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Annalisa Fulvi. Architetture in transito

11 Mag

di Ivan Quaroni

Vous savez, c’est la vie qui a raison, l’architecte qui a tort.

(Le Corbusier)

Credimi, quella era un’età felice, prima dei giorni

degli architetti, prima dei giorni dei costruttori.

(Lucio Anneo Seneca)

Aria di Expo 2, acrilico su tela, 69x95 cm., 2015

Aria di Expo 2, acrilico su tela, 69×95 cm., 2015

La città come teatro delle trasformazioni culturali e sociali è un tema iconografico ricorrente fin dalla fine del diciannovesimo secolo. Prima le visioni dinamiche dei futuristi, poi gli squarci silenti delle periferie di Sironi hanno trasformato il landscape urbano in un vero e proprio genere. In particolare tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, la pittura figurativa si è spesso cimentata con soggetti metropolitani.

Sulla scia delle teorie dell’etnoantropologo francese Marc Augé, molti artisti hanno sviluppato il tema dei non-luoghi, dedicandosi da un lato alla rappresentazione di spazi abbandonati, dall’altro a quella di luoghi di passaggio, caratterizzati da una riduzione ai minimi termini della socialità. Fabbriche in disuso, vecchi gasometri, scheletri di archeologia industriale, ma anche aeroporti, centri commerciali, ipermercati, autostrade sono entrati stabilmente nell’immaginario della nuova figurazione italiana, documentando la transizione tra una società di tipo industriale e una basata essenzialmente sullo sviluppo del terziario avanzato.

Spazi retrostanti, tecnica mista su lino, 100x120 cm, 2013

Spazi retrostanti, tecnica mista su lino, 100×120 cm, 2013

In anni più recenti, il sociologo Zygmunt Bauman ha messo in discussione la vita quotidiana delle persone nelle grandi aree metropolitane. Nel saggio intitolato Fiducia e paura nella città, Bauman ha documentato come la metropoli, un tempo luogo di sviluppo e promozione sociale, ma anche di sicurezza, sia diventata un ricettacolo di problemi difficilmente risolvibili, che generano un senso di frustrazione e insicurezza. Le città postmoderne sono diventate oggetto di un fenomeno inverso di abbandono, dovuto non solo alle proibitive condizioni materiali ed economiche, ma anche al senso di precarietà e paura, due elementi chiave della teoria di Bauman sulla modernità liquida. Il tema centrale del pensiero del sociologo, è però l’effetto sugli individui provocato dai rapidi cambiamenti della società dei consumi. Rapidi cambiamenti che riguardano anche l’assetto urbanistico, attraverso l’insorgere di cantieri edili che riecheggiano nel panorama visivo di milioni di cittadini, diventando il simbolo della precarietà esistenziale teorizzata dal sociologo polacco.

Aria di Expo, acrilico su tela, 100x130 cm., 2015

Aria di Expo, acrilico su tela, 100×130 cm., 2015

La ricerca di Annalisa Fulvi è incentrata sull’analisi delle trasformazioni del territorio (non solo urbano, ma anche naturale) attraverso la rilevazione di spazi e ambienti in continua metamorfosi. L’artista non documenta soltanto i cambiamenti tangibili del paesaggio, ma anche quelli virtualmente possibili, includendo nel campo della rappresentazione pittorica anche i potenziali sviluppi dell’architettura e delle forme naturali. Fulvi parte dall’osservazione della realtà, e in particolare dall’analisi delle strutture culturali che la definiscono, per costruire una pittura ambiguamente sospesa tra astrazione e figurazione. Una pittura affastellata, in cui si sommano elementi realistici e pattern geometrici, fughe prospettiche e icone segnaletiche. Proprio da Zygmunt Bauman, l’artista ha mutuato l’idea di una società liquida, insieme mobile e instabile, dove la provvisorietà del tessuto urbano diventa il riflesso, e insieme il sintomo, della incertezza psicologica ed esistenziale.

Piovono s t r n z, acrilico su tela, 145x195 cm, 2014

Piovono s t r n z, acrilico su tela, 145×195 cm, 2014

La sua è una pittura che individua nell’indeterminatezza e nella contraddizione i segni caratteristici della realtà contemporanea, restituendoci la visione di uno spazio incompiuto, prospetticamente ambiguo, basato sulla caotica giustapposizione e interferenza di strutture temporanee come impalcature, segnali, tralicci, elementi che evidenziano la natura aleatoria e impermanente del tessuto urbano. “Il concetto che m’interessa sottolineare”, ha spiegato più volte l’artista, “è quello della mutazione delle strutture, in contrapposizione alla solidità della natura”. Mentre il paesaggio naturale trasmette, infatti, un’impressione di stabilità, quello antropico è soggetto a forti pressioni dinamiche che ne ridisegnano l’aspetto, rendendolo, via via, più congestionato e inospitale. Di conseguenza, le trasformazioni ambientali inducono l’osservatore a riflettere sui comportamenti individuali che, spesso inconsapevolmente, hanno causato tali squilibri.

Ironica osservazione, acrilico su tela, 69x95 cm, 2013

Ironica osservazione, acrilico su tela, 69×95 cm, 2013

Aldilà dei risvolti sociologici, l’indagine di Annalisa Fulvi è innanzitutto volta alla definizione di una grammatica pittorica capace di riflettere le tendenze centrifughe dei nuovi modelli di rappresentazione. Assimilabile, per certi versi, alle ricerche di artisti provenienti dalla Nuova Scuola di Lipsia – uno su tutti, David Schnell – la pittura dell’artista italiana è caratterizzata da un approccio figurativo anti-classico, in cui la cultura di progetto si fonde con memorie di matrice cubo-futurista e con riferimenti alla cultura pop. Le sue architetture provvisorie, così come i suoi scorci di paesaggio, sono costruiti attraverso la sovrapposizione dei piani prospettici, il decentramento e la moltiplicazione dei punti di vista e la coesistenza di tecniche e perfino di linguaggi antitetici.

Il paesaggio del passato nel presente e nel futuro, acrilico su tela, 69x95 cm, 2013

Il paesaggio del passato nel presente e nel futuro, acrilico su tela, 69×95 cm, 2013

L’artista non solo mescola dettagli realistici e campiture astratte, ma opera sulla superficie della tela stratificando interventi pittorici e serigrafici, creando, così, un’originale alternanza di elementi caldi e freddi, di apporti grafici e gestuali che alterano la continuità spazio-temporale della rappresentazione. Si può che la pittura ibrida di Annalisa Fulvi sia debitrice tanto nei confronti del collage tradizionale, quanto della moderna pratica del cut & paste digitale, perché in essa la logica combinatoria dell’assemblaggio si fonde con la tendenza a utilizzare fonti iconografiche disparate. Insomma, l’artista, nonostante l’ironico e affettuoso tributo al De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti – il trattato rinascimentale che si proponeva di attualizzare le norme architettoniche vitruviane – è ben lontana dall’adottare la visione unitaria (e unificante) della tradizione classica. La sua pittura è piuttosto la conferma dell’affermarsi di una nuova visione, aperta, ma anche frammentaria della realtà, che ammette la coesistenza simultanea di una pluralità di punti di vista e che concepisce la rappresentazione come una sommatoria d’immagini e segni contradditori.

Sintesi di una collina 1, tecnica mista su carta, 35x50 cm

Sintesi di una collina 1, tecnica mista su carta, 35×50 cm

A questo principio d’indeterminazione pittorica, a questa intrinseca ambiguità stilistica, fa capo l’insistito contrasto tra le linee razionali dell’architettura e le trame testurali, entrambe portatrici di un’idea tradizionale di ordine ed equilibrio, e la presenza di segni essenziali, campiture informi e tracce incompiute che, invece, testimoniano la natura caotica e destabilizzante delle esperienze percettive contemporanee. “Ogni mia opera”, racconta lei, “è la messa in scena di una prospettiva effimera che ci porta a interpretare il nostro tempo indagandolo e cercando di comprenderne i meccanismi, le novità, e le contraddizioni”.

Artista cosmopolita, già vincitrice di premi nazionali e di residenze all’estero (in Islanda, Turchia e Francia), Annalisa Fulvi sembra aver intuito il fondamentale paradosso della cultura occidentale, basato sul contrasto tra l’impulso espansivo dell’homo faber e la necessità di ripensare un nuovo rapporto etico con le forze della natura e, così, ha trasferito questa polarità in un linguaggio dal sicuro impatto visivo, capace di catturare l’attenzione dell’osservatore e, allo stesso tempo, di condurlo a riflettere sui problemi e le urgenze di un modello di sviluppo che appare ormai insostenibile. A una giovane artista, già in possesso di un linguaggio maturo, in linea con i recenti sviluppi della pittura internazionale, non si può chiedere di più.

Aria di Expo, acrilico su tela, 100x130 cm., 2015

Aria di Expo, acrilico su tela, 100×130 cm., 2015


Info:

Annalisa Fulvi. De Re Aedificatoria

a cura di Ivan Quaroni

Riva Artecontemporanea, Via Umberto 32, Lecce

Tel. +39 3337854068

e.mail: danilo@rivaartecontemporanea.it

Opening: sabato 16 maggio 2015

Durata: 17 maggio – 18 luglio 2015


Puzzle City, acrilico su tela, 32x35 cm.

Puzzle City, acrilico su tela, 32×35 cm.

Le stanze misteriose di Vanni Cuoghi

7 Mag

 di Ivan Quaroni

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

ITALIAN TEXT (ENGLISH TEXT BELOW)

I Monolocali di Vanni Cuoghi rappresentano l’esito finale di un lungo percorso di affinamento tecnico e linguistico durato oltre dieci anni e, insieme, il sintomo di un ritorno alle origini o meglio di un recupero di abilità, intuizioni e capacità di visione che appartengono al suo più antico background culturale. Sono il frutto di una grammatica costruita attorno alla fusione di diverse pratiche, dalla pittura al collage, dal disegno alla scenografia, fino al paper cutting, cioè all’arte di intagliare figure in fogli di carta per farne delle opere d’arte. Di fatto, i Monolocali sono dipinti, in tutto e per tutto simili a quelli su tela, sebbene abbiano la forma di oggetti tridimensionali in cui lo spazio illusorio e quello reale e fisico scivolano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Si possono definire diorami, perché la logica compositiva è quella dei plastici tridimensionali e delle maquette che appassionano i modellisti.

Diorama è un termine francese che deriva dal greco διά (attraverso) e ὅραμα (veduta). Indica, cioè, un oggetto attraverso il quale si possono vedere delle cose. Non stupisce che la sua diffusione e il suo successo nel diciannovesimo secolo siano attribuiti, tra gli altri, a Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, pittore e decoratore teatrale che nel 1837 inventò un metodo per fissare le immagini riprese con la camera oscura su un supporto sensibile in rame o argento (i famosi daghrrotipi). Solo un uomo di teatro, avvezzo alla costruzione di complessi allestimenti scenici, poteva inventare qualcosa di simile ai moderni modelli architettonici.

Nei Monolocali di Vanni Cuoghi c’è la memoria dei suoi trascorsi da scenografo, unita, però, a una matura comprensione dei meccanismi inventivi della pittura. A prevalere in queste opere, infatti, non è tanto la dimensione progettuale del diorama, che semmai sussiste nella scelta di una cornice convenzionale, di uno spazio scenico standardizzato equivalente alle dimensioni di un foglio A4 entro cui si svolge l’azione ma, piuttosto, la logica imprendibile della giustapposizione giocosa, dell’intuizione fulminea, dell’errore fecondo.

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

Gli elementi che compongono queste scatole prospettiche, questi teatrini misteriosi ed enigmatici, sono, infatti, come le tessere di un puzzle ancora da definire. Personaggi, oggetti, complementi d’arredo, carte da parati, piastrelle, decori sono spesso realizzati in anticipo. Costituiscono, cioè, i frammenti di un collage di là da venire, di un’immagine ancora da costruire. Alcuni saranno usati, altri saranno scartati, altri ancora finiranno in un’opera successiva. Non c’è una regola, un copione prestabilito nell’assemblaggio di queste tessere, ma solo un’idea, un’intuizione, insomma un indirizzo che può mutare nel corso dell’opera. Come nell’atto del dipingere, ciò che conta è il percorso, quel labirintico susseguirsi di prove, errori e ripensamenti che portano, inevitabilmente, a soluzioni impreviste e risultati inaspettati.

Ovviamente in quest’attitudine, che prende la forma di un vero e proprio modus operandi, giocano un ruolo fondamentale la gioia e lo stupore della scoperta, caratteristiche tipiche della ricerca di Cuoghi. Se queste stanze sono piene di eventi sorprendenti, di storie al limite del credibile, sempre in bilico tra una fantasia scatenata e una verosimiglianza ossessiva, è perché l’artista stesso si apre alla conoscenza di un mistero più sottile proprio attraverso l’adozione di una procedura non codificata. Vanni Cuoghi non progetta mai la forma finale di un’opera, nel senso che non prevede i dettagli, ma guida il processo verso l’espressione di una sensazione o di un’atmosfera impalpabile.

Molti dei suoi Monolocali contengono riferimenti biografici, tracce di vissuto che la memoria sembra riattivare alla presenza di un profumo, di una luce, di un colore, di un suono. In un certo senso, le capricciose narrazioni dell’artista formano una sorta di diario intimo e sinestetico delle sue peregrinazioni. Genovese di nascita e milanese d’adozione, Cuoghi ha vissuto gli anni da studente nel capoluogo meneghino, abitando una pletora di appartamenti molto piccoli. Il monolocale o, se preferite, la stanza, è diventata per lui, come per molti studenti, la metafora di una condizione esistenziale e, insieme, il simbolo di un certo tipo di formazione. Gli ambienti ristretti, i compromessi della convivenza e della condivisione, le inevitabili economie di una vita libera, ma pur sempre confinata in un perimetro definito, hanno contribuito ad acuire la sua percezione dell’unità abitativa come spazio funzionale e, allo stesso tempo, autonomo.

Bilocale 2 (Chernobyl's animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50x70

Bilocale 2 (Chernobyl’s animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50×70

La stanza, esattamente come il palcoscenico, è una scatola prospettica in cui convergono illusione e realtà, è un teatro di accadimenti che vanta una lunga tradizione tanto nella letteratura, quanto nella pittura e nel cinema, dai Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe alla Stanza di Arles di Van Gogh, fino alla Redrum di Shining e alla stanza rossa di Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adotta questa convenzione iconografica, trasformandola in un formato, in una misura che delimita e circoscrive le classiche unità di luogo, tempo e azione. I suoi Monolocali sono tutti, tranne qualche rara eccezione, rettangoli orizzontali di 21×30 centimetri che l’occhio dell’osservatore riconosce, inconsciamente, come una grandezza familiare, dato che è quella delle risme di carta che acquistiamo per le nostre stampanti domestiche.

La natura delle invenzioni dell’artista, in questo caso, è piuttosto affine al genere letterario degli enigmi della camera chiusa[1], e soprattutto a certe misteriose visioni di René Magritte (L’assassin menacé, 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964) dominate da un’atmosfera di sinistra attesa e d’ipnotica inquietudine.

Mentre da un lato i Monolocali rappresentano una sfida formale sul piano compositivo e, insieme, un tentativo di tradurre nel linguaggio visivo memorie e sensazioni personali, dall’altro essi approdano a una dimensione surreale che ha più a che fare con l’esplorazione dei meandri del subcosciente. È vero, infatti, che l’artista trae spesso spunto dalla storia dell’arte o dall’immaginario della cultura popolare, ma è altrettanto chiaro che il risultato finale corrisponde alla formulazione di una personalissima sigla pittorica, di uno stile coerente e originale dove il significato eventuale delle immagini retrocede, per lasciare campo a una moltitudine di letture e interpretazioni.

Certo, è possibile rintracciare, qua e là, una serie di rimandi, discretamente disseminati tra le pareti delle sue camere chiuse come, ad esempio, negli unici due Monolocali dipinti su tela, che simulano le profondità e le ombre dei suoi diorami con una tecnica da perfetto illusionista. Mentre nel primo, intitolato Monolocale n. 17 (tinto), compare un evidente riferimento alla tradizione degli azulejos, le celebri piastrelle in ceramica smaltata che ornavano i palazzi nobiliari di Spagna e Portogallo, nel secondo, intitolato Monolocale n. 19 (le ciliegie), gli indizi del personaggio che spia la coppia attraverso una porta socchiusa e il quadro con una natura morta di ciliegie appeso alla parete, alludono a due celebri dipinti di Giulio Romano e di Giovanna Garzoni.

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21×30

Nel diorama Monolocale n. 14 (tonnata), invece, la donna alla fune è ispirata a una sequenza del video Orient di Markus Shinwald, l’artista che ha rappresentato l’Austria alla 54° Biennale di Venezia, mentre l’interno di Monolocale n. 18 (la lettera) è rubato a una scena del film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) di Roy Andersson, così come la protagonista in primo piano cita, evidentemente, La lettera d’amore di Jan Vermeer (1669-1670).

Aldilà dei riferimenti abilmente occultati nella trama di queste scatole del mistero, ciò che conta è, piuttosto, l’impiego di sorprendenti soluzioni grafiche e compositive. La più ricorrente è l’incursione di un elemento sinistro, di un’entità informe che frantuma muri e pavimenti delle stanze, minacciando la quiete di questi interni borghesi. È come una sorta di apocalittico deus ex machina, un intervento esterno e imprevedibile che assume, di volta in volta, sembianze diverse. È un famelico organismo tentacolare nei Monolocali n. 2 e n. 3 e in Bilocale n. 1 (MM1 Pasteur); una nera sostanza fluida in Monolocale n. 10; una colossale trave di legno precipitata dal soffitto in Monolocale n. 18; un fiotto sanguigno che squarcia il parquet di Monolocale n. 13 (barbecue). In questi, come in altri casi, l’evento non ha un carattere necessariamente negativo. Semplicemente, si tratta di una trasposizione visiva del modo in cui a volte i ricordi e le sensazioni irrompono violentemente nella nostra coscienza. Come in Monolocale n. 11 (odor di basilico), dove l’evento scatenante è la memoria olfattiva del basilico di Prà appena colto, o in Monolocale n. 12 (l’astice), in cui è il sapore, questa volta immaginato attraverso il racconto di alcuni amici, di un noto crostaceo del Maine. A ben vedere, Cuoghi adombra il racconto a puntate della propria biografia di gourmet e di voyeur sotto le mentite spoglie di una crime story o di un weird tale, costruisce un mistero fittizio per celebrare i fasti dell’esperienza e dell’immaginazione. Così, finisce per somigliare a quei grandi artisti visionari che seppero raccontare la vita nelle forme traslate della metafora e dell’analogia. Forse perché, come diceva Jorge Luis Borges, “il reale è quello che vede la maggioranza”.

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21x30

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21×30


English Text

Vanni Cuoghi’s Studio Flats represent the ultimate result of a long technical and linguistic refining path, that took over ten years, together with a symptom of a throwback to the roots , or better, a retrieval of skills and intuitions and visions belonging to his most ancient cultural background. They are the outcome of a grammar built around the fusion of different practices , from painting to collage, from drawing to scenography, to paper cutting, the art of cutting shapes and figures into paper sheets to make a piece of art out of them. The Studio Flats are in fact paintings, very similar to the ones on canvas, even if they are shaped as tri-dimensional objects where illusory and real space seamlessly melt one into another. They can be defined s dioramas, because the composing logic is the one of tri-dimensional scale models and maquettes loved by the collectors.

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello  acrilico su carta, cm 50 x70

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello acrilico su carta, cm 50 x70

Diorama is a French word originated by Greek διά (through) and ὅραμα (view). It stands for a see-through +object. It is not surprising that its diffusion and success are ascribed, among others, to Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, theatre painter and decorator who, in1837 invented a method to fix images captured by the darkroom on a sensitive copper or silver stand (famous daguerreotypes). Only a man of theatre, accustomed to building complex scenes on stage, could invent something so similar to modern architectural models.

Inside Cuoghi’s Studio Flats, lies the memory of his past as a set designer, yet joined by a mature comprehension of the inventive mechanisms of painting. What is most prevalent in these artworks, in effect, is the uncatchable logic of playful juxtaposition, of striking intuition and fruitful mistake.

The elements that form these prospect boxes , these mysterious and enigmatic tiny theatres, are indeed just as the cards of a still to be defined jigsaw. Characters, objects, pieces of furniture, wallpapers, tiles and decorations are often made in advance. They are the fragments of a collage yet to come. Some of them will be used, others will be set aside and some more will end up in a following artwork. There is no rule or script in the making of these works, there is just an idea, some kind of destination that can change while progressing. As in the act of painting, what is most important is the path, that labyrinthine sequence of attempts, mistakes and second thoughts, necessarily leading to unexpected sudden results.

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35x50

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35×50

Joy, astonishment and discovery, clearly play a main role in this attitude, becoming a true modus operandi of Cuoghi’s research. These rooms are so full of surprising events, of almost unbelievable stories, always balancing between crazy fantasy and obsessive plausibility, because the artist himself opens up to the knowledge of a more subtle mystery right through an uncodified procedure. Vanni Cuoghi never plans the final shape of an artwork, he does not foresee the details, but he drives the process to expressing a sense or a weightless atmosphere.

Many of his Studio Flats include autobiographical references, traces of a life that memory seems to re-activate thanks to a scent, a light, a colour, a sound. In a certain way, the artist’s whimsical narrations form a sort of intimate and synaesthetic journal of his own peregrinations. Born in Genoa and adopted by Milan, Cuoghi lived his student years in the Lombard main city, living in a multitude of tiny flats. The studio flat, or if you prefer , the room, became to him as to many other students, the metaphor of an existential condition together and the symbol of a certain type of education. The narrow locations, the compromises of cohabiting and sharing, the unavoidable frugality of a free yet confined life, all contributed to sharpen his perception of the living unit as a functional yet independent space. The room, just as the stage, is a prospect box where reality and illusion converge; it is a theatre of events that boasts a long literary tradition, as well as cinema and painting, from The murders in the Rue Morgue by Edgar Allan Poe, to The room in Arles by Van Gogh, until the Redrum in Shining, and the red room in Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adopts this iconographic agreement and he transforms it into a measurement that limits and contains the ordinary units of time, place and action. All of his Studio Flats, few exceptions made, are rectangles of 21×30 cm, which the eye can unconsciously recognize as a familiar size, because it is just like the one of the paper we get for our home printers.

In this case, the nature of the artist’s invention, is quite similar to the literary genre of the locked room mysteries¹, and especially close to some baffling visions by René Magritte (L’assassin menacé 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964), all dominated by an atmosphere of sinister wait and hypnotic anxiety.

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

While on a side, the Studio Flats represent a formal challenge on the compositional level together with an attempt to translate personal memories and sensations into visual language, they end up to a surreal dimension that has more to do with exploring the twists and turns of the subconscious. Sure enough the artist often draws inspiration from the history of art and from the imagery of popular culture, though it is clear that the final results is the formulation of an extra personal painting signature, of a congruent original style where the possible meaning of images moves back, to allow multiple readings and interpretations.

It is surely possible to retrace here and there, a series of refrains, discretely scattered on the walls of his locked rooms as, for example, in the only two Studio Flats painted on canvas, which simulate the depth and shades of his dioramas using a technique of a true mesmerizer. While in the first, called Studio Flat n.17 (tinted), lies an obvious reference to the azulejos tradition, the famous glazed ceramic tiles which decorated aristocratic palaces in Spain and Portugal, in the second, called Studio Flat n.19 (cherries), the hints of the character spying the couple behind an half shut door and the painting of a still life with cherries hanging on the wall, suggest two well-known paintings by Giulio Romano and Giovanna Garzoni.

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

In the diorama Studio Flat n.14 (tuna sauce), the woman at the rope is inspired by a sequence of the video Orient, by Markus Shinwald, the artist which represented Austria at 54th Venice Biennale, while the interiors of Studio Flat n. 18 (the letter), are stolen by a scene from the movie En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (2014) by Roy Andersson, just as the protagonist in the foreground obviously quotes, The love letter by Jan Vermeer (1669-1670). What really counts, beyond all the references, smartly hided in the weave of these mystery boxes, is the use of surprising graphic and arranging solutions. The most frequent one is the foray of a sinister element, a shapeless entity which the rooms’ walls and floors, threatening the quiet of these middle-class interiors. Some kind of apocalyptic deus ex machina, a foreign and sudden intervention that achieves different shapes, from time to time.

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21x30

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21×30

A ravenous pronged organism in Studio Flats n.2 and n.3 and in Two-room flat (MM1 Pasteur); a black fluid material in Studio Flat n.10; a huge wooden beam falling from the ceiling in Studio Flat n.18; a gush of blood that lacerates the wood flooring in Studio Flat n. 13 (barbecue).In these as in other cases, the event is not necessarily negative. It simply is a visual transposition of the way memories and sensations sometimes violently burst into our conscience. As for Studio Flat n. 11 (scent of basil), where the trigger event is the olfactory memory of freshly picked Prà basil, or for Studio Flat n.12 (the lobster), where it is the taste, imagined through the tale of some friends, of a famous crustaceous from Maine. At second glance , Cuoghi hides the tale by episodes of his biography as a gourmet and a voyeur, under the false pretences of a crime story or of a weird tale, he builds a fake mystery to celebrate the glories of the experience and imagination. So, he ends up looking like those great visionary artists who were able to tell life in the shifted shapes of metaphor and analogy. Perhaps that is because, as used to say Jorge Luis Borges, “the truth is what most people see”.


[1] Mario Gerosa, Viaggio intorno alla mia camera chiusa a chiave, in Le camere del delitto, Selis Editions, 1991, Milano.

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30


Info:

VANNI CUOGHI, Monolocali: tutte le mattine del mondo.
a cura di Ivan Quaroni
GALLERIA AREA B, Via Marco D’Oggiono n 10 Milano
OPENING: 14 maggio h 18.30
dal 14 maggio al 23 luglio 2015/ 14 May – 23 July 2015
Lunedì/monday h. 15.00 -18.00, martedì-sabato/Tuesday-Saturday h. 10.00-13.00 15.00-18.00
t 02 89059535     m info@areab.org http://www.areab.org

Il mondo urbano e stralunato di Jeremyville

15 Ott

 

Architetto di formazione e collezionista per passione, Jeremyville è un illustratore, designer, fumettista e pittore tra i più prolifici al mondo. La sua creatività nasce da una vera passione per il disegno, applicato ai più svariati ambiti, dalla produzione di giocattoli, adesivi e T-shirt alla realizzazione e customizzazione di tavole da skate e sneaker, dalla  creazione di animazioni per la TV fino alla divulgazione di illustrazioni e fumetti. Senza dimenticare la pubblicazione di libri come Vinyl will kill you, il primo a documentare la scena dei Designer Toy, e Jeremyville Sessions, sulle sue collaborazioni con grandi gruppi come Adidas, Lego, Converse, Sony, Diesel, MTV, ma anche con artisti come Gary Baseman, Miss Van, Friends with you, Geoff McFetridge, Tim Biskup e centinaia di altri. Jeremyville è il fautore di un’arte totale, non relegata solo al ristretto circuito delle gallerie, ma capace di invadere la vita quotidiana in ogni sua forma. Jeremyville , allo stesso tempo, un artista, un brand e un progetto inteso ad ampliare il raggio d’azione della creatività attraverso un processo di scambi e interazioni con diverse realtà artistiche e produttive.

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INTERVISTA

Jeremy, la prima cosa che m’interessa sapere è perché hai trasformato il tuo nome in un luogo? Che cos’è Jeremyville?

L’idea di Jeremyville è di creare un luogo online per coloro che riescono a capire il concetto totale. È un luogo non limitato ad una nazione, un luogo che chiunque può visitare per sperimentare una parte di Jeremyville. Siamo uno studio che si fonda sul progetto, scegliamo di esplorare qualsiasi media catturi il nostro interesse. Ogni progetto cui il nostro studio sceglie di partecipare deve entusiasmarci e rappresentare una sfida. E vogliamo che il nostro entusiasmo si trasmetta anche al nostro pubblico, per forzare sempre più i limiti di ciò che il pubblico si aspetta da noi. Alcuni approdano a Jeremyville per collaborare, artisti , o aziende che rispettiamo. Penso che Jeremyville sia un nuovo concetto iconoclastico di studio d’arte e design per il nuovo secolo. Diciamo no a molte offerte commerciali , accettiamo solo quelle che ci entusiasmano realmente, come la creazione di Toys per Kidrobot, il design di una calzatura per Converse, uno snowboard per Rossignol, un invito dalla galleria Area B, una linea di t-shirts per 2K a Los Angeles, una mostra collettiva da Colette a Parigi. O l’invito ad unirmi alla mostra collettiva Vader all’Andy Warhol Museum di Pittsburg.

I confini nazionali sono stati abbattuti da internet, il nuovo linguaggio mondiale è fatto di icone, immagini, simboli e segni grafici. Ma anche emozione ed intimità sono universali. È per questo che ho sviluppato le mie silenziose storie a fumetti, pensando che chiunque sulla terra possa capirne la trama, non solo coloro che conoscono l’inglese. I simboli dei fumetti raccontano una storia universale, con una conclusione tanto aperta da permettere ad altri di aggiungervi la propria interpretazione. Per me sono allo stesso tempo molto personali, ed ugualmente molto universali. Questo è il fine ultimo di ogni progetto di Jeremyville : connettersi con gli altri ad un livello molto personale, ma anche raggiungere il maggior numero di persone, universalmente. Unione, anima, ed un messaggio in ciò che facciamo,è tutto.

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Una parte molto importante della tua attività di artista e designer è dedicata alla collaborazione con grandi brand, ma anche con singoli artisti. Il tuo libro Jeremyville Sessions, pubblicato da IdN, ne è una importante testimonianza. Che differenza c’è tra la collaborazione con un’azienda e quella con un artista? Quale preferisci?

Lavoriamo solo con artisti ed aziende che ammiriamo e rispettiamo. A dire il vero molto spesso rifiutiamo gentilmente proposte da realtà che pensiamo siano troppo distanti dall’estetica di Jeremyville, ma ancora più spesso, le realtà che ci interessano davvero, arrivano a noi per ciò che offriamo, sta diventando quindi sempre più semplice capire quali sono le aziende con le quali vogliamo lavorare , che realmente capiscono ciò che facciamo. E quando l’intesa è quella giusta , è fantastico, ed è un processo molto semplice. Se invece manca, il processo può diventare molto difficile. Personalmente amo lavorare sia con gli artisti che con le aziende, ognuno ha i propri parametri. Abbiamo sviluppato il progetto “sketchel custom bag “    per creare una piattaforma che coinvolgesse molti artisti. Il nostro studio collabora anche con numerose realtà a diversi livelli, animazione, illustrazione, conferenze, progetti editoriali, design d’abbigliamento o di toys.

Il mio approccio generale, grazie ai miei studi di architettura , è quello di considerare la soluzione totale, infatti , quando progetto qualcosa, non considero solo l’idea, ma anche il modo in cui l’idea si potrà manifestare nella costruzione finale, e quali cambiamenti si debbano fare durante la strada. Durante il design dei toys, il concetto iniziale può cambiare molte volte per ragioni di produzione o limiti di budget. Oggi devi essere un designer flessibile per lavorare con aziende diverse in campi diversi, dall’abbigliamento ai toys ai libri. Ecco perché mi piace collaborare con grandi marchi come Converse dove la vera sfida è mantenere l’idea iniziale più a lungo possibile, continuando a lavorare entro vincoli produttivi. Trovo questo esercizio tanto affascinante quanto parte dell’arte, come l’arte stessa.

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Con la pubblicazione del libro Vinyl will kill you (a proposito a quando una nuova edizione? In Italia è introvabile) tu sei stato il primo a fare il punto sulla scena dei Designer Toys, contribuendo a far crescere l’interesse per questo fenomeno. Pensi che si possa parlare oggi di un vero e proprio movimento artistico legato alla produzione di Vinyl Toys?

Ho scritto e prodotto Vinyl Will Kill you nel 2004, con la Direzione Artistica di Megan Mair, ed è stato il primo libro al mondo sul movimento del toy design. Credo si sia cristallizzato in un movimento, è certamente un nuovo genere d’arte,  come il design di sneakers da parte degli artisti, e la sua valuta è simile a quella di un’edizione di stampe multiple in tiratura di 300 pezzi. Anche i prezzi di toys e stampe sono generalmente simili. Un’acquaforte firmata di Picasso è un’opera d’arte tanto quanto uno dei suoi dipinti , anche se molto più accessibile, ma sempre adatta ad un’asta. Questo principio generale si applica anche ai toys. Un toy firmato da uno dei tuoi artisti preferiti ha tanto valore quanto una sua stampa firmata, e merita di essere visto come una forma d’arte legittima, ed una parte dell’oeuvre dell’artista.

In tutto il mondo si stanno affermando forme d’arte dirette ad un pubblico più vasto di quello tradizionalmente interessato all’arte. Penso al Pop Surrealism americano, al Superflat giapponese, al Graffitismo e alla Street Art e, certo, anche al fenomeno dei Designer Toys. Non credi che sia in atto un salutare processo di democratizzazione dell’arte e che, contemporaneamente, nei circuiti tradizionali si stia radicalizzando l’idea di un’arte elitaria, diretta ad un pubblico ristretto e ad un collezionismo privilegiato?

Assolutamente si, e la tua citazione del Superflat è molto importante. L’anno scorso ero  alla mostra di Murakami  al MOCA di Los Angeles, ed è stato molto interessante vedere una quantità di suoi lavori “autorizzati” nelle loro nicchie illuminate , elevati quasi a degli assemblaggi di Damien Hirst , ai suoi “medicine cabinets”. I prodotti, le t-shirts di Murakami, le sue spillette, gli adesivi, i toys, erano elevati al livello di manufatti d’arte , balocchi rispetto alla sua produzione globale, ma comunque parte della totalità del suo lavoro, come il disegno per tessuti creato per LVMH. Tutti questi oggetti non erano venduti nello shop della galleria, ma facevano parte della mostra stessa, e  il tessuto di LVMH era incorniciato e venduto come opera d’arte.

É proprio questa democratizzazione dell’arte, quest’accessibilità al lavoro dell’artista per il grande pubblico, che ha sorpassato la tradizionale impostazione di galleria ed ha aperto la definizione di arte a nuove e maggiori possibilità. Duchamp lo ha fatto con i suoi readymades. Dalì lo ha fatto rendendo se stesso un’opera d’arte tanto quanto i suoi dipinti o le sue sculture. Warhol lo ha fatto con i suoi multipli , rimuovendo la mano dell’artista dall’opera d’arte. Murakami costruisce su questa tradizione. Fanno lo stesso KAWS, Sheperd Fairey, Bansky, Koons, Hirst. Questi artisti mi entusiasmano perché ognuno di loro è abbastanza coraggioso da sfidare la definizione di ciò che costituisce l’arte e di come viene rappresentata. Il recente superamento del contesto di galleria da parte di Hirst ed il suo approccio “direttamente all’asta” sono un interessante precedente.

Il mio obiettivo è di accorciare la distanza fra “prodotto” e “arte”, e di infondere in ogni oggetto che creo , sia esso un toy o un dipinto, lo stesso livello di pensiero ed attenzione al dettaglio ed al messaggio. Una t-shirt o un toy sono per me un “multiplo” come lo sono una stampa o un’acquaforte, ed altrettanto parte della produzione dell’artista quanto lo è un grande dipinto. È un momento entusiasmante della ridefinizione di cosa costituisce arte.

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Jeremyville è a tutti gli effetti un’azienda. Mi spieghi com’è strutturata?

Siamo uno studio di design operativo, abbiamo una divisione per i prodotti con agenti a Los Angeles , New York ed in Europa.  Portiamo inoltre avanti i nostri progetti , i dipinti, le animazioni, i toys, il progetto “sketchel custom bag”, le storie a fumetti, l’abbigliamento per il nostro store online, così come progetti commissionati direttamente dalle aziende . Partecipiamo solo ai progetti che catturano il nostro interesse e che possiamo portare a termine con grande creatività e professionalmente. Il nucleo principale dello studio è composto da Neil, Megan e me, lavoriamo con molti designers e fornitori, su  progetti specifici presso il nostro studio , sia presso le loro sedi. Siamo uno studio molto flessibile, io e Megan lavoriamo normalmente dal nostro studio a New York, e con i nostri portatili siamo pienamente operativi tre ore dopo l’atterraggio aereo. Disegno molto quando volo, non si perde tempo durante il viaggio.

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Parliamo nello specifico del tuo lavoro. Com’è nato il tuo linguaggio artistico? Intendo dire lo stile inconfondibile di Jeremyville?

Disegno ogni giorno ed ogni notte. Cerco di inventare una nuova iconografia, nuovi personaggi ed espressioni e storie. Facendo questo il tuo stile naturale evolve e diventa una parte di te, un vero specchio delle tue idee. È l’unico modo che conosco, non esiste una soluzione facile nello sviluppo di un nuovo stile. Ci vuole tempo e per me va bene così. Trovo affascinante il viaggio per approdare ad uno stile, perché a volte disegni un volto in un certo modo, o dei capelli, e sai subito che è solo la prima di molte volte in cui lo disegnerai così, perchè è nuovo, e giusto.

Quella sensazione di novità e di giustezza è ciò che cerco quando disegno, è quella connessione con qualcosa dentro di te, con quella sorta di verità che sta al di sopra di quello che sei. Sento che anche gli altri vi si possono identificare creando quella connessione. Il legame con il pubblico è tutto per me, senza opinione e senza connessioni, il processo dell’arte è alquanto vuoto.  Per questo mi piace parlare con le persone che amano il mio lavoro, su Facebook (4.500 amici) , o su Myspace (15.000 amici) , è quell’ “intimità universale” che sta al centro di ciò che cerco di fare con il mio lavoro, ed internet è il modo migliore per divulgare la mia arte. Penso che la mia arte sia parte del nostro tempo, penso parli un linguaggio capace di connettere fra loro molte persone. Non è un caso, questo è sempre stato uno degli obiettivi da raggiungere con la mia arte. Ero un bambino molto solitario, non avevo amici e non giocavo con nessuno, ora mi sto rifacendo su Facebook! Gli amici di internet sono i migliori! Certo ho un gruppo di amici adulti, da piccolo non ne avevo, ma non mi sono mai sentito solo. Disegnavo, giocavo con i Lego, facevo modellini di aeroplani, giocavo con i Puffi, guardavo un sacco di TV e cartoni! Ero sempre occupato e non mi annoiavo mai. Ricordo che ad ogni inizio di vacanza scolastica preparavo una lista di cose da fare, come costruire 4 modellini , creare un personaggio animato o costruire un trenino magnetico. Mi sono ricordato solo ora queste cose, mentre scrivo , lo avevo completamente dimenticato. Ancora oggi ogni settimana stilo una lista con quello che farò, dopo uno sguardo più attento direi che quell’abitudine che avevo ad 8 anni  mi stava preparando alle attività “project based” che faccio ora.

In un intervista hai detto: “Un coniglio carino in un trip acido paranoico probabilmente riassume bene il mio stile artistico” (NdR: “A cute rabbit on a paranoid acid trip probably sums up my art style”). Quanto è importante nel tuo lavoro  l’influsso della cultura psichedelica?

Adoro gli anni sessanta. Adoro l’idea di un hippy. Penso di avere dentro di me un hippy che vuole uscire. Ogni tanto provo a farmi crescere la barba ma i miei amici mi fanno notare che è tempo di radermi! Mi relaziono molto con l’era di Robert Crumb, dell’arte psichedelica di Martin Sharp,  dei posters rock e degli  inchiostri  fluo su sfondo nero. L’idea che l’arte potrebbe cambiare il mondo , o almeno liberarti la mente per un attimo. Quando disegno, svuoto la mente e lascio che la penna prenda la sua strada sulla pagina, non uso prima la matita, disegno direttamente sulla pagina ed uso i colori direttamente sulla tela. Spero che questo senso di liberazione che io sento con la mia arte si trasmetta allo spettatore, e che anche lui possa sperimentarlo. Voglio tornare indietro ad un livello molto personale, disegnato a mano, individuale, ma anche radicato nel contesto storico, per avere un senso di familiarità con chi guarda, come se un cartone della Disney fosse esploso sulla sua faccia.

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Nel tuo stile c’è una contraddizione tra l’aspetto carino e positivo dei tuoi personaggi e una narrazione dai contenuti talvolta “crudi”. Credi che si tratti di una compensazione tra le forze positive e negative della tua personalità a far si che il tuo lavoro non possa essere descritto come semplicemente “fiabesco”?

La vita è fatta di contraddizioni ed opposti, ed ognuno di essi è bellissimo per me, non solo quello carino e grazioso. La morte può essere bellissima, così come il dolore e la perdita. Tutto è parte della condizione umana. Cerco di lottare con ogni aspetto dell’umanità nel mio lavoro. Così un bel coniglietto può piangere,  una ragazza può abbracciare dolcemente un mostro, è questa la dualità che cerco di catturare, perché la vita non è semplice ne’  logica, la tristezza si mischia all’amore in un istante, e  puoi sentire la malinconia in una giornata stupenda. Amo questa complessa stratificazione della vita.

Ho notato che nei tuoi fumetti c’è spesso una narrazione circolare… insomma, come se l’universo trovasse ogni volta un modo per ristabilire l’equilibrio.

Ottima osservazione, voglio anche che la storia sia quasi senza fine, come un sogno ricorrente, o una canzone che ascolti continuamente fino a quando non vi trovi qualcosa di nuovo : una nuance, una cambio di nota, un nuovo significato nelle parole. Voglio che i miei fumetti siano essenziali , stilisticamente, molto vuoti, ma anche molto ricchi e complessi in un senso narrativo. Abbastanza essenziali da permettere a chi guarda di reclamare il proprio senso narrativo, di riempire i vuoti, di farlo proprio.

La natura ciclica dei fumetti allude anche al fatto che nonostante le cose vadano bene o male, esiste sempre quell’equilibrio universale che trova la giusta misura e fa evolvere le cose. Inoltre, non importa quanto lungo ed accidentato sia il tuo viaggio nel fumetto, troverai sempre la strada di casa o la strada per una qualche conclusione universale, e per la verità. La tua osservazione è perfetta, mi piace che tu abbia colto questo dai miei fumetti, grazie, significa molto per me.

La natura e la città sono gli scenari in cui ambienti le tue brevi e fulminee narrazioni, che spesso toccano tematiche ecologiche. Credi che sia possibile fare politica attraverso l’arte in un modo che non ha nulla a che vedere con gli schieramenti politici?

Si, credo che la mia arte sia molto politica, ma non in un senso scontato. Si tratta più della politica dell’amore, della nostra relazione con la natura e fra noi. Ho sempre voluto che i miei fumetti potessero essere letti fra 200 anni ed essere ancora capaci di far riflettere e toccare le persone. Ecco perché non disegno fumetti d’attualità ed ho scelto di eliminare la lingua inglese, tranne che per i titoli, come “The End” o “The Flower”, che non vanno necessariamente letti per capire la storia raccontata. Voglio che siano piccole vignette della condizione umana, davanti a me ho altre migliaia di fumetti da disegnare, perché la condizione umana è infinita, ma il mio tempo sulla terra non lo è. Cerco di disegnare almeno un fumetto alla settimana, ne ho già molti pronti ma ancora da scansionare e colorare, altri sono solo schizzi , altri ancora solo parole.

Quando disegno un fumetto, penso ad uno stato d’animo, ad un’emozione, e cerco di esprimerla attraverso la narrativa ed uno stile riduttivo lasciandone aperta la fine, così che il lettore possa aggiungere i suoi ingredienti, le sue esperienze di vita, per dare ulteriore risalto alla storia. I personaggi sono spesso solo forme semplici, con solo un sopracciglio incurvato a suggerire preoccupazione, o un occhio chiuso per esprimere malinconia o introspezione. La loro forma non conta, e nemmeno il loro nome, mentre la storia che stanno veicolando è tutto.

La tua arte appare su ogni genere di oggetto, dalla tela ai toys, dalle borse alle T-shirt, fino agli skateboard e alle chitarre e, inoltre pubblichi libri, realizzi animazioni per la televisione, stampi serigrafie e disegni fumetti. Quali sono gli ambiti nei quali vorresti lavorare in futuro?

Quest’anno ho dipinto molto di più. Ho iniziato a dipingere a 17 anni, era la mia principale forma d’arte mentre studiavo architettura all’Università di  Sydney. Ora sono molto più concentrato sul mio stile pittorico, alcuni pezzi saranno rivelati durante questa mostra ad Area B, altri in molte collettive in programma quest’anno. Penso di aver raggiunto ora uno stile unico, chiamo i miei dipinti “Acid Pop” , sono psichedelici, paesaggi di sogno della condizione umana, pervasi da un lucido liquido ambrato che si indurisce per  tenere dentro il pensiero e preservarlo nel tempo. Come gli insetti antichi intrappolati nell’ambra di alberi  preistorici, sono vignette di un momento dimenticato ma fondamentale.

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Pensando a come è strutturata non solo la tua attività, ma anche quella di Takashi Murakami con la sua Kaikai Kiki, mi chiedo se il futuro dell’artista globale sia quello di diventare un’azienda. Che ne pensi?

Penso tu abbia ragione, ma naturalmente spetta ad ogni artista scegliere il proprio percorso. Il bello dell’arte è che può essere reinventata. Credo sia dovere degli artisti reinventarsi continuamente, mettersi alla prova, pur mantenendo un forte senso di ciò che sono, come artisti. L’idea di un’azienda è per me solo uno strumento con cui realizzare delle cose, non è un mezzo fine a se stesso. Dovrebbe sempre servire un proposito più grande, facilitare la diffusione dell’arte e delle idee. Quando ti trovi preso dai meccanismi amministrativi di un’azienda, dimentichi la ragione per cui l’hai creata originariamente. Tempo fa nel nostro studio lavoravano molte più persone, ma ci siamo ora organizzati all’essenziale per gestire tutto. Mi ero accorto che stavo diventando un datore di lavoro, invece di creare. Ho perso molto tempo così. Ci siamo ora strutturati in modo da massimizzare il mio tempo per creare, e minimizzare il tempo dedicato all’amministrazione. C’è un giusto equilibrio. Penso comunque di aver bisogno di una struttura aziendale che mi supporti per fare il mio lavoro al meglio, per me è liberatorio, offre alla mia arte infinite possibilità di evoluzione.

Quali sono i tuoi progetti?

Cerco di mantenere il segreto sulle mie iniziative finché  non diventano pubbliche, ma ora sto lavorando su diversi grandi progetti, molto diversi da ciò che ho già fatto e molto impegnativi per me,e per il nostro studio. Penso sia uno dei miei lavori migliori e, se riuscirà come spero, sarà un progetto davvero speciale.