imprinting del pessimismo Schopenhaueriano. Infatti, laddove l’autore de Il Mondo come volontà e rappresentazione avverte l’orrore spalancato dalla perdita di fiducia nelle forme della conoscenza razionale, Nietzsche intravede un’opportunità di emancipazione e, insieme, di riconciliazione col fondo oscuro dell’esistenza e con la natura stessa.
Attraverso l’analisi della duplice radice, apollinea e dionisiaca, della tragedia attica, Nietzsche plasma un nuovo tipo di pessimismo basato sulla forza. Sulle pagine del suo Tentativo di autocritica, egli descrive questo nuovo atteggiamento come “un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza”[2]. Nella visione di Nietzsche, abbracciare il nucleo caotico dell’esistenza è, dunque, il segno di una esuberante vitalità. Quella stessa vitalità oscura che, intrecciandosi con la solare chiarezza dello spirito apollineo, costituisce anche il fondamento dell’arte.
Valkyrie, tecnica mista Bic, acrilici, graffio su tela, 2022, 60x80cm
Nella ricerca pittorica di Valentina Chiappini, il magma dionisiaco affiora costantemente come una traccia indelebile, che innerva la trama delle sue iconografie, palesandosi in forme caotiche, indistinte, gestuali, di un’urgenza a stento trattenuta da un impaginato visivo che inquadra e trattiene le immagini nel perimetro (apollineo) della tela.
Qualche anno fa, nella mia prima lettura del lavoro dell’artista, rilevavo la matrice visionaria di una pittura che appariva formata da una congerie di elementi inafferrabili, come memorie, emozioni e archetipi che affollavano – allora come oggi – la sua immaginazione. Tuttavia, nel regesto di figure che caratterizzano la sua recente produzione, la visione di Valentina Chiappini sembra essersi affinata, concentrandosi in un corredo iconografico coerente che può essere letto come una cartografia di riferimenti culturali precisi, cioè come una mappa in cui ricorrono non solo allusioni al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer, e per estensione anche di Richard Wagner, ma anche cenni e richiami a simboli iniziatici ed esoterici che, in qualche modo, con la loro presenza, avvalorano l’idea nietzschiana dell’arte come campo d’attività metafisica.
L’attitudine di Valentina Chiappini nell’affrontare la pratica pittorica riflette, infatti, la volontà di dare visivamente corpo alla sua personale interpretazione del mondo. Una visione che nasce dal coagulo di esperienze, letture e tensioni interiori che riguardano il tema delle possibilità trasformative dell’individuo attraverso un iter gnostico o spirituale. Anche se, in questo caso, non di spiritualità strettamente religiosa si tratta. L’artista traccia, piuttosto, una genealogia delle sorgenti del pensiero radicale occidentale, in antitesi alla lettura del positivismo materialista.
Basta osservare un’opera germinale come La bellezza è una dea, tra le prime realizzate a Milano dall’artista nel lontano 2006, per comprendere come al centro dei suoi interessi ci sia sempre stata la questione del dramma esistenziale, del caos ineludibile entro il quale si compie l’esperienza fenomenica di ogni individuo. In questa tela, dallo stile evidentemente mutuato da Basquiat, fino a costituire una sorta di accorato tributo alla sua arte, le immagini si affastellano senza soluzione di continuità, giustapponendosi l’una accanto all’altra come tessere di un confuso mosaico. Questo modello costruttivo, una volta epurato dall’influsso di Basquiat, diventa parte essenziale di un linguaggio pittorico che, ancora oggi, si fonda su progressive stratificazioni iconografiche, eseguite secondo modelli associativi automatici di marca surrealista. In questo meccanismo procedurale si alligna, con tutta evidenza, il demone dionisiaco che anima le tele dell’artista, che alla costruzione lineare del racconto, preferisce la disseminazione di tropi enigmatici, di figure misteriose e sibilline apparizioni.
Se si guarda all’impianto compositivo di un dipinto recente come Nel libro il viaggio (2022), ci si accorge che la modalità d’accumulo delle immagini è rimasta quasi invariata. Semmai la mano è diventata più sicura, lo stile più saldo, la capacità combinatoria più complessa, l’istinto nella distribuzione dei pesi sulla superficie molto più affinato.
Il corredo visivo della pittura di Valentina Chiappini è sempre stato caratterizzato dalla presenza di numerose matrici iconografiche, dal papier collé alla serigrafia, dal disegno all’impronta gestuale, fino a quelle graffiature e combustioni che sembrano violentare l’epidermide del quadro, impedendo, così, ogni lettura lineare dell’apparato visivo. Perfino gli stilemi pittorici adottati dall’artista sono molteplici, e oscillano tra immagini grafiche di origine incisoria e campi monocromatici di marca informale, tra calligrafismi tachisti e forme scrittura. Insomma, la sua è una pittura multiforme, in cui i depositi della cultura di massa e gli emblemi esoterici, i riferimenti filosofici e le allusioni classiche s’intrecciano nell’ordito iconografico quasi senza soluzione di continuità.
Costruire cattedrali con la gioia, 2022, tecnica mista acrilici, graffio su tela, 60×60 cm
Ad esempio, nel dipinto intitolato Costruire cattedrali con la gioia (2022) la popolare figura di Mickey Mouse (personaggio, peraltro, dalle qualità innegabilmente apollinee) è associata all’immagine di un muro di mattoni in costruzione, sul quale è poggiata una cazzuola da muratore, simbolo esoterico associato alle azioni edificatrici della beneficienza e della bontà attiva. Pertanto, il titolo dell’opera (Costruire cattedrali con la gioia) può essere letto come un riferimento alla virtù della carità, richiesta agli iniziati sulla via della conoscenza mistica. Questo tipo di simbologia magica, le cui fondamenta si fanno risalire alla costruzione del Primo Tempio ebraico di Re Salomone (988 a.C.) per opera di Hiram Abif, architetto che avrebbe raggiunto l’illuminazione proprio attraverso i sacri principi della costruzione, si ritrova, in verità, in molte opere della recente produzione dell’artista. In Apollineo vs. Dionisiaco (2022), una tela dal titolo chiaramente programmatico, innervati nella trama d’immagini classiche (tra cui un vaso greco a figure nere, una dionisiaca testa di satiro e varie fisionomie di Veneri) compaiono, infatti, gli emblemi del compasso e del pavimento a scacchi bianchi e neri. Il primo, col suo tracciato circolare, allude alla necessità da parte dell’iniziato di dominare e circoscrivere i desideri e le passioni; il secondo, modellato appunto sul pavimento del Tempio di re Salomone, è simbolo della natura duale e conflittuale dell’anima umana, in cui si annidano i principi contrapposti del bene e del male, della luce e delle tenebre, delle virtù e dei vizi, che insieme ad altre diadi rispecchiano i presupposti del divenire fenomenico. Il pavimento a scacchi, il cui significato è simile a quello espresso dal simbolo taoista dello Yin e dello Yang, si staglia anche nel dipinto Enfant Übermensch (2022), opera incentrata sul concetto nietzschiano di oltreuomo, metafora dell’uomo liberato dai falsi valori etici e sociali imposti dallo spirito apollineo – emblematicamente incarnato dalla filosofia socratica -, e prometeicamente proiettato verso un futuro di gioiosa accettazione del fondo tragico e caotico dell’esistenza umana. Nella tela dell’artista, la reiterazione di figure infantili, allude all’oltreuomo come progetto pedagogico di pianificazione di una personalità capace di squarciare la pellicola illusoria che avvolge la realtà, quel Velo di Maya di cui parla Schopenhauer, che nasconderebbe la natura dolorosa dell’esistenza. Nulla a che vedere, dunque, con le raccapriccianti prospettive di dominio e sopraffazione naziste. Piuttosto, Valentina Chiappini rintraccia una sorta di affinità tra la prassi gnostica di perfezionamento interiore e il progetto nietzschiano di costruzione di un uomo nuovo, così come viene descritto nelle pagine di Also sprach Zarathustra. Quel che affiora nel coerente racconto iconografico che collega tutte le sue opere è, infatti, la volontà di intendere la vita come un percorso di gnosi e trasformazione radicale dell’individuo, in vista di un comune bene futuro.
Enfant umbermensch, 2022, Tecnica mista acrilici, graffio, combustione su tela, 2022, 70×100 cm
Per condurre a termine l’impresa, esemplificata anche nell’acrostico alchemico Vitriol (Visita interiore Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem), è necessario che il discepolo affronti il proprio lato oscuro, che compia insomma l’opera di sublimazione, discendendo prima nelle profondità abissali della propria anima, per poi affinarsi nella luce della verità. A questo sembra riferirsi il quadro Nosce Te Ipsum (2022), che riprende, in traduzione latina, la famosa iscrizione incisa sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi che esortava gli uomini a riconoscere i propri limiti, prima di intraprendere la via della conoscenza. Nel dipinto, oltre a uno degli apoftegmi attribuiti ai Sette Sapienti (γνῶϑι σεαυτόν), compare, tra le varie figure, la testa di una tigre, simbolo orientale di forza e potenza che in un antico detto cinese, “Cavalcare la Tigre”[3], diventa espressione della capacità dell’individuo di controllare i propri istinti e le proprie pulsioni.
In questa pittura costellata di simboli, si collocano altri due dipinti, Velo di Maya (2022) e Valkyrie (2022), che mostrano l’immagine dello scheletro di un tronco umano, insieme memento mori, ossia meditazione attorno alla natura caduca dell’esistenza, e metafora della Nigredo, in particolare della Putrefactio (Putrefazione) che caratterizza la fase al Nero della Grande Opera alchemica. Inoltre, nella wagneriana Valkyrie, l’effige mortuaria dello scheletro è abbinata alla conchiglia del mollusco Nautilus che, con la sua forma a spirale aurea, simboleggia i processi naturali di crescita e proliferazione delle forme vitali. Ancora una volta, come già nell’opera Apollineo vs. Dionisiaco, ritorna, dunque, il principio duale che regola il divenire della creazione, il medesimo occultato nel motivo magico della scacchiera.
Le nuove opere di Valentina Chiappini marcano il passaggio a una fase di maturità, ravvisabile nella costruzione di una grammatica che innesta sui motivi individuali gli eterni interrogativi esistenziali. Il risultato è una pittura fatta di continue sovrascritture, di stratificazioni simboliche che offrono molteplici livelli di lettura e che ci permettono di rispondere all’annoso quesito sull’utilità dell’arte. D’altra parte, se ha ragione Nietzsche, dobbiamo considerare l’arte alla stregua di uno strumento filosofico, il solo capace, nel tragico conflitto tra i principi primordiali dell’apollineo e del dionisiaco, di metterci in contatto con l’essenza stessa della vita… che è anche la più alta forma di esistenza.
[1] Friedrich Nietzsche, Nascita della Tragedia, 1977, Adelphi, Milano, p. 21.
[2] Friedrich Nietzsche, Tentativo di autocritica, 1977, in Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, p. 4.
[3] Usato in tale accezione anche in Julius Evola, Cavalcare la tigre. Orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione, a cura di Gianfranco De Turris, 2009, Edizioni Mediterranee, Roma.
Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago, 2020, olio su tela, 125×100 cm.
Commentando il Salon parigino del 1859, Charles Baudelaire affermava che «L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una provincia del vero»[1]. Più precisamente, secondo il poeta e critico francese, l’immaginazione «scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo»[2]. In altre parole, essa sarebbe un procedimento insieme analitico e sintetico la cui descrizione coincide sorprendentemente con la metodologia della pratica pittorica, la quale ci restituisce un’immagine trasformata del mondo.
Nel caso della pittura di Massimiliano Zaffino, gli elementi analitici e sintetici della facoltà immaginativa sono all’opera già nella fase progettuale, dove l’appropriazione di differenti fonti fotografiche è sottoposta al vaglio di una lucida prassi combinatoria che mira a ridurne al minimo lo scarto estetico e formale degli accostamenti.
Alla base del suo lavoro c’è il rapporto tra la fotografia e il dipinto, tra la tecnica del fotomontaggio e la pratica pittorica. Le opere di Zaffino nascono, infatti, dall’esplorazione delle potenzialità delle immagini nel fotomontaggio. All’origine, il suo progetto iconografico è ricavato da una crasi di fotografie diverse che, in un secondo momento, la pittura convalida nella forma di immagini uniformemente coerenti. Lui stesso afferma in una recente intervista di aver archiviato un buon quantitativo d’immagini: «mi ri-approprio della realtà altrui (le foto possono essere anche miei scatti) combinando più immagini; il paesaggio che ne risulta modifica la funzione scenica e il valore dello stesso»[3]. Dunque, ciò che al principio è il prodotto di una fusione di punti di vista, prospettive e geografie differenti – vale a dire l’esecuzione di collage come forme progettuali o come opere compiute – raggiunge, con la pittura, una dimensione di ulteriore credibilità proprio in virtù dell’amalgama atmosferico tra i differenti elementi che compongono l’immagine.
Fiammata insolita non disturba il piacere di una giornata al mare, 2020, olio su tela, 105×120 cm.
Tuttavia, l’attenuazione delle zone di giunzione o di attrito tra i frammenti iconografici non annulla l’effetto collage della sua pittura, ma rende le sue rappresentazioni surreali decisamente più intellegibili. Si tratti di dipinti o di collage, al centro della ricerca visiva di Massimiliano Zaffino c’è sempre il paesaggio. Il paesaggio inteso come possibilità costruttiva, non come documentazione di luoghi reali.
Pur adottando un linguaggio pittorico apparentemente realistico, l’artista scarta con decisione ogni opzione mimetica per concentrarsi sulla definizione di mondi plausibili. I suoi sono, infatti, luoghi immaginari, ma esplorabili e percorribili con lo sguardo proprio in ragione della loro plausibilità. Non sono geografie totalmente assurde, ma spazi che aprono a una più profonda comprensione delle forme visibili attraverso una fitta rete di corrispondenze tra morfologie differenti.
Quel che in queste immagini appare “fuori posto” – per usare la definizione del termine weird usata da Mark Fisher[4] -, è qui ricondotto alla naturalità dal processo pittorico stesso. Non mi riferisco soltanto alle curiose morfologie che compaiono in molti suoi landscape, come, ad esempio, Tratti irregolari di paesaggio salgono e si uniscono, lontano una strada d’asfalto (2019), Parco costituito da zone alberate, attrezzatura giochi e arco a levitazione laser (2019), Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago (2020) o Forme geometriche rivelano paesaggi a incastro (2018), che sono evidentemente il risultato della combinatoria di luoghi diversi. Alludo, soprattutto, ai magmatici fluidi che attraversano le opere più recenti, da Azione di contenimento di lama fuoco e pratica chiarificazione prerogativa di un mondo dissonante (2021) a Forme di magnetismo cosmico attraversano parco alberato (2021), e alle anomalie atmosferiche che caratterizzano lavori come Meccanismo simultaneo di oggetti luminescenti precipitano da est a ovest (2021), Fiammata insolita non disturba il procedere di una giornata al mare (2020) e, infine, Intrattenimento campestre fatto di ricordi con il ponte luminoso spaziale (2020).
Nei paesaggi feriali di Zaffino, dove l’umanità è impegnata in attività di svago e di relax, l’irrompere di inaspettati effetti climatici e atmosferici – eruzioni vulcaniche, distorsioni magnetiche, bizzarri fenomeni di rifrazione della luce, vortici fluidi e prodigiose levitazioni – non ha nulla di apocalittico. La destabilizzazione della realtà sembra, infatti, abituale, quasi consuetudinaria. Caos e disequilibrio fanno parte della quotidianità, sono, cioè, fenomeni naturali come gli Iperoggetti teorizzati dal filosofo ecologista Timothy Morton: cose viscose, di singolare grandezza, che esistono su scale temporali che l’uomo non può comprendere, ma di cui subisce comunque gli effetti. Oggetti, insomma, come il riscaldamento globale o le scorie nucleari, il petrolio o la biosfera, le radiazioni solari o i buchi neri, i quali inaugurano una sorta di nuova dimensione masochistica dell’esperienza estetica.
«Svegliarsi all’ombra degli iperoggetti», scrive Morton, «è come trovarsi in un film di David Lynch in cui diventa sempre più difficile distinguere il sonno dalla veglia»[5]. Qualcosa di simile avviene nella pittura di Zaffino, dove si avverte l’erompere di un’alterità irriducibile, di una esternalità, cioè di qualcosa che proviene da una dimensione altra, estranea, di cui quei bizzarri fenomeni fisici e climatici sono prefigurazione e annuncio.
Secondo Morton, «l’arte e l’architettura nell’epoca degli iperoggetti devono (automaticamente) includere nel loro regno gli iperoggetti, anche quando questi si dimostrano recalcitranti»[6]. Perciò, il quieto stravolgimento della realtà nella pittura di Zaffino, conseguenza diretta di un’indagine estetica e formale sulle potenzialità combinatorie del collage fotografico, può anche essere interpretato come la visione premonitoria di un futuro più che prossimo in cui ci sembrerà normale ciò che oggi ci appare straordinario.
Questa capacità fittizia di dare corpo con la pittura a una realtà potenziale, ossia la «simulazione trionfante che progettava Baudelaire»[7], è in fin dei conti il nocciolo della questione. L’arte, ammette Baudrillard, «è sempre stata simulacro, ma un simulacro che aveva la potenza dell’illusione»[8].
Massimiliano Zaffino riesce a trasformare la potenza illusoria, che sta alle radici della mimesis pittorica, in qualcosa di sottilmente destabilizzante. I suoi landscape portano il concetto di perturbante nella sfera dell’ordinario e del plausibile e, così, amplificano la nostra percezione e orientano il nostro sguardo verso la comprensione di possibilità inedite. Alcune di queste possibilità hanno l’aspetto di morfologie fantastiche, luoghi che vorremmo aver visitato, altre prefigurano, forse inavvertitamente, la fine di un’era e l’inizio di una serie di accelerazioni catastrofiche.
[1] Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1992, p. 223.
[3] Francesco Mancini, Gli incredibili specchi d’acqua di Massimiliano Zaffino, http://www.artwave.it, 2 marzo 2020.
[4] «È l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird», in Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018, p. 23.
[5] Timothy Morton, Iperoggetti, Nero edizioni, Roma, 2018, p. 197.
Nel 1945, dopo la Liberazione, alcuni artisti di Corrente confluiscono nel Fronte nuovo delle arti, un raggruppamento piuttosto variegato, attivo tra Milano, Roma e Venezia, che intendeva superare e archiviare le espressioni novecentiste muovendo dall’esemplarità del linguaggio picassiano di Guernica. La lezione postcubista era, però, diversamente intesa dai vari membri del gruppo formato, tra gli altri, da Guttuso, Birolli, Morlotti, Santomaso, Vedova, Corpora e Turcato.
Quando, alla Biennale di Venezia del 1948 – la prima del secondo dopoguerra -, il Fronte nuovo delle arti si presenta al pubblico, sono già evidenti le fratture interne che nel 1950 porteranno allo scioglimento del gruppo e alla polarizzazione tra astrattisti e realisti. Non a caso, Giulio Turcato, iscritto al PCI, già nel 1947 aderisce, con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Sanfilippo, Guerrini, e Perilli, al gruppo romano Forma 1, che si dichiara “formalista e marxista”, in antitesi alla politica culturale del partito, che invece s’identificava con la scelta realista di Guttuso.
Del gruppo romano, Achille Perilli fa da tramite con il MAC (Movimento arte concreta), fondato alla Libreria Salto di Milano nel 1948 da Bruno Munari, Gillo Dorfles, Atanasio Soldati e Gianni Monnet, che promuove un’arte astratta priva di ogni riferimento al mondo delle forme sensibili e con Lucio Fontana che a Milano, dopo il suo ritorno dall’Argentina, cerca di elaborare un linguaggio che superi i limiti della pittura e della scultura tradizionali.
Proprio nello scorcio finale degli anni Quaranta, quando il dibattito artistico italiano è animato dalla querelle tra i movimenti formalisti astratti e le tendenze del realismo socialista, s’inserisce l’avventura pittorica non-oggettuale di Mario Nigro.
Mario Nigro, 14.A4, 1975-79, acrilico su masonite, cm 60×60
“Le esperienze neo-cubiste”, ricorda l’artista, “mi portarono istintivamente, tra il 1946 e il ’47 ai primi elementi, come fondali senza riferimenti figurativi e le stesse figure divenivano forme geometrizzanti autonome, si può dire che rifeci, istintivamente, da Kandinskij a Klee a Mondrian a Malevic”[1]. L’avverbio istintivamente, ripetuto per ben due volte in questa affermazione, si può forse spiegare con la formazione scientifica di Nigro, laureato nel ’41 in Chimica Pura e nel ’47 in Farmacia all’Università di Pisa, cioè con quel retroterra culturale razionale e rigoroso che lo porta, inevitabilmente, a prediligere la dimensione programmatica e progettuale dell’arte astratta. Tuttavia, questo approccio metodologico di marca scientifica, più volte ribadito[2], si salda, fin dal principio, con l’influsso esercitato dai precedenti studi musicali in pianoforte e violino. Molti anni dopo, all’amica scrittrice e critica Carla Lonzi confesserà, infatti, di aver capito la struttura della musica e di aver cercato, sull’esempio di questa, d’individuare una struttura per la pittura: “Quindi mi sono venuti spontaneamente i ritmi, le ripetizioni, quelle che oggi chiamo iterazioni […]”.[3] Nascono, così, i primi lavori, come Ritmo verticale (1946), Ritmi obliqui (1949) e Ritmi orizzontali simultanei continui (1949), in cui l’artista traduce in diagrammi di modulazioni lineari il simultaneismo dei futuristi.
Dopo la mostra d’esordio nel 1949 alla Libreria Salto e la sua adesione al Movimento Arte Concreta, il tema lineare e quello iterativo vengono deliberatamente inseriti in una configurazione a scacchiera che ricalca l’archetipo della griglia astrattista, una struttura cartesiana, logica e programmabile entro cui Nigro inserisce l’elemento ritmico e dirompente delle linee intrecciate ai colori. Nel ciclo dei Pannelli a scacchi, iniziato nel 1950, le grate sono riempite di tasselli bianchi e neri e, più sporadicamente, da tasselli rossi, blu e gialli di ascendenza De Stijl. Tuttavia, la vibrazione generata dalla diversa distribuzione di moduli rettangolari e quadrati sulla superficie finisce per generare un effetto dinamico che altera sottilmente la percezione ottica. L’evidente riferimento a Mondrian sembra, dunque, inteso in una prospettiva di superamento dell’idealismo dell’artista olandese. Le variazioni ritmiche di Nigro – come già le linee oblique di Theo Van Doesburg – sconvolgono, infatti, la stabilità della griglia, contravvenendo alle intenzioni spiritualistiche del Neoplasticismo (e del Suprematismo) di costruire uno spazio puro, inalterabile, antitetico al mondo corruttibile delle forme fenomeniche. “L’ordinato incrocio perpendicolare di linee ortogonali del 1950 si frastaglia”, scrive Luca Massimo Barbero, “si moltiplica e viene traslato seguendo molteplici direzioni; ora sono gli andamenti obliqui, che definiscono forme triangolari in cui i diversi piani si allineano seguendo le diagonali prospettiche, a condurre il gioco delle sovrapposizioni e delle inclinazioni”[4]. Tutto il successivo percorso di Nigro muove, dunque, da questa precisa rottura con la tradizione Neoplastica, Suprematista e Costruttivista. Una rottura che si fa più evidente nelle strutture reticolari che precedono le opere dello Spazio totale, dove la griglia, cioè lo spazio ostruttivo e claustrofobico del primo piano lascia filtrare la dimensione tonale ed espressiva dello sfondo monocromo. La dicotomia tra griglia e fondo è indicazione di un conflitto che si consuma all’interno del linguaggio razionale dell’astrazione geometrica, la segnalazione di un cedimento delle forze ordinatrici e logiche sotto la spinta dei fatti emozionali che riguardano la sfera esistenziale, quella che Heidegger chiama In-der-Welt-Sein, la condizione dell’individuo nel mondo.
Riferendosi ai lavori del periodo 1953-1954, Nigro dirà, infatti, che “Il reticolo, a parte la necessità ritmica, e perciò metodologica, di identificazione poetica in un linguaggio plastico, crea proprio questa sensazione dell’uomo che ha dinnanzi a sé una rete come se fosse prigioniero: al di là c’è la libertà, il colore puro [del fondo], il colore più vivo, più violento che si possa immaginare”[5].
Quando nel 1953 Nigro giunge alla definizione concettuale dello Spazio totale intende, di fatto, superare il campo d’indagine della prima generazione di artisti astratti, cioè quella bidimensionalità che “non trova rispondenza con la situazione dell’individuo immerso nella molteplicità degli eventi”[6]. Come scrive il filosofo Franco “Bifo” Berardi “L’astrazione è stata la tendenza generale dell’ultimo secolo, tanto nella sfera dell’arte quanto in quella del linguaggio e dell’economia”[7]. Secondo lui “Si può definire l’astrazione come l’estrazione mentale di un concetto da una serie di esperienze reali; ma si può definire anche come la separazione della dinamica concettuale dal processo corporeo”[8]. Soprattutto con le opere del ciclo Spazio totale, cui si dedica per oltre un decennio, Nigro sembra ristabilire un rapporto tra il linguaggio dell’astrazione e la dimensione del vissuto storico e individuale. L’analisi dello spazio, a cui si dedica anche Lucio Fontana che nel 1949 espone alla Libreria Il Salto, i primi Concetti spaziali, muove, per Nigro, dalle sperimentazioni futuriste di Balla sul movimento e dal suo utilizzo della linea. Tuttavia, rispetto a Fontana, Nigro usa un approccio differente. “In particolare”, scrive Giovanni Maria Accame, “non vi è nessuna volontà di risolvere dall’esterno della superficie, con il gesto e la conseguente fisicità che comporta l’azione, il problema di un diverso spazio”[9]. Usa, invece, la pittura con approccio analitico e costruttivo per fare emergere una conflittualità interna al linguaggio e ricollegarsi, così, alle teorie della scienza relativistica. Lo Spazio totale introduce, infatti, scrive Accame, “l’idea di una compresenza di più realtà” che lascia spazio alla fantasia e alla sensibilità dello spettatore e, al contempo, introduce l’elemento tragico dell’esistenza che era stato espunto dal Neoplasticismo di Mondrian. “Durante il periodo dello ‘Spazio totale’ il dramma”, scrive l’artista, “si esplicava dalla simultaneità di questi ritmi progressivi seriali, i quali però, ripetendosi progressivamente definivano un aspetto di tragedia fatalistico”.[10] Lo spazio nella pittura di Nigro diventa, in sostanza, il teatro di uno scontro di elementi simultanei e di tensioni tra sfondo e reticolo che rimandano alle quelle che si consumano nella dimensione politica e sociale della Storia. Il coinvolgimento e l’attivismo dell’artista in qualche modo si riflettono, nel dominio linguistico della pittura, in una sorta di diagrammatica visualizzazione del dramma esistenziale. Un dramma che si acuisce nel 1956 con l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa, un episodio che l’artista vive come un tradimento degli ideali socialisti.
“Quando faccio le intersezioni è un atto tragico”[11], dirà anni dopo a Carla Lonzi. Un atto che, sul piano visivo, porta all’appesantimento della griglia reticolare e a una progressione caotica dell’elemento dinamico che culminerà nella transizione dai lavori dello Spazio totale a quelli del nuovo ciclo del Tempo totale. Un passaggio quasi didascalicamente evidenziato nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1968, quella della contestazione, dove sono esposte opere che dialogano con l’ambiente in una dimensione liminare tra pittura e scultura.
Lavori come Dal ‘Tempo totale’: passeggiata progressiva con variazione cromatica (le stagioni) del 1967-68, Dallo ‘Spazio totale’: serie di 12 rombi continui a progressioni ritmiche simultanee alternate opposte (1965), ‘Tempo totale’: traliccio a rombi progressivi (1967) e ‘Tempo totale’: traliccio a rombi progressivi simultanei (1967) tradiscono lo slittamento dal dominio contemplativo del quadro a quello concreto e materiale dell’oggetto, che invita lo spettatore a immergersi in un’esperienza totale. Infatti, con i rombi progressivie la passeggiata progressiva della Biennale e poi con la successiva serie delle Strutture fisse con licenza cromatica, “la fantasia dello spettatore è sacrificata” afferma Nigro, perché “[…] psicologicamente, interviene il fattore della sensazione del tempo che passa e che pone lo spettatore, non in una condizione di formulazione di immagini, ma, fermando la sua attenzione su una serie progressiva limitata di una medesima immagine, lo obbliga a un pensiero fisso… forse, alla constatazione del tempo che passa”[12]. Soprattutto nelle Strutture fisse con licenza cromatica Nigro perviene a un’assoluta “rarefazione e minimalità del sistema segnico, inequivocabilmente non narrativo, per introdurre quella dimensione psicologica e qui ampiamente autobiografica, che sta attorno e dentro i quadri”[13] e che, di fatto, costituisce il punto di partenza di un linguaggio che si svilupperà negli anni seguenti, fino alle opere che sono oggetto di questa mostra, il cui nucleo centrale è costituito dagli acrilici su superfici quadrate di masonite (1975-79).
Proprio a partire dal ciclo Dal ‘Tempo totale’: le strutture fisse con licenza cromatica, l’iterazione ritmica, modulare e seriale dei segni, ormai liberata dall’inquadramento della griglia reticolare, assume un’organizzazione insolita che lascia affiorare, o meglio indica, anche attraverso i titoli posti tra parentesi come L’armata rossa vincerà (1969), L’incontro1-5 (1972), Lettera di un raro amore (in dodici pagine) del 1972, Trilogia dell’amore (1973) e Sogno di un vero amore (1973), l’elemento intimo ed emotivo nel suo stato di raffreddamento oggettivo. Qui il sentimento tragico dello Spazio totale è sostituito da uno sguardo distaccato, che osserva il dramma del tempo – e quindi della morte – come un fatto da accertare: “nel ‘tempo totale’ è come se fossi gelato, ma gelato nel senso di constatare una situazione e di constatarla a mente rigida, di non credere, di non farmi coinvolgere da un dramma, di poter porre rimedio e, secondo me, un rimedio a un dramma non si pone quando ne siamo coinvolti, ma si può porre quando lo vediamo un po’ dl di sopra”[14].
Questo atteggiamento constatativo si ritrova anche nei più tardi dipinti Rosso inorganico (1972), Amore mio (1974), Meditazione (1974), Nel Bosco (1975), Prato (1975) ed in altri senza titolo, dove il vissuto emotivo, psicologico ed esperienziale è lucidamente tradotto in iterazioni lineari turbate da alterazioni, aritmie e licenze cromatiche che formano il codice descrittivo del suo linguaggio analitico.
Si tratta di una sequenza di opere in cui la grammatica di linea e colore raggiunge una stringata essenzialità proprio nel rapporto tra la segmentazione ritmica del segno e l’uniformità dello sfondo. Un’essenzialità che assimila questi diagrammi visivi alle partiture musicali.
Soprattutto nei dipinti del cosiddetto Periodo della “linea”, databile al biennio 1976-77 – alcuni dei quali sono stati esposti alla Galleria Lorenzelli di Milano (1977) – l’elemento cromatico, e dunque pittorico, diventa prioritario. In questi lavori un’unica linea colorata attraversa obliquamente l’intera superficie, facendo da contrappunto alla monocromia del fondo, ma senza mai coincidere con una diagonale perfetta. I segmenti di Nigro – derivati dal Tempo totale – non attraversano mai i punti d’intersezione angolare del supporto, per non cristallizzarsi in geometrie rigide e per non circoscrivere uno spazio e un tempo precisi. “Retta da costruzioni ideali fondate sulla sezione aurea”[15], la linea di Nigro è senza soluzione di continuità, un’espressione cromatica e ritmica che egli stesso definisce “metafisica del colore”[16] per identificare la centralità dell’elemento cromatico in pittura e la sua capacità di aderire alla dimensione psichica dell’uomo, salvandolo dall’atrofia e dall’alienazione.
Se è vero, come scrive lui stesso, che “L’essenzialità dell’arte risiede nell’essenzialità della vita, cioè dell’amore”[17] e che “L’arte può ancora salvare l’amore, sempre che non diventi essa stessa alienazione dell’edonismo [cioè una forma deviata dell’amore]”[18], allora queste opere rappresentano il culmine di un processo artistico che, con intelligenza e con obiettività, cioè senza mai scadere nell’identificazione emotiva, irrazionale e incontrollata, ha finalmente collegato la sfera del pensiero a quella, altrettanto essenziale, dei sentimenti. Nigro ha strappato l’espressione aniconica geometrica all’iperuranio delle tradizioni suprematiste e neoplastiche e l’ha restituita alla dimensione temporale della storia e al fatale dramma individuale dell’In-der-Welt-Sein.
[1] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Mario Nigro. Catalogo ragionato 1947-1992, Skira, Milano, 2009, p. 54.
[2] “La tecnica del dipingere l’adopero in quanto ho sempre considerato i miei lavori come progettazioni che dovrebbero essere realizzati in grandi dimensioni. Quindi, do valore massimo alla ricerca metodologica che, come primo atto, è progettazione. Per me, la realizzazione ha un’importanza marginale, non essenziale […]. Però, come punto di partenza, c’è sempre il fatto progettativo, ossia metodologico”, in Carla Lonzi, Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, Abscondita, Milano, 2017, p. 76.
[4] Luca Massimo Barbero, Mario Nigro. Dal ‘Ritmo verticale’ al ‘Tempo totale’, A Arte Invernizzi, catalogo della mostra, 23 febbraio – 21 aprile 2017, Milano, p. 11.
[9] Giovanni Maria Accame, Mario Nigro: tempo totale 1965 – 1975 (Palazzo Municipale Morterone), catalogo della mostra, Amici di Morterone – Comune di Morterone, 1989, p. 13.
[10] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Op. cit, p. 185.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.