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Philip Rallo. Visioni del desiderio

19 Nov


All’evento la Galleria partecipa con lo stand personale dedicato all’artista Philip Rallo, dove verrà esposta una selezione delle sue opere più recenti.

Sarah Ledda. Almost True

10 Lug

di Ivan Quaroni

La vexata quaestio del rapporto della pittura con la realtà, ovvero della sua presunta funzione mimetica nei confronti del mondo fenomenico, subisce un’impennata iperbolica con l’irrompere prima della fotografia, poi del cinema e, infine, inevitabilmente, della televisione e dell’immagine digitale computerizzata. Queste rivoluzioni ottiche di portata cataclismatica hanno prodotto una profonda accelerazione e, come avvertiva Peter Seger, una “perturbazione dell’equilibrio della coscienza della realtà”[1]. Definire che cosa sia la realtà, pur nel solo ambito della rappresentazione pittorica, è diventato problematico, se non addirittura impossibile. 

Nel 1855, all’epoca in cui fu inaugurato il suo Pavillon du Réalisme, per Gustave Courbet la pittura realistica consisteva unicamente nella rappresentazione di cose che l’artista può vedere e toccare. Oggi, però, l’ambito del “vedere” si è enormemente accresciuto, è diventato ipertrofico. L’equilibrio tra le strutture e le attività del nostro apparato sensorio è stato alterato a favore della vista, che ha assunto un ruolo primario rispetto alle altre facoltà percettive. La realtà si è virtualmente amplificata nel momento in cui il “vedere” è diventato anche un “tele-vedere”, cioè, secondo la radice greca del termine “tèle”, un vedere “da lontano”, dove la “lontananza” marca una distanza fisica tra il corpo e l’oggetto ormai smaterializzato della nostra visione.  

Per comprendere il lavoro di Sarah Ledda è necessario partire da qui, ossia dal mutato regime delle condizioni in cui si trova a operare l’odierno pittore della realtà. Una realtà moltiplicata, espansa, deterritorializzata attraverso la produzione e riproduzione di immagini finzionali che lambiscono e insidiano il perimetro dell’esperienza sensibile. 

Ma è anche vero, come scriveva Seger, che “ogni realismo è diverso dalla realtà” e che “[…] non c’è rappresentazione della realtà senza il suo concetto, senza una visione almeno quotidiana di essa, senza l’esperienza e la concezione di ciò che la realtà è per ogni epoca”[2].  In tal senso, perfino la pittura più mimetica non può essere considerata il prodotto di un semplice atto di riproduzione della realtà ma, semmai, un tentativo di appropriazione e di interpretazione della realtà stessa. Tentativo che altera, talvolta radicalmente, ciò che viene raffigurato attraverso il filtro della rappresentazione concettuale e della produzione tecnica e ideativa. Altrimenti “copiare la realtà” sarebbe, come pensava Hegel, un lavoro inutile e “uno sport presuntuoso”. 

Me at funfair, 2018, olio su tela, 80×120 cm

La pittura di Sarah Ledda, com’è evidente, non concerne affatto la mera rappresentazione della realtà, ma nemmeno la celebrazione di un immaginario mediatico facilmente condivisibile attraverso l’innesco di una mutua complicità tra artista e osservatore, basata sul riconoscimento di icone del cinema hollywoodiano, che sarebbero entrate di diritto nel patrimonio delle immagini universali – cosa della quale si potrebbe dubitare nello sfaccettato scenario multiculturale globale. 

Quella di Ledda è piuttosto una ricerca incentrata sull’atto della visione, intesa come capacità di rielaborazione consapevole delle immagini e, insieme, come processo di riorganizzazione del mondo, dell’insieme delle esperienze interiori ed esteriori che l’artista ha maturato e poi eventualmente trasferito nella sua prassi artistica. Non si tratta, nel suo caso, di riprodurre con esattezza l’immagine che sta davanti ai suoi occhi, sia essa il fotogramma di un film di Hollywood o di una vecchia serie televisiva americana, ma di tradurre con la potenza metamorfica del linguaggio pittorico una visione interiore che il frame può incarnare o “personificare”, per effetto di una sorta di transfert o di scambio simbolico tra la memoria personale dell’artista e l’immagine virtuale e mediatica. 

Dal momento che le scene dipinte da Sarah Ledda sono innanzitutto quelle viste dalla prospettiva di uno spettatore davanti a uno schermo, la loro trasfigurazione pittorica assume anche il significato di una sottrazione della pittura alla mimesi del reale e, di conseguenza, di una restituzione alla sua funzione mitopoietica. 

La ricerca dell’artista, infatti, si configura come una pratica di ricodifica dell’immagine filmica in grado di trasformare l’essenza traumatica della realtà in un alfabeto di figure riconoscibili, anche se non necessariamente universali. In particolare, il repertorio del cinema classico hollywoodiano e di certe serie televisive che hanno plasmato l’immaginario mediatico occidentale, si offre come una sorta di dispositivo allegorico, una “macchina per pensare” i motivi di una poetica che ruota, sovente, attorno alla questione della formazione dell’identità femminile. 

Tutto in una lettera, 2021, olio su tela, 180×240 cm

In questo senso, il frame – sia esso quello del volto di una diva di hollywoodiana come Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, Liz Taylor e Judy Garland  o, ancora, quello della giovane Inger Nilsson nei panni di Pippi Calzelunghe oppure dei bambini protagonisti della sitcom Family Affair – non solo appartiene alla memoria personale dell’artista, ma può trasformarsi, grazie alle comuni esperienze di un pubblico multigenerazionale, in un segnale condiviso, capace di stimolare una reazione in chiunque lo riconosca. 

Il fotogramma sublimato nella grammatica pittorica può diventare, così, l’espressione di un nuovo tipo di rappresentazione realistica, che usa il filtro delle produzioni mediali della cultura di massa per indagare i temi della memoria e delle emozioni nel rapporto dialettico tra fiction e realtà. 

Tuttavia, come acutamente notava Ernst Gombrich, “la pittura è un esercizio attivo, perciò l’artista tenderà a vedere quello che dipinge più che dipingere quello che vede”[3]. Così è per Sarah Ledda, che non si limita a riprodurre fedelmente il fotogramma, ma introietta l’immagine filmica nella pittura per farla coincidere con memorie, sentimenti e stati d’animo che talvolta precedono l’atto della visione e talaltra coincidono con il momento di selezione del fermoimmagine. “Ogni soggetto trasformato in dipinto”, racconta l’artista, “è un elemento mitobiografico che mi aiuta a definire la mia identità”[4]. Ma un effetto secondario di questo processo è inevitabilmente anche quello di rivitalizzare e riattualizzare quei frammenti di simulazione che, per dirla con Baudrillard, sono “frammenti di quella simulazione universale che è diventato per noi il mondo che si dice reale[5].

Per il sociologo francese, infatti, non è più possibile fabbricare l’immaginario a partire dal reale, anzi “il processo sarà piuttosto l’inverso: si tratterà di realizzare […] modelli di simulazione e di ingegnarsi a dar loro i colori del reale, del banale, del vissuto, di reinventare il reale come finzione, proprio perché il reale è scomparso dalla nostra vita”[6].

Light view, 2022, olio su tela, 60×80 cm

Il formato del frame, la singola immagine visualizzabile da un nastro videomagnetico, ma anche il fotogramma di un lettore dvd e perfino l’artificio del Technicolor – una tecnica di ripresa cinematografica a colori accesi e vivaci – diventano, così, il quadro concettuale entro cui Sarah Ledda opera questa reinvenzione del reale. 

E, tuttavia, l’artista si appropria di questa strumentazione alterandola. Ciò significa non solo che può selezionare solo una porzione circoscritta dell’intero fotogramma, oppure nascondere o esaltare particolari della scena come gli oggetti e gli sfondi, ma può anche rimodulare, grazie alla pittura, la grana stessa dell’immagine, ad esempio acuendo l’intensità cromatica con l’esasperazione del Technicolor, virando i colori verso le gamme dei rosa o degli azzurri e, infine, sfocando i contorni delle figure e smaterializzando lo sfondo in campiture astratte. L’evidenza del segno pittorico, per quanto sorvegliato e privo di accentuazioni gestuali, resta, infatti, tanto palese da non lasciare dubbi. Inoltre, altri elementi evidenziano come la sua sia, anzitutto, un’indagine sulla pittura stessa, concepita come strumento costruttivo che si avvale di lemmi extra-pittorici, come il taglio cinematografico dell’inquadratura, gli espedienti ottici della sfocatura e della dissolvenza e perfino i sottotitoli impressi sul bordo inferiore dei fotogrammi. 

In particolare, l’inclusione dei sottotitoli, rilevabile soprattutto in alcune tele della serie Deadline, ha una duplice funzione: da un lato, rivela immediatamente la fonte mediatica dell’immagine, dall’altra, la risemantizza tramite l’interruzione del tessuto narrativo della pellicola. Così, il cortocircuito prodotto dall’associazione tra il volto di Anissa Jones – la “Buffy” di Family Affair – e il sottotitolo estrapolato dal più ampio contesto di un dialogo, può diventare un’immagine gnomica, che compendia un significato morale (ad esempio, “Her eyes are bigger than her stomach”), oppure può assumere un valore enigmatico (come nel caso di “and a tree with a tree house”). Come afferma l’artista, “è pittura anche la parola scritta, parte integrante di immagini che includono anche il senso di una specie di oracolo”[7] [quasi che il sottotitolo, isolato e sottratto al flusso sequenziale dei dialoghi, acquisisse la medesima qualità enigmatica delle epigrafi del Tempio di Apollo a Delfi]. 

Fading, 2014, olio su tela, 16×14 cm

In molte opere di Ledda, il carattere pretestuoso del frame appare inequivocabile. La fonte mediatica di partenza sembra retrocedere, fino quasi a scomparire, lasciando emergere la qualità squisitamente pittorica del materiale visivo. In alcuni lavori della serie Deadline, ad esempio, l’artista sembra quasi svelare il momento generativo dell’immagine, mostrandoci la quadrettatura sottostante, tradizionalmente usata dai pittori per costruire l’impianto disegnativo di un quadro. In molte tele, invece, si può notare come l’iconografia di partenza venga traslata in immagini a cui sembra sia stata sottratta l’originaria esattezza ottica. Non solo i contorni delle figure sono talvolta sfocati (Light View, 2022; Me at the Funfair, 2018; e-mer-sió-ne, 2018) e gli sfondi talora ridotti a un magma cromatico indifferenziato (In my Garden, 2019; Beata Solitudo, 2019), ma l’intero impianto delle opere dell’artista sembra caratterizzato da una sorta di bassa fedeltà retinica, che riproduce in termini pittorici la qualità aleatoria e frammentaria dei ricordi. Memorie che, in questo caso, sono letteralmente reinventate con l’ausilio dell’immaginario filmico e quindi riprodotte in pittura attraverso quella che Gilles Deleuze ha definito come una “ripetizione differente”, non pedissequa. 

Beata solitudo (sola beatitudo), 2019, olio su tela, 68×80 cm

D’altra parte, a proposito di quanto riferito dall’artista sul fatto che ogni suo quadro può essere considerato un elemento mitobiografico di costruzione dell’identità, vale la pena ricordare quanto scritto proprio da Deleuze, e cioè che “tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è [appunto] quello della differenza e della ripetizione”[8]

Un gioco che ritroviamo anche nell’unico lavoro extra-pittorico di Sarah Ledda, intitolato A/R (Frames), una serie di fotografie, montate in sequenza video, che ritraggono scorci di paesaggio catturati nell’arco di dieci anni lungo la tratta ferroviaria tra Aosta e Torino. Sono geografie mobili che subiscono continue, impercettibili variazioni nel tempo, dovute non tanto alle inevitabili modificazioni morfologiche del paesaggio, quanto alle mutazioni che lo sguardo dell’artista subisce nell’impresa di tradurre il proprio vissuto in immagini e trasformare, così, la propria bildung in un complesso apparato visivo dove l’occhio interno dell’artista e quello esterno dell’osservatore s’incontrano sul piano della pura simulazione. 


[1] Peter Seger, Le nuove forme del realismo, 1976, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, p. 10. 

[2] Ivi, p. 9.

[3] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica., 1965, Giulio Einaudi editore, Torino, p. 104.

[4] Parole autografe dell’artista. 

[5] Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, 2010, Mimesis, Milano-Udine, p. 13.

[6] Ivi, p. 12.

[7] Idem, come nota 4.

[8] Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, 1997, Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 2.

Marco Luzi. Nuda veritas

13 Feb

di Ivan Quaroni

 

passa e non tocca, 30x27 cm, olio su tavola, 2008

Vedete la nudità, l’inciampo, la caduta, l’equilibrio precario? Sentite l’incertezza, la prova, continuamente ripetuta, di una possibilità? Questo tentativo scarno di esistere nei confini di una pratica, di un esercizio, di una fatica anche. La nudità, nei lavori di Marco Luzi, non è una semplice esibizione di corpi svestiti o una suadente esposizione di carni erotiche. Finanche protetti dai vestiti, avvolti nei cappotti, i personaggi di Luzi sono nudi. Nudi in una maniera disarmante, persino imbarazzante, insomma tremendamente reale. Nuda Veritas, senza nascondimenti. La verità non è candida e virginale, ma neppure voluttuosa. La verità è lì, dov’è sempre stata, dietro l’occhio offuscato dalla cataratta della realtà. La si può trovare proprio mentre si cerca di sfuggire ad essa. Anzi più la si evita più ti bracca e alla fine ti vince.

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Prima della tecnica, dell’invenzione, del virtuosismo, nei lavori di Luzi c’è questa verità, che assume pose goffe, che affiora dalle smorfie, che dilaga nelle cadute vertiginose, nelle prospettive sghembe. C’è anche una pudicizia, una vergogna forse. E poi una solitudine bianca, accecante, che illumina i corpi per mezzo di una totale assenza di sfondi. Questa solitudine limbica, sospesa è lo spazio in cui si dibatte la consapevolezza del pittore, ma sospetto anche dell’uomo. È come il clean, well lighted place di Hemingway, un posto qualsiasi, ma pulito e ben illuminato, dove trovare un momentaneo rifugio. O forse la tela di Luzi è il posto senza scampo dove la carne, con le sue modificazioni, è rischiarata, colpita violentemente dalla luce. Ma è una carne che progressivamente si disumanizza, che accoglie la tecnologia, forzandola dentro i confini della materia organica.

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Nei lavori dell’artista marchigiano abbondano protesi di ogni tipo, gambe posticce, corpi di bambola, peni smisurati, indolenti. Certe volte persino gli organi vengono esibiti come nelle illustrazioni di un volume di medicina. Ci sono bulbi piliferi, cuori dislocati, ingranditi da una visione macroscopica.  La pelle dei suoi personaggi è arrossata, irritata, viva. Da quell’epidermide, ora flaccida ora tonica, emana una verità che noi occidentali tendiamo spesso a dimenticare. Il corpo è reale, in costante evoluzione e possiede una consistenza, una motilità. Non si può bloccare il corpo in una forma statica, ad esempio eternamente immobile e dunque giovane. La pelle invecchia, gli organi si consumano. Si muore, nonostante tutto, a dispetto delle estensioni e degli aggiustamenti che imponiamo a questa macchina imperfetta. La chirurgia estetica, alla fine, avrà la sua sconfitta. La cosmetica pure. Il corpo vive e muore nello stesso tempo, ha un afrore che le protesi di carbonio non hanno e nemmeno i siliconi. Luzi è colpito dalla capacità dei corpi di diventare inerti come oggetti, di scambiare l’orrore corruttibile dei tessuti con lo splendore lucido delle leghe metalliche e delle gomme. Eppure il suo non è ancora il corpo elettrico cantato da Walt Whitman, ma piuttosto quello meccanico di Philp Dick o di James Ballard. Un corpo provvisto di estensioni, d’innesti, dove si consuma l’incesto tra uomo e macchina. Luzi denuncia la folle illusione dell’uomo moderno, non più capace di accettare il dolore, l’invecchiamento, la morte, anche quando lo riguardano da vicino.

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Anche dipingere in maniera meticolosa, testarda può essere una forma di dolore o quantomeno di sforzo. Quando lo fa, Luzi non tralascia i dettagli, ma insiste sulla resa ottica fino allo stremo. Ciononostante egli non è affatto un iperrealista, non è un riproduttore fedele della realtà. Preferisce alterare le proporzioni, adottare prospettive deformanti, per osservare le cose più da vicino. Luzi è un realista fantastico, un utopista negativo, che ricostruisce verità che l’obiettivo di una macchina fotografica non può restituirci. La fotografia è per lui solo un punto di partenza, un’occasione per studiare l’incidenza della luce, la posizione dei soggetti, gli angoli prospettici. La sfida, invece, è nel farsi della pittura, in quello scontro ravvicinato, quasi un corpo a corpo, tra il pennello e la tela. Qui c’è un mistero, che in altri artisti è completamente assente. L’idea iniziale di Luzi, infatti, può subire molteplici modificazioni in corso d’opera. C’è una qualità erratica nel suo modo di dipingere, una capacità di perdita e di smarrimento che somiglia alle indagini dell’analisi psicanalitica.

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In molti artisti della cosiddetta Nuova Figurazione, invece, l’opera è la logica conseguenza di un progetto dettagliato, che limita l’eventualità di un ripensamento. E, in verità, non è questo il solo elemento di differenza con gli artisti neofigurativi. Marco Luzi, ad esempio, non è affatto influenzato dai linguaggi mediatici. Non ricava le sue immagini dal cinema, dalla televisione, dai fumetti o dalla pubblicità, ma fabbrica le sue visioni autonomamente. Le sue immagini schivano la banalità della comunicazione mass-mediatica, perché sono il frutto di un’intuizione illogica, di una percezione istintiva, quasi animale, dell’oggetto rappresentato. Questa attitudine ferina si avverte pure nel suo modo di restituirci la figura a tutto tondo, quasi potessimo respirarne l’odore, percepirne il calore, sentirne la sostanza.

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Capita raramente che un dipinto ci colpisca in modo così diretto, che ci conquisti ancor prima che intervengano i nostri abituali meccanismi cognitivi, i quali ridefiniscono la nostra percezione sulla base di criteri pregiudiziali o di preconcetti. I corpi crudi di Marco Luzi favoriscono, invece, questa capacità di anti-vedere, di pre-vedere, scartando la ragione giusto un attimo prima che intervenga a riorganizzare lo sguardo. La loro forza non consiste unicamente nella qualità della pittura, nella pulizia formale, cosi priva di sbavature, ma è la conseguenza di un’innata abilità a organizzare lo spazio e a distribuire i pesi sulla tela. Nei suoi ritratti non c’è la visione frontale, l’impostazione simmetrica, centrale. Tutte le figure sono sbilanciate su un lato, quasi si volesse dare loro aria e respiro. Assai spesso esse ci volgono le spalle, ci offrono il profilo e ci guardano dall’alto o dal basso secondo vertiginosi tagli prospettici. Insomma, sono presenti e insieme sfuggenti, forse inadeguate. C’è in loro una sorta di potenza trattenuta che stenta a farsi atto, una bellezza che morde il freno ed è sul punto di implodere.

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La consuetudine critica ci obbliga spesso a trovare dei paragoni, dei punti di contatto con il lavoro di altri nell’intento di dare una collocazione alla ricerca di un artista, d’inserirla in un contesto storico preciso. Nel caso di Marco Luzi questo tentativo sarebbe forzato e, quindi, fallimentare. Il suo è infatti un linguaggio singolare, inedito, ma soprattutto svincolato dalle tendenze e dalle mode della pittura contemporanea. La sua attualità, tuttavia, è evidente nel modo di trattare le figure e di affrontare tematiche che riflettono le urgenze del presente. Si può essere attuali senza essere effimeri? Io credo di si. Il lavoro di Luzi ha una solidità intrinseca, una stabilità d’intenti che ne garantiranno la sopravvivenza. Non ci sono orpelli, malizie, ammiccamenti nelle sue tele. Al contrario, tutto è condensato, compatto, essenziale, come in certi capi d’opera di Caravaggio. Se non fosse un termine troppo logoro, abusato, perfino arrogante, non esiterei ad usare, almeno per una volta, la parola genio.

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