Nicola Caredda, Sauvage, 2024, acrilico su tela, 120×100 cm
La pittura in Italia è tornata d’attualità. Lo testimoniano le numerose mostre ad essa dedicate nelle gallerie d’arte e le recenti rassegne istituzionali che, però, puntano più sulla quantità che sulla qualità. Si mappano le nuove generazioni, si cercano legami con le tradizioni immediatamente precedenti, si tenta, un po’ a fatica per la verità, di individuare temi e iconografie ricorrenti, ma la pittura è un’arte difficile. “Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia)”, scriveva Giorgio De Chirico, “non si risolve a chiacchiere e facilonerie”[1]. Il magistero della pittura richiede sacrificio e duro lavoro, perciò un buon criterio di selezione dei pittori odierni non dovrebbe basarsi unicamente su presupposti anagrafici, ma qualitativi.
Silvia Paci, La Maga Armida, 2023, olio su tela, 136×205 cm
Già, ma come si definisce la qualità in pittura? E soprattutto chi può definirla? “Viviamo in un paese in cui ciascuno crede di sapere qualcosa di pittura, e quindi di poter dire la sua”, o almeno così la pensava Federico Zeri, secondo cui “è frequentissimo che, qui da noi, si parli di opere d’arte senza un’adeguata preparazione, senza cioè avere educato l’occhio alla lettura del fatto figurativo”[2]. Se a questo si aggiunge la favorevole congiuntura che ha riportato la pittura alla ribalta delle cronache e che, inevitabilmente, ha prodotto nuove schiere di accoliti – non solo tra gli artisti più giovani, ma perfino tra i galleristi (improvvisamente fulminati sulla via di Damasco) e tra i curatori à la page (che giurano di essere, fin dalla prima ora, strenui difensori di questa pratica secolare) – riuscire a compiere una selezione, a separare, come si dice, il grano dal loglio, diventa un’impresa davvero difficile. Ma se a farlo è una galleria come quella di Antonio Colombo, che dal 1998, anno della sua fondazione, ha ospitato le mostre dei migliori pittori italiani, e un curatore, come il sottoscritto, che non ha mai fatto mistero della sua marcata predilezione per quadri e pittori, potrebbe venirne fuori qualcosa di buono.
Paolo Pibi, Die inneren augen, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Sotto il magniloquente titolo di Pittori d’Italia e l’ironico sottotitolo Giovani, giovanissimi… anzi maturi – tributo all’arguzia di Ennio Flaiano e al celebre paradosso (Certo, certissimo… anzi probabile) con cui lo scrittore e giornalista abruzzese evidenziava il labile confine tra il vero e il falso – abbiamo riunito dodici giovani e meno giovani pittori italiani in un compendio minimo. Una mostra che non vuole essere la versione tridimensionale di un atlante, di un almanacco o di un regesto ambizioso della nuova pittura del Belpaese, ma semmai un laicissimo Libro d’Ore, con dodici artisti che più diversi non si può, a incarnare la devozione verso il più antico dei linguaggi visivi.
El Gato Chimney, Street Madness, 2023, gouache e acquerello su carta cotone, 70×50 cm
Sono artisti che provengono da varie regioni d’Italia, alcuni dei quali hanno vissuto o vivono ancora all’estero, a dimostrazione che se un genoma italico della pittura esiste, non può che essere spurio, contaminato, ibrido. Nessun genius loci e tantomeno nessuna definizione di una presunta “pittura sovranista” (come qualcuno ha tentato di fare) può descrivere le complesse circostanze che hanno contribuito alla loro formazione. Per fortuna, nessun pittore la cui arte sia intimamente italiana ha mai dovuto esibire un certificato di cittadinanza. Si ricorderà che Giorgio De Chirico dipingeva le sue “Piazze d’Italia” dalle sponde della Senna, senza per questo essere meno italiano, lui che in Italia non ci era nemmeno nato.
Melania Toma, Luna-Creature, 2023, pigmenti, carboncino, fibre di lana e olio su tela, 180×150 cm
108 (Guido Bisagni), Nicola Caredda, El Gato Chimney, Jacopo Ginanneschi, Agnese Guido, Dario Maglionico, Fulvia Mendini, Riccardo Nannini, Silvia Negrini, Silvia Paci, Paolo Pibi e Melania Toma sono artisti di generazioni differenti – nati tra il 1966 e il 1996 -, ognuno dei quali rappresenta un approccio, un linguaggio o uno stile singolare nell’ampio spettro espressivo della pittura. Trovare sintonie, concordanze, corrispondenze nelle opere di questi artisti richiede un complicato lavoro di cucitura, insomma un tentativo, per niente facile, di individuare affinità e analogie che aiutino a tessere un ordito leggibile o almeno probabile degli umori della pittura italiana.
Prima di cominciare, si tenga a mente che – come ricordava lo storico dell’arte francese Henri Focillon – Leon Battista Alberti considerava la pittura una realtà magica o, meglio, “un meccanismo ragionato con una parte di mistero”. Pensava, inoltre, che lo sguardo del pittore fosse privilegiato perché “come il filosofo, meglio del filosofo, il pittore costruisce un mondo”[3].
Agnese Guido, Learning, 2021, ceramica smaltata, 34x21x1 cm
Questo è evidente nell’opera di Melania Toma, basata sull’interpolazione tra pittura, scultura e arte tessile. Nei suoi dipinti astratti, le forme si coagulano in maniera ambigua e sfuggente, riflettendo l’idea di possibili ibridazioni tra l’organico e l’inorganico, l’umano e l’inumano. È il suo modo di costruire un mondo che scarta l’eredità delle politiche coloniali e azzera, nell’ottica di una nuova ecologia, ogni gerarchia tra gli enti, abolendo la distinzione tra soggetto e oggetto e tra individuo e collettività. L’artista interpreta i propri quadri, simili a feticci e realizzati con pittura a olio, carboncino, pigmenti naturali e fibre tessili, come dei dispositivi per guarire identità ferite e frammentate.
Melania Toma, Danza-Creature, 2023, pigmenti, carboncino e olio su tela, 80×80 cm
La pittura di 108 è, invece, concepita come una specie di autoritratto in divenire, che con le sue forme morbide e scorrevoli traduce nel linguaggio astratto la natura inquieta e mutevole dell’identità. Le sue figure fluide, plasmate in una palette di toni scuri interrotti da rari inserti geometrici colorati, formano diagrammi di flussi di coscienza, schemi misteriosi in precario equilibrio tra ordine e caos.
108, After the rain 2, 2023, tecnica mista su tela, 80×60 cm
Astratta, nonostante gli esiti figurativi, è la procedura pittorica di Paolo Pibi, che trasla in immagini idee e vagheggiamenti mentali, senza peraltro servirsi di alcun supporto iconografico (fotografie, disegni o altro). Il risultato è inevitabilmente somigliante a un’allucinazione ad occhi aperti, qualcosa di surreale e, allo stesso tempo, estremamente dettagliato, costruito con l’acribia di un miniaturista capace di rendere verosimile e plausibile un’illusione o una fantasticheria.
Paolo Pibi, Le lune e il falò, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Un mondo fantastico, di pura invenzione è anche quello meticolosamente dipinto da El Gato Chimney, che trasfigura in forme simboliche di uccelli e altre creature zoomorfe motivi psicologici, ma anche concetti ricavati dal folclore e dalle tradizioni esoteriche e alchemiche. Il conflitto tra i desideri dell’individuo e le convenzioni sociali, come pure quello tra materia e spirito sono sovente rappresentati con l’immagine di un animale avvolto e quasi avvinto da filamenti e fibre da cui tenta di liberarsi, mentre il tema della parata di Yōkai, mostri e fantasmi della mitologia giapponese mirabilmente dipinti sulle pagine di una Moleskine, è invece un’allegoria dell’irrompere dell’irrazionale nella dimensione quotidiana.
El Gato Chimney, That place inside you, 2024, gouache e acquerello su carta cotone, 153×100 cm
Ispirata alle fiabe e ai racconti popolari, la pittura di Silvia Paci ha un impianto fortemente narrativo, tutto giocato sull’alternanza di registri drammatici e umoristici e sulla mescolanza di iconografie sacre e profane. Per costruire le sue visioni, popolate di personaggi in preda a una febbrile agitazione, l’artista usa un linguaggio espressionistico, connotato da una gamma cromatica ridotta e riconoscibile. Talvolta, l’artista introduce all’interno delle sue tele, l’immagine di oggetti da lei stessa creati, come bambole di pezza e curiosi copricapi, che intensificano la straniante sensazione di assistere a un misterioso rituale o a una sorta di possessione collettiva.
Silvia Paci, Il martirio di S.Eutropio, 2023, olio su tela, 170×150 cm
I dipinti di Agnese Guido hanno sempre un’atmosfera surreale, risultato di un particolare modo di interpretare la realtà ordinaria che indaga soprattutto gli aspetti più curiosi, poetici, buffi o imprevisti. Il carattere sognante delle immagini, la sospensione tra incanto e stupefazione e la tendenza ad animare oggetti o paesaggi inanimati, sono elementi caratteristici di tutta la sua pittura, che dialoga tanto con la tradizione simbolista ed espressionista, quanto con la cultura popolare dei fumetti e dei cartoni animati.
Agnese Guido, Allegoria del relax, 2023, olio su lino, 192x145cm
Riccardo Nannini usa una grammatica pop e surreale, in parte derivata dai fumetti, per dipingere tele in cui i simboli del consumismo odierno compaiono, come un’interferenza, all’interno di narrazioni oniriche e fantastiche. Nei suoi lavori più recenti, l’artista riflette sul rapporto tra singolo e collettività, rappresentando piccoli gruppi di individui distribuiti in un arcipelago di minuti isolotti. L’atmosfera feriale di queste Isole felici non riesce a occultare, però, il senso di solitudine che serpeggia nella calca di personaggi impegnati in attività ludiche o di svago. La presenza sporadica di alieni dalla pelle verde allude, inoltre, al tema diversità, sia essa sociale, culturale o sessuale.
Nannini Riccardo, El Reencuentro, 2023, acrilico su tela, 114×195 cm
Sintetico, piatto, ma elegantissimo è l’alfabeto visivo di Fulvia Mendini, che nei suoi dipinti compie una concisa schematizzazione formale. Il limpido tratto lineare, la ricercata bidimensionalità e i raffinati accostamenti cromatici sono segni distintivi di una maniera pittorica che l’artista declina in una gamma di ritratti ieratici e di succinte nature morte, dove all’impianto geometrico si affianca il gusto per la descrizione di dettagli come gioielli, decori e ornamenti che impreziosiscono le sue composizioni.
Fulvia Mendini, Luce, 2024, acrilico su tela, 60×50 cm
Di stretta osservanza cartesiana è la pittura di Silvia Negrini, dominata dal lucidus ordo della geometria, arma logica e calcolata che l’artista applica a un’economia di gesti minimi con i quali si propone di cogliere l’essenza imperturbabile delle cose. Così, ad esempio, riduce in efficaci diagrammi le morfologie dei paesaggi o tramuta in poligoni le architetture e gli oggetti, riuscendo a produrre immagini semplici e perfettamente leggibili. La sua grammatica formale, fatta di contorni netti e tinte piatte, può essere interpretata come un adattamento dei principi del Modernismo alle mutate esigenze espressive della pittura concettuale contemporanea.
Silvia Negrini, Land, 2020, smalto su tavola, 30X40 cm
Di segno opposto è, invece, l’attitudine di Nicola Caredda, che dipinge meticolose visioni di un futuro distopico, somigliante a una grande e desolata periferia urbana. L’artista attinge alla memoria di posti visti in passato, scorci di luoghi e angoli di città ricombinati in un paesaggio inventato ma plausibile, che mostra i resti di un mondo trascorso attraverso detriti e rifiuti della civiltà consumistica. Sono visioni notturne di spazi disabitati, disseminati di indizi e segni che rimandano alla cultura italiana, e che compendiano atmosfere e stati d’animo vissuti dall’artista in immagini di perturbante bellezza, che suscitano un immediato piacere retinico.
Nicola Caredda, (call me baby!), 2024, acrilico su tela, 50×40 cm
Dalla memoria di luoghi e persone reali ha origine il processo creativo di Dario Maglionico, che ricostruisce i ricordi, inevitabilmente alterandoli con l’ausilio dei programmi di modellazione 3D e della fotogrammetria, usati come strumenti per generare immagini che servono allo studio compositivo dei suoi soggetti. La pittura è, dunque, la fase finale di un iter operativo che si conclude con le Reificazioni, un ciclo di dipinti in continua evoluzione che rappresentano uno studio sulla percezione dello spazio e del tempo. Nelle sue opere, i personaggi compaiono simultaneamente in diversi punti dello spazio, come forme fantasma persistenti, che marcano i luoghi lasciando una sorta di residuo esperienziale.
Dario Maglionico, Reificazione #91, 2024, olio su tela, 140 x 90 cm
L’arte di Jacopo Ginanneschi nasce da un’attenta osservazione della Natura e dal recupero dei valori tecnici e compositivi degli antichi maestri, da cui deriva anche l’idea di un’adesione verso l’essenza, più che l’apparenza, delle cose. Nei suoi olii su tavola, infatti, si possono notare alcune piccole incongruenze, discrepanze generate dall’adozione della prospettiva multipla o dal fatto che le immagini sono sovente costruite combinando visioni di luoghi diversi. Il risultato è una pittura insieme realistica e straniata, veridica e surreale, che coglie l’incanto nelle forme fenomeniche e la magia nel quotidiano.
Jacopo Ginanneschi, Sant’Antonio Abate trova il rifugio di San Paolo Eremita, olio su tavola, 90×90 cm, 2024
[1] Giorgio De Chirico, Impressionismo, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole de Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 51.
[2] Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di Ludovica Ripa di Meana, 1999, Neri Pozza, Milano, p. 7.
[3] Henri Focillon, Piero della Francesca, trad. italiana di Fabrizia Lanza Pietromarchi, Abscondita, Milano, p. 38.
Cominciamo dalla fine, o quasi. Cominciamo dal 2010, l’anno in cui Ronnie Cutrone ha presenziato alla sua ultima mostra in Italia alla galleria Lorenzelli arte di Milano, intitolata Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match. Sono passati dieci anni, ma sembra ieri. Ronnie vestiva un panciotto su una t-shirt e portava al polso dei braccialetti colorati che lo facevano sembrare una via di mezzo tra un vecchio hippie e un rocker duro a morire. Aveva l’aria comprensibilmente stanca per il viaggio da New York a Milano e l’espressione colpevole di chi sapeva di dover ancora finire di dipingere alcuni quadri per mostra che sarebbe stata inaugurata di lì a qualche giorno.
Nella galleria milanese c’era aria di tensione. Matteo Lorenzelli era in trepidante attesa che Ronnie finisse quello che aveva iniziato e a me, con tempismo perfetto, era venuta l’idea di realizzare un’intervista per una famosa rivista d’arte che fornisse un identikit dell’artista ironico e graffiante che aveva reinventato la Pop Art. Mentre tutti si adoperavano per finire i lavori di preparazione della mostra, io accompagnai Ronnie Cutrone a realizzare il servizio fotografico per l’intervista d’imminente pubblicazione.
Nello studio di un fotografo milanese, durante lo shooting, vidi compiersi un’incredibile trasformazione: Ronnie posava come un attore consumato, mentre brandiva come una pistola una banana gialla di warholiana memoria o mentre beveva una Coca Cola fingendo di discutere con i protagonisti delle sue opere, da Felix the Cat a Woody Woodpeker, da Mickey Mouse a Donald Duck. Ronnie sapeva divertirsi e soprattutto sapeva divertire. Elargiva un sacco di aneddoti sui personaggi più improbabili e sulle situazioni più assurde che aveva vissuto e aveva un modo particolare di raccontare che includeva l’imitazione delle voci e una serie di buffe smorfie. Con lui non ci si annoiava mai… Fu un pomeriggio spassoso, l’ultimo raggio di sole, prima della definitiva eclissi.
A bad, bad news!
Milano, martedi 23 luglio 2013, ore 6.19 di mattina. Sulla segreteria telefonica la voce rotta di Matteo Lorenzelli mi comunica il decesso di Ronnie. Buio. È un momento assolutamente surreale. Le circostanze della sua morte sembrano uscite da un bollettino di C.S.I.: il corpo viene ritrovato dal suo assistente nella casa di Lake Peeskskill, vicino a New York. Qualche tempo dopo si viene a sapere che alcuni suoi dipinti sono stati trafugati e che il suo assistente trentacinquenne, accusato del furto, è stato tradotto nel carcere della Contea di Putnam, nell’area metropolitana di New York. La stampa nazionale americana dedica al fatto pochi e succinti trafiletti, ricordando Ronnie Cutrone come il principale assistente di Andy Warhol e dimenticando completamente che alcune sue opere sono nelle collezioni d’importanti musei come il Whitney, il MoMA e il Brooklyn Museum di New York, il Los Angeles County Museum, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, il Groningen Museum e il Ludwig di Colonia. Maledetti giornalisti!
Rewind and start again.
Ripartiamo d’accapo.Ronald Curtis Cutrone – questo il suo nome per intero – è nato a New York il 10 luglio 1948. Il suo cognome tradisce un’evidente origine italoamericana, ma lui, cresciuto a Brooklyn, non ha mai parlato italiano. C’è una vecchia fotografia di Ronnie bambino con un vestito da cowboy, seduto in poltrona mentre legge un fumetto. La foto è del 1953 e Ronnie ha appena cinque anni. In quell’immagine sbiadita c’è molto del futuro Cutrone: l’innocenza, l’ironia, la voglia di divertirsi, la passione per i comics. Come tutti i bambini, Ronnie amava disegnare… soprattutto indiani e cowboy, auto da corsa e copertine di riviste. Non è strano, quindi, che, dopo aver frequentato la Brooklyn High School, si sia iscritto alla School of Visual Arts di Manhattan, dove ha studiato tra il 1966 e il 1970, anni cruciali e turbolenti della sua formazione d’artista. Ronnie non dipingeva ancora. All’epoca – come raccontò in quella mia ultima e unica intervista – eseguiva delle performance in cui legava degli oggetti al proprio corpo. Siccome gli ci voleva un’ora per prepararsi e un’altra per svestirsi, il professore e gli studenti del corso di pittura trovarono più comodo trasferirsi a casa sua per le lezioni. Le qualità performative di Ronnie, però, si esprimevano soprattutto al di fuori della scuola, attraverso altri incontri e altre frequentazioni.
Andy Warhol Superstar
Ronnie incontra per la prima volta Andy Warhol a una festa. Lui sta uscendo, Ronnie sta entrando: fatalmente si scontrano. Un comune amico li presenta e il gioco è fatto. Ronnie non lo sa ancora, ma la sua vita sta cambiando per sempre. In quel lontano 1966, il vivace teenager di Brooklyn si divide tra le lezioni alla School of Visual Arts e i weekend alla Factory. Diventa persino uno dei performer dell’Exploding Plastic Inevitable Show dei Velvet Underground. Mentre il gruppo suona, Ronnie e altri ragazzi si esibiscono sul palco. Lui è il ballerino che fa schioccare la frusta sul suono ipnotico e alieno della band di Lou Reed.
L’Exploding Plastic Inevitable sarebbe stato ricordato come uno dei più importanti e rappresentativi spettacoli multimediali degli anni Sessanta. Ronnie non sa nemmeno questo. Come potrebbe, tra l’altro, immaginare che quel cantante sarebbe diventato uno dei suoi più cari amici? Tre anni dopo, Warhol fonda la rivista Interview dichiaratamente per essere invitato, come editore, alle proiezioni dei film e per conoscere le star del cinema. A Ronnie è affidato il compito di recensire le mostre e i concerti più cool. Per quattro anni incontra artisti e musicisti di ogni sorta, diventando la longa manus di Warhol in città. Quando nel 1972 decide di lasciare Interview, Warhol gli chiede di diventare suo assistente. Per una decade Ronnie sarà il braccio destro di Warhol, non solo l’uomo che prepara le tele, mischia i colori, dipinge le opere e si occupa delle spedizioni.
Andy e Ronnie erano due stakanovisti: di giorno lavoravano sodo e la sera uscivano a divertirsi. La Weltanshauung di Warhol (ma anche di Ronnie), come raccontava Tommaso Labranca nel fenomenale saggio Andy Warhol era un coatto (Castelvecchi, 1995), era riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso. Negli anni Settanta, relativamente più quieti rispetto agli anni d’oro della Factory, Ronnie lavora principalmente ai ritratti su commissione di celebrità e personalità facoltose, che costituiscono l’ossatura commerciale della bottega di Warhol. Nello scorcio finale del decennio si fa festa alla discoteca Studio 54 e al nightclub Max’s Kansas City, crocevia di artisti, intellettuali, attori e rockstar. In un altro locale, il celebre CBGB’s, New York preannuncia, con l’esplosione al fulmicotone del punk, l’avvento di una nuova era.
Living Sculptures in a Cage
Il rapporto di Ronnie Cutrone con la pittura era sempre stato episodico, se non addirittura sporadico. Alla School of Visual Arts aveva eseguito qualche dipinto in stile neoespressionista e durante i primi anni alla Factory si era interessato soprattutto alla fotografia. Negli anni Settanta, mentre lavorava per Warhol, Ronnie realizzò una serie di sculture che rappresentavano le paure della gente. Tra queste c’erano delle gabbie in cui le eventuali reazioni tra due persone all’interno di uno spazio ristretto potevano essere osservate dagli spettatori. Alcune delle cosiddette The Getting To Know You Cage furono esposte al Mudd Club, un locale fondato nel 1978 da Steve Mass, Anya Phillips e Diego Cortez e gestito dallo stesso Cutrone tra il 1979 e il 1982. Al piano superiore del Mudd Club, dietro le sbarre delle sue sculture, si potevano vedere personaggi come David Bowie e Grace Jones.
The Eighties
Il 1980 è l’anno che segna il distacco formale da Andy Warhol e l’inizio della sua carriera di artista. Cutrone stava pensando di fare una serie di dipinti sugli stessi temi affrontati nelle sculture, ma non si era ancora deciso a realizzarne uno. Fu Lucio Amelio, il gallerista napoletano di Warhol, a chiedergli di dipingere il primo quadro in occasione della sua partecipazione ad Art Basel. Ronnie non dipingeva da dodici anni ed era comprensibilmente preoccupato, tuttavia comprò una grande tela e si mise al lavoro. Il primo tentativo, a suo dire, fu una vera schifezza, ma non si lasciò scoraggiare: girò la tela e si rimise a dipingere. Il risultato fu Red Eating Cannibals (1981), un dipinto ricavato da uno schizzo, fatto su un autobus mentre attraversava New York, che intendeva illustrare la violenza latente delle persone, un tema ricorrente in molti suoi dipinti successivi.
L’arte di Ronnie Cutrone, così come la conosciamo, nasce nel 1982, quando per la prima volta dipinge Picchiarello (Woody Woodpecker), il celebre personaggio inventato da Walter Lantz nel 1940, protagonista di molti cartoni animati della Universal Picture. Per trovare se stesso come pittore, Ronnie doveva capire che cosa amasse veramente:
“Amavo le donne, ma non volevo dipingerle, amavo Dio in quel periodo, ma non volevo dipingere Dio, perché, tra l’altro, Dio è senza volto. Fu un vero problema perché non sapevo che cosa amassi, ma ogni notte dormivo con il mio peluche di Picchiarello, così una mattina mi svegliai e capii che… amavo Picchiarello. È li che credo di avere amato Woody. E pensai… come posso fare… e lo dipinsi su una bandiera.”[1]
New York, New Pop
Nei primi anni Ottanta New York è la culla di un Rinascimento che coinvolge la musica, le arti, la cultura urbana. Il punk si è trasformato in New Wave, o meglio in No Wave, proprio nelle sale scalcinate del CBGBs. Andy Warhol è tornato sulla cresta dell’onda e la Factory è di nuovo un polo d’attrazione per star e celebrità di ogni genere. Per le strade impazza l’arte dei graffiti, un fenomeno virale che parte dalle comunità latine e afroamericane del South Bronx e si diffonde a macchia d’olio sui muri, sui vagoni della metropolitana e in ogni angolo della città, tappezzando ogni superficie disponibile d’immagini intrecciate a grandi lettere gommose. In seno alla cultura Hip Hop si sviluppano nuove pratiche di resistenza urbana, come la Breakdance, il Rap, il Writing. C’è fermento in città. Le gallerie d’arte si aprono ai nuovi linguaggi, mentre l’Europa è dominata dal neoespressionismo di Transavanguardia, Neue Wilden, Figuration Libre, Haftige Malerei. La febbre della pittura contagia il vecchio continente e trova il modo di sbarcare sulle coste statunitensi dell’Atlantico con la complicità di Leo Castelli e Ileana Sonnabend. Si chiude l’epoca dei concettualismi e dei minimalismi e si apre la gioiosa (ma irresponsabile) stagione dell’Edonismo Reganiano (Roberto D’Agostino).
Ronnie è nel posto giusto e al momento giusto per rivitalizzare, anzi per reinventare la Pop Art. Dipinge i personaggi dei cartoni animati sulle stelle e strisce della bandiera americana con un’attitudine completamente diversa rispetto agli artisti pop degli anni Sessanta. Avrebbe potuto seguire la scia della moda neoespressionista, accodarsi agli epigoni della Bad Painting e dei Neoprimitivi americani (da James Brown a Donald Beachler), seguire la neonata scuola dei graffitisti, ma preferisce ripartire dalla propria esperienza e infondere un nuovo spirito nella grammatica, fino ad allora fredda e intellettuale, della Pop Art. Espone i dipinti con Woody Woodpecker prima da Lucio Amelio, a Napoli (1982), poi da Tony Shafrazi, a New York (1982 e 1983).
Tony Shafrazi è un tipo curioso, salito alla ribalta della cronaca nel 1974 per aver vandalizzato con una bomboletta spray la Guernica di Picasso esposta al MoMA. Pensava che quel dipinto avesse perso la sua carica politica e rivoluzionaria e che bisognasse fare qualcosa perché tornasse a far riflettere la gente sul dramma della guerra. La sua galleria newyorchese, aperta nel 1979, si fa una reputazione esponendo nuovi talenti come Ronnie Cutrone, Keith Haring, James Brown, Jean-Michel Basquiat, Kenny Sharf, Jonathan Lasker e Futura 2000.
Cartoons and TV Generation
Woody Woodpecker è il primo di una lunga serie di personaggi dei cartoni animati dipinti su bandiere americane. Ci sono, tra gli altri, Mickey Mouse, Donald Duck, Pink Panther, Krazy Kat, Felix the Cat e Blaze, l’unico inventato dall’artista. Ronnie non è il primo a dipingere gli eroi dei comics. Lo avevano già fatto Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Mel Ramos, ma il suo modo è completamente nuovo: partecipe, caldo, innocente.
Ronnie appartiene alla prima generazione cresciuta completamente con la televisione. Fumetti e cartoni animati sono parte del suo patrimonio culturale e sentimentale e possono essere usati per raccontare il mondo in cui viviamo, come se fossero lettere di un alfabeto universale che tutti possono comprendere. Se gli artisti pop degli anni Sessanta avevano un atteggiamento più distaccato, più freddo, gli artisti New Pop, come Cutrone, Keith Haring e Kenny Scharf, vogliono arrivare al cuore della gente. I personaggi di Cutrone esprimono tutta la gamma dei sentimenti umani: la gioia, la rabbia, l’allegria, la tristezza, il dubbio e lo stupore che proviamo davanti alle assurde vicende della vita.
The Politics of Painting
Ronnie è sempre stato apolitico. Non votava. Credeva fondamentalmente che Dio gli avesse dato sufficiente autostima per non mettere il proprio destino nelle mani dei governanti, di qualsiasi partito politico fossero. Si definiva un liberale e se avesse un giorno deciso di votare avrebbe scelto i democratici perché non gli dispiaceva l’idea di pagare più tasse per migliorare la vita degli altri. Nonostante odiasse qualsiasi tipo di connotazione politica, culturale, religiosa o di genere, si rendeva conto che dipingere su una bandiera rendeva automaticamente i suoi dipinti politici.
“La politica”, mi disse, “fa parte della vita e io dipingo la vita”. Sono convinto che a lui piacessero le bandiere, non solo quelle americane, per i meravigliosi colori, così come gli piacevano i simboli della cultura di massa, i supereroi con le loro calzamaglie sgargianti, le copertine dei dischi pop e i loghi delle multinazionali. Le bandiere erano state un modo per portare i suoi personaggi nel mondo reale, per calarli sul palcoscenico dell’esistenza in modo che potessero scardinare, come ammetteva lui, “i nazionalismi, i razzismi e tutti gli ismi, per arrivare fino al cuore”. Il suo New Pop dava anche un altro messaggio, semplice e chiaro: “questo è il mondo, questo è ciò che siamo, nel bene e nel male”.
Matteo
Il rapporto di Ronnie Cutrone con l’Italia, iniziato nel 1982 con Lucio Amelio – per il quale in seguito realizzò anche il grande acrilico su bandiera napoletana intitolato You run to the sea, the sea wilI be boiling – You run to the rocks, the rocks wiII be melting, parte della celebre collezione Terrae Motus – è proseguito negli anni successivi con due mostre alla galleria Salvatore Ala di Milano nel 1984 e 1987 e poi con altre due mostre di disegni e acquarelli organizzate dallo Studio d’Arte Raffaelli (1991 e 1994), che si è occupato soprattutto della sua produzione grafica. C’è stata anche una mostra alla Galleria Il Capricorno di Venezia nel 1992, ma si può tranquillamente affermare che, dopo il primo periodo con Tony Shafrazi, il gallerista di fiducia di Ronnie Cutrone divenne Matteo Lorenzelli.
Ronnie e Matteo si conoscono a Milano nel 1984, quando Keith Haring, insieme a LA II (Angel Ortiz), realizza il negozio di Elio Fiorucci in San Babila. Si rivedranno a New York nell’aprile del 1986, poco dopo il disastro di Chernobyl, e continueranno ad avere contatti periodici fino alla fine degli anni Ottanta, periodo in cui la loro conoscenza si trasforma in rapporto professionale e, soprattutto, anche in una lunga e duratura amicizia. Quello tra gallerista e artista è da sempre un rapporto controverso, spesso costellato di incomprensioni, ma nel loro caso le cose sono sempre filate lisce. Mai una discussione su questioni veniali, mai uno screzio. Il loro è stato un legame solido, come se ne vedono pochi nel mondo dell’arte. Prova ne sono i nomignoli con cui erano soliti chiamarsi e che facevano parte di un lessico privato e affettuoso, incomprensibile a tutti gli altri.
Dopo il 1987, Lorenzelli rileva parte dei lavori in deposito alla galleria Salvatore Ala di Miano. Tra quei dipinti ci sono, oltre a My Future is None of my Business (1985) Happy Valley (1985-86), Mister Kilowatt (1985-86) e Living Water (1985-86), due grandi bandiere americane di soggetto italiano. La prima, Saint George and the Appropriation (1987), è una ripresa del classico tema di San Giorgio e il drago con Picchiarello nelle vesti del santo e, al posto del drago, il celebre cane a sei zampe dell’AGIP, disegnato nel 1952 dallo scultore varesino Luigi Broggini. Intorno alle due figure, sulle strisce orizzontali della bandiera, campeggiano il biscione araldico, simbolo della municipalità milanese, e i loghi di Fiorucci, Olivetti, Campari e Alitalia. Gli stessi marchi, con l’aggiunta di un grande monogramma di McDonald, compaiono in David and the Corporate Structure (1987), una bandiera verticale dominata dalla figura del David di Michelangelo.
Nell’opera di Cutrone, accanto all’immaginario pop americano, di tanto in tanto compaiono riferimenti al mondo italiano, che dal 1982 diventa una delle più frequenti mete espositive, grazie anche alla collaborazione con la galleria di Lucio Amelio per il quale, l’anno successivo, realizza un dittico su bandiera napoletana intitolato Corri verso il mare, il mare ribollirà – Corri verso le rocce, le rocce si scioglieranno (1983), poi entrato a far parte della famosa Collezione Terrae Motus. La prima tela “italiana” è, però, Birden (1982), in cui sono raffigurati Picchiarello e un mitologico Atlante che si stagliano per la prima volta sullo sfondo della bandiera Tricolore. In seguito, in occasione delle diverse mostre alla galleria Lorenzelli arte di Milano, compaiono, tra gli altri, i dipinti Lira (1993) e Shopping (1993), che recano sul fondo, rispettivamente, delle immagini serigrafate delle banconote da centomila lire (quelle con il ritratto di Caravaggio) e una piantina del centro di Milano, e Diabolik Creamsicle (2003), realizzato grazie alla scoperta del famoso personaggio dei fumetti creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani.
Here Come the 90’s
Gli anni Novanta si aprono all’insegna della novità. Ronnie inizia a dipingere anche su nuovi supporti come i quilt, le tradizionali trapunte decorate con motivi a patchwork che fanno parte del patrimonio dell’arte folk americana. Quilt n.1, n. 2 e n. 3 (tutti del 1990), Big Star (1991), Crazy Quilt (1990-91), Star Stepping (1991) e Black and White Mickey (1993) sono lavori di altissima qualità formale, in cui i tradizionali personaggi di Cutrone dialogano con raffinatissimi pattern di tessuto, raggiungendo una dimensione inedita di eleganza e raffinatezza. I Quilt sono la perfetta sintesi di Pop e Folk, il confine in cui s’incontrano la cultura consumista della civiltà urbana e quella agricola e provinciale dell’America rurale, la stessa evocata nei sacchi di mangime Beacon, che l’artista usa come supporti su cui trasferire il proprio armamentario iconografico. Un serbatoio d’immagini che rimane sostanzialmente inalterato fino all’ultimo scorcio del decennio, quando fanno capolino nuovi soggetti che, a posteriori, sembrano preavvertire la tregenda di quel fatale 11 settembre del 2001.
Sex, sex, sex!
All’inizio dei Novanta, la proverbiale joie de vivre del decennio precedente, prematuramente soffocata dall’incubo dell’Aids, trova un prolungamento in Love-Spit-Love (1991), una performance alla Simon Watson Gallery di New York organizzata da Ronnie insieme alla moglie Kelly Cutrone, una PR, poi divenuta una celebre autrice di programmi televisivi. Durante la performance – da cui prese il nome la nuova band dell’amico Richard Butler, i Love Spit Love[2] – tre coppie nude e di diverso orientamento sessuale (una gay, una lesbica e una etero) amoreggiavano su una bandiera americana. Love-Spit-Love era una protesta esplicita contro la censura del Governo nei confronti dell’arte e della musica ritenute oscene, ma il sesso era sempre stato al centro degli interessi di Ronnie fin dai tempi della Factory. Nel 1994, al Club U.S.A. di New York, Cutrone organizza un’altra performance, intitolata Birdbath, ancora più spinta della precedente: “[…] ho realizzato un evento di donne e pipì, facevano pipì semplicemente su ogni cosa: sulla bandiera, sui mappamondi, nelle cassette dei gatti […] Si, la mia nuova arte è tutta sul sesso.”[3]
La performance Birdbath, divenuta poi un video, è un’ennesima protesta contro l’America puritana e le sue contraddizioni:
“[…] in America facciamo di tutto ma la gente religiosa è veramente pazza. Sono pazzi riguardo al sesso. […] Quindi in America io faccio il sesso. Voglio dire, dipingo anche ma faccio sesso su videotape e nelle performances. Nelle performances delle donne che fanno pipì, per via dell’AIDS non possiamo avere scambi di fluidi corporali così le donne pisciavano lustrini dorati sulla gente, ma nel video era reale. Lo abbiamo fatto nel mio studio, tutto il pavimento coperto di fluidi e noi ci sguazzavamo.”[4]
L’anno seguente, in occasione della prima mostra alla Galleria Lorenzelli Arte, Ronnie organizza un’altra performance, più castigata rispetto alle precedenti, ma, nondimeno, ricca di allusioni sessuali. Inter-view, questo il titolo, è un’azione ripresa da Fabio Ilacqua, che mostra una donna nuda distesa su un tavolo, mentre viene toccata e massaggiata da Cutrone. Durante la performance, artista e modella si parlano, ognuno nella propria lingua, generando una sorta di conversazione dadaista, completamente priva di senso logico. Nelle performance e nei video di Ronnie Cutrone, molto più che nei dipinti, l’elemento libertario diventa dominante: il sesso e la nudità servono a denunciare l’ambiguità del moralismo occidentale. E d’altra parte, per uno che ha vissuto la stagione della liberazione sessuale degli anni Sessanta a stretto contatto con gli adepti della Factory di Warhol e con personaggi come Lou Reed, Jim Morrison e Jimi Hendrix, il puritanesimo degli anni Novanta doveva sembrare una cosa assolutamente intollerabile.
Before and After 9/11
Alla fine degli anni Novanta, il disastro delle Due Torri era ancora un incubo inimmaginabile. Ronnie, però, aveva già iniziato a sentire puzza di bruciato. Qualcosa stava cambiando. E in peggio. L’Occidente, dominato dalle multinazionali e ossessionato dal dio-denaro, aveva completamente smarrito la propria identità in una sorta di nuovo colonialismo finanziario ed economico. Nelle tele di Cutrone, accanto ai personaggi dei cartoon e ai brand delle multinazionali, compaiono nuove entità: Apostoli, Santi e Supereroi. Insomma, figure di redentori, salvatori e perfino vendicatori che, in fondo, sono la cartina di tornasole di un diffuso senso d’allarme e di pericolo. Ci rivolgiamo ai santi (o ai supereroi) solo quando le cose non vanno per il verso giusto.
Tutta la serie degli Apostles (2000) rivela un inedito carattere drammatico, inconsueto per l’artista. La croce, intesa nelle sue varie accezioni simboliche – religiosa, funerea o di soccorso – diventa un’iconografia ricorrente sia prima che dopo l’11 settembre (Purple Cross, 2000; Apostle #5, 2000; Red Cross, 2001; Polka Dot Cross, 2002; Cross Rose, 2002; Cross Hendrix, 2002).
Per Ronnie i supereroi della Marvel e della DC rappresentavano l’ennesimo espediente per dare voce a tutta la gamma delle speranze, delle aspirazioni e delle emozioni umane, ma avevano un carattere molto più incisivo nel delicato passaggio verso il Terzo Millennio. Tra il 1999 e il 2001, diventano protagonisti di una serie di quadri anti-pop, che denunciano l’avidità consumistica e la decadenza spirituale degli Stati Uniti, ma dopo l’11 settembre incarnano lo shock collettivo del popolo americano di fronte al crollo delle Twin Towers e le differenti reazioni della massa. Una tela emblematica, Sunshine Superman (Green Lantern) del 2001, mostra due opposte reazioni, i due volti dell’America: quello forte, placido, apollineo di Superman e quello viscerale, emotivo, dionisiaco di Green Lantern. Ronnie riusciva sempre a interpretare i fatti con incredibile oggettività, usando un abbecedario iconico semplice ed efficace. Il serbatoio d’immagini della Pop Art lo aiutava a focalizzare il messaggio: un gelato che si squaglia era la fine del sogno americano, una croce rossa era una richiesta di aiuto, un’esplosione era un simbolo di guerra.
The Age of Terror
“Dopo l’11 settembre il mondo cambiò, almeno a New York, e le esplosioni sembravano più cocenti che mai. Vedevo anche il simbolo della Croce Rossa dappertutto, in televisione, per la strada, compresi i vecchi film che guardavo. Tutto iniziava a confluire nel lavoro che stavo preparando. Supereroi, esplosioni e gelati sono temi tradizionali nell’iconografia Pop, ma l’inserimento della croce rossa aggiungeva il margine di contemporaneità a questo corpo di lavoro, e sembrava avere senso, date le mie influenze, la mia storia Pop personale, lo stato del mondo. Abbiamo tutti bisogno di aiuto”[5] Almeno fino al 2005 i segni dell’avvenuta tragedia continuano a manifestarsi nei dipinti di Ronnie Cutrone. La faticosa gestazione di quel trauma irrisolto influenza la sua opera artistica in modo evidente. In Boom, Oom, Ka Blam, Ka Blam – Handgun, tutti dipinti del 2005, riecheggiano gli assordanti rimbombi delle esplosioni, in un clima di “scontro tra civiltà” che non promette nulla di buono. Il volto dell’America che i falchi Neocon dell’amministrazione di Bush Jr. propugnano è abilmente sintetizzato in una delle opere più iconiche del periodo: Crusade (2005), dove tra un proiettile e un rossetto, sorge il simbolo sanguinante di Superman sormontato da una Croce Rossa. È una moderna pala d’altare, la cruda metafora di una nazione ferita, emotivamente sospesa tra l’odio e il perdono, tra l’amore e la morte. In questa temperie drammatica, appena rischiarata dall’ironia dei suoi Pop Shots, dove ancora sopravvive un’eco del suo spirito ludico, Ronnie Cutrone concepisce la più inquietante delle sue serie pittoriche: le Cell Girls (2004).
Sono undici piccole tele (50×50 cm.) che rappresentano volti di donne mediorientali col tradizionale Jibab e la bocca coperta dalle bandiere delle nazioni nemiche del fondamentalismo islamico. Sono cellule dormienti insediate nei paesi che hanno preso parte alle guerre in Iraq e in Afghanistan o che hanno fornito supporto logistico durante le operazioni militari e che, dunque, sono considerate dei bersagli del terrorismo islamico. A queste si aggiungono due grandi tele con le bandiere degli Stati Uniti (2005) e dell’Afghanistan (2006), che simboleggiano il principale target di Al Qaeda, e il paese che ospita l’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden.
Sorprende, di questa serie di ritratti muliebri, la conturbante e intimidatoria bellezza, capace di dispensare uno strisciante senso d’inquietudine e d’incarnare, al massimo grado, le più profonde paure dell’occidente. Le Cell Girls chiudono un ciclo e, di fatto, rappresentano dopo gli Apostles, i Superheroes, gli Ice-Cream, le Crosses e le Explosions, il capitolo conclusivo di una fase cruciale della sua produzione, peraltro emblematica di uno dei periodi più critici della recente storia americana.
Look Better.
C’è un quadro che inequivocabilmente registra un mutamento di temperatura. Si chiama Look Better (2006), un polittico su tela. È un quadro pop alla vecchia maniera: pulito, privo di sbavature, rasserenante. Rappresenta cinque sorrisi di donna e un riquadro con la scritta bianca “Look Better” in campo giallo. Potrebbe sembrare un dipinto di Alex Katz, se non fosse per la figura di Flash, il velocissimo supereroe DC che sfreccia al centro dell’opera. Qualche volta le cose cambiano alla velocità della luce, ma nell’opera di Cutrone i cicli non si susseguono mai, meccanicamente, l’uno dopo l’altro, ma s’intrecciano e si sovrappongono, esattamente come il registro comico e drammatico della sua pittura. Non si direbbe, ma la serie dei Trasformer, dedicata alle copertine dei dischi più amati dall’artista, nasce nello stesso periodo delle Cell Girls e dei Pop Shots.
Trasformers
Trasformer non è solo il titolo del secondo album solista di Lou Reed, uscito nel 1972, ma è anche il nome di una serie di dipinti di Ronnie, dedicati alle copertine dei suoi dischi preferiti, o di quelli degli amici più stretti. Sketches of Spain di Miles Davis, ad esempio, è uno dei preferiti di Matteo Lorenzelli ed è anche il primo dei Trasformer. Un disco per appassionati di Jazz, non certo un disco pop. Ronnie preferiva dischi più ballabili ed era ossessionato da tendenze e fenomeni culturali capaci di cambiare la società. Definiva “trasformatori” tutti i dischi che avevano creato nuove tendenze e nuovi fenomeni culturali, come The Paragons Meet The Jesters (1959), che aveva lanciato il genere del Doo-Wop, una fusione di Rhytm & Blues e Rock & Roll inventata dai Greaser italoamericani.
Nella lunga serie dei Trasformer ci sono album come Are You Experienced? di Jimi Hendrix, Meet The Beatles, Erotica di Madonna, What’s Going On di Marvin Gaye, Blond on Blond di Bob Dylan, Thriller di Michael Jackson e naturalmente i dischi con le copertine di Warhol di Rolling Stone (Sticky Fingers) e Velvet Undergrond & Nico, ma ci sono anche tributi a singole canzoni, come Don’t Be Cruel di Elvis Presley o Rapper’s Delight di Sugarhill Gang, che ha contribuito a diffondere la cultura dell’Hip Hop. Ronnie aveva un gusto onnivoro, che spaziava dal vecchio rock & roll dei Teddy Boys alla New Wave o al Kraut Rock più raffinati. Sapeva quanto fossero importanti quei dischi perché ne aveva vissuto personalmente l’impatto sulla società ed erano parte della sua storia.
Il critico d’arte Michael McKenzie lo aveva definito un “collagista nel cuore” perché aveva capito che Ronnie era un collezionista di esperienze disparate e che la sua vita era una sorta di patchwork incredibilmente ricco. I quadri della serie Trasformer e quelli di Mix & Match esposti alla Lorenzelli Arte nel 2010, erano la perfetta incarnazione di questa sua attitudine verso il melange, il crossover e tutto il promiscuo meticciato della cultura suburbana. La sua pittura includeva tutte le espressioni popolari in una rappresentazione fedele e agrodolce della contemporaneità, peraltro senza mai ricorrere ai tipici artifici snob e intellettualistici tanto abusati dai maitre à penser dell’arte contemporanea. Era schietta, diretta, autentica, come le copertine dei dischi che la gente ballava nelle discoteche e nei club di New York.
What a… Krazy Life in Naples
Perché What a… Krazy Life? Perché un titolo come questo? C’è un quadro molto grande dipinto tra il 1990 e il 1991 che si chiama Crazy Quilt, dove compare, accanto a un personaggio da cartoon, la scritta “Life” con i caratteri tipografici del celebre mensile americano, per il quale Ronnie avrebbe forse dovuto fare una copertina. Se poi sia stata fatta o meno non importa. Quel che conta è che quella di Ronnie è stata senza dubbio una “Crazy Life”, piena di saliscendi come le montagne russe. Quindi quel dipinto è in qualche modo iconico, oltre che assolutamente veritiero.
Ronnie sarebbe stato contento di fare una mostra come questa e di chiamarla così, What a… Krazy Life, come un commento a freddo, fatto col senno di poi, come si dice, alla fine di una carriera e di una vita a dir poco interessante. Soprattutto, sarebbe stato felice di ritornare là dove era iniziata la sua carriera di pittore, nella città di Lucio Amelio, in quella Napoli che è ancora oggi uno strano mix di tradizione e innovazione, insieme antica e moderna, ibrida e ambigua, ma soprattutto misteriosa. Di questa Napoli velata, lui sarebbe stato il discepolo devoto, l’apprendista stregone che, come il Mickey Mouse di quei suoi dipinti ispirati a Fantasia di Walt Disney… avrebbe fatto per noi un’ultima magia.
[1] Ronnie Cutrone, in AA.VV., hey ronnie, hey paloma, Lorenzelli Arte, Milano, 3 ottobre – 21 dicembre 2013, p. 164.
[2] I Love Spit Love sono stati un gruppo di rock alternativo attivo tra il 1992 e il 2000. Hanno prodotto due album: l’omonimo Love Spit Love(1994) e Trysome Eatone (1997).
[3] Maurzio Turchet, Ronnie Cutrone. Talkin’ about golden shower, in AA.VV., hey ronnie, hey paloma, Lorenzelli Arte, Milano, 3 ottobre – 21 dicembre 2013, p. 65.
[5] Ronnie Cutrone, Tataboo. Apostoli, Supereroi, Gelati, Croci ed Esplosioni, in AA.VV., Ronnie Cutrone. Tataboo. Apostles, Superheroes, Ice-Cream, Crosses and Explosions, Lorenzelli Arte, Milano, 2 ottobre – 22 novembre 2003, p. 7.
Fuoco prometeico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 97×90 cm
Wilhelm Worringer pensava che all’origine dell’impulso creativo ci fosse “il bisogno di creare – di fronte allo sconvolgente e inquietante mutare dei fenomeni del mondo esterno – dei punti di quiete, delle occasioni di riposo, delle necessità nella cui contemplazione potesse sostare lo spirito esausto dell’arbitrarietà delle percezioni”[1]. Così, lo studioso tedesco pensava che, proprio perché svincolata da ogni legame col mondo esterno, l’astrazione geometrica offrisse a tale impulso una prima soddisfazione, anzi una forma di felicità. Eppure, “a causa della profondissima, intima connessione tra tutte le cose della vita, la forma geometrica costituisce anche la legge morfologica della materia cristallina inorganica”[2]. In altre parole, la forma geometrica rappresenterebbe sia una via di fuga dall’incessante metamorfosi delle forme, sia l’intima struttura di rocce, minerali, gemme e cristalli. Essa sarebbe, allo stesso tempo, fuori e dentro la materia.
Spazio cosmico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 84×113 cm
L’interesse di De Fazio per le forme inorganiche dei minerali e per le strutture (organiche e inorganiche) di cristalli e rocce si è poi precisata ulteriormente a partire dagli anni Novanta, attraverso il passaggio a una pittura che azzerava ogni spunto iconografico per virare verso una grammatica astratta, o meglio, apparentemente aniconica. Iniziavano, così, a emergere proprio in quegli anni gli elementi caratterizzanti di un linguaggio che ruotava attorno al rapporto tra il colore, la luce e geometria. Si registrava, insomma, nella sua pittura un piacere per i pattern e le trame ricorsive prodotte dalle forze geofisiche sulla terra e, in particolare, sugli oggetti studiati nelle discipline della petrologia, mineralogia e gemmologia.
Anche Henri Focillon ha affrontato il tema del rapporto tra opera d’arte e fissità, tra creazione e quiete, avvertendoci, però, che tutte le forme plastiche “Sono soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente, ed al principio degli stili, che, con una progressione ineguale, tende successivamente a saggiare, a fissare e a disciogliere i loro rapporti”[3]. In sostanza, per il grande storico dell’arte francese l’opera d’arte è immobile solo in apparenza, anzi essa “esprime un desiderio di fissità, è un arresto; ma alla maniera di un momento nel passato. In realtà l’opera nasce da un mutamento e ne prepara un altro”[4]. L’aspirazione alla fissità cristallina nell’arte s’incontra ben prima dell’affermazione dei linguaggi aniconici del Novecento. Nel Rinascimento italiano una tendenza mineralizzante si ravvede nel modo in cui Carlo Crivelli dipinge gli altari marmorei o tramuta i frutti in incorruttibili pietre dure (Immacolata Concezione, 1492, National Gallery, Londra); nella passione di Andrea Mantegna per la geologia (Madonna delle Cave, 1488-90. Galleria degli Uffizi, Firenze); nelle spigolose forme di Cosmè Tura (Calliope, 1460, National Gallery, Londra), di cui il Longhi rilevava la “natura stalagmitica; un’umanità di smalto e di avorio, con giunture di cristallo…”[5]. Questi, però, sono solo alcuni dei molteplici esempi. Lo sa bene Giuseppe De Fazio, artista che, a partire dalla fine degli anni Settanta, reinterpreta alcune iconografie di opere rinascimentali. All’inizio, come notava Valerio Terraroli, le scelte artistiche di De Fazio “si orientano verso il recupero del valore tattile della pittura e un costante impegno, talvolta capzioso, nell’elaborazione tecnica delle forme e dei colori, al fine di restituire una realtà vissuta e interpretata attraverso sedimentazioni di archetipi e qualità pittoriche di ascendenza classica”[6]. L’artista traeva, infatti, spunto da opere di Mantegna, Leonardo, Michelangelo, Giorgione, Tiziano e Caravaggio – ma anche di Matisse, Bonnard e Van De Velde -, i cui soggetti modificava in configurazioni spigolose e volumetrie che evocavano la consistenza dei cristalli.
Meduse Fusione mineralica, 2020, encausto cera e pigmenti su juta, 134×134 cm
A distanza di oltre trent’anni, ritroviamo quello stesso piacere nella recente produzione dell’artista, abbinato a un inesausto anelito sperimentale che si esprime soprattutto nella scultura, dove composti industriali come il siporex – un calcestruzzo costituito di cemento e sabbia silicea -, il polistirene o la resina cementizia, sono associati a materiali più nobili come il metallo in foglie o addirittura la madreperla. Nella pittura, invece, Giuseppe De Fazio preferisce combinare tecniche tradizionali come l’encausto e l’olio, che gli permettono di enfatizzare la componente luministica delle sue composizioni, immagini che indagano la materia inorganica con straordinaria fedeltà. Sono dipinti, scrive, infatti, Marcello Séstito, che “farebbero la gioia di musei naturalistici o geologici”[7], proprio perché scandagliano, come se si trattasse di un ingrandimento al microscopio, la struttura geometrica di quarzi (Ametista, 2015), detriti spaziali (Meteorite, 2007) o minerali (Fluorite, 2015). Il risultato della sua ricerca compone un vasto archivio di forme, luci e colori che fanno della sua pittura (ma anche della sua scultura) una sorta di prismatico regesto di geometrie sotterranee. L’artista le chiama “estrazioni dalla madre terra”, sorta di carotaggi che catturano il flusso energetico di un sottosuolo in continuo movimento e trasformazione. Infatti, più che il bisogno di staticità e quiete cui accennava Worringer, nella pittura di Giuseppe De Fazio emerge piuttosto la natura magmatica e dunque mobile delle forze che agitano il mondo geologico. L’artista non solo “tenta di pietrificare e mineralizzare attraverso la pittura che ha un supporto bidimensionale”, come sostiene Séstito, “ciò che per sua natura è tridimensionale”[8], come rocce, pietre e gemme, ma riserva lo stesso trattamento anche a oggetti del regno animale e vegetale – come nel caso di Meduse “Fusione mineralica” (2022), Olive (2021) e Melograna (2022) –, a fondali marini e fiotti di magma lavico – Sommersione (2023) e Fuoco prometeico (2023) – e perfino a iperoggetti di sovrumana estensione come lo Spazio cosmico (2022). Insomma, De Fazio cristallizza qualsiasi soggetto, mineralizza tutto, fabbricando, così, un alfabeto che definire aniconico sarebbe azzardato. È vero, infatti, che nei suoi dipinti le uniche figure che si scorgono sono quelle geometriche, forse il riflesso platonico di un antico ideale di perfezione archetipica, ma è altrettanto vero che tali geometrie sono desunte dall’osservazione di strutture reali e configurazioni concrete dell’organico e dell’inorganico. Semmai, c’è nel lavoro di De Fazio un procedimento astrattivo (oltre che estrattivo), nel senso che l’artista astrae – [dal latino abstrahĕre, composto da abs «via da» e trahĕre «trarre»] -, cioè distoglie l’attenzione dalla realtà circostante, per concentrarsi su ciò che è invisibile ai più, cioè la dimensione geologica dell’esistenza. Una dimensione che esubera di molto la nostra capacità di comprensione. De Fazio rende, quindi, visibile ciò che possiamo a malapena immaginare, cioè il tumulto interiore della materia, la tettonica molecolare che fonde e plasma e vetrifica le sostanze terrestri fino a renderle fulgide e iridescenti.
Pirite, Polistirene, resina cementizia, stucco e metallo in foglie
Tuttavia, mentre nella pittura il suo sguardo, come quello di Focillon, coglie le forme “soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente”, nella scultura, come voleva Worringer, riesce a soddisfare quel “bisogno di creare […] dei punti di quiete, delle occasioni di riposo” in cui contemplare ciò che ai nostri sensi appare inalterabile, come la purezza strutturale di una roccia sedimentaria (Alabastro fiorito 1 e Alabastro fiorito 2, 2023) o l’aliena corazza geometrica di un solfuro di ferro (Pirite, 2022). E così, si può dire che l’artista riesca a far convergere nelle sue memorie dal sottosuolo – le plastiche e le pittoriche – due concezioni contrapposte dell’arte: la visione statica, cristallina, di origine platonica e quella dinamica, mobile, più affine allo spirito avanguardistico del Novecento. Il tutto in un’epoca in cui le barriere stilistiche sono crollate e ogni contrapposizione ideologica (perfino quella tra figurazione e astrazione) risulterebbe nient’altro che il segno di un’ingenuità culturale.
Sommersione, 2023, olio su cotone, 140×205 cm
L’arte di Giuseppe De Fazio è un’arte in cui i confini tra le forme reali e le loro interpretazioni sono sfumati e incerti, dove la precisione realistica delle geometrie cristalline e minerali convive con l’arbitrarietà delle loro estensioni a ogni aspetto del mondo naturale. Un’arte così non può che essere considerata una forma di “astrazione ambigua”[9] o di “pittura ibrida”[10], che si sottrae a ogni rigida classificazione per abbracciare il mistero indistinto della creazione.
[1] Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, 2008, Einaudi, Torino, p. 37.
[5] Roberto Longhi, Officina ferrarese, 1980, Sansoni, Firenze, p. 24.
[6] Valerio Terraroli, Giuseppe De Fazio, catalogo della omonima mostra itinerante, San Zenone all’Arco, Brescia; Sala San Rocco, Este (PD); Biblioteca Comunale, Tropea (VV), 1989, Litografia G.A.M., Roma.
[7] Marcello Sèstito, Giuseppe De Fazio. Grumi contratti di senso, 2017, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), p. 18.
Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), 2023, oil on canvas, 120x150cm
It could be an extraterrestrial civilization or an alternative, parallel reality. More simply, it could be the survivalist version of our planet after a climate crisis, or a technological mishap of massive proportions. It doesn’t really matter which. What counts is that the universe described by Ryan Heshka is one of fantasy, a mad, wild world inhabited by masked pin-up girls, fearsome femmes fatales, bizarre chimeras and space monsters, superheroes and sub-humans, but above all genetic variations of all kinds, crossed, grafted hybrids of mutant humanity, of fauna and flora adapting to new conditions of life. This – in short – is the daily imaginary of an original Canadian artist, who in his canvases “projects” the carousel of a multicolored range of organic forms, a catalogue of promiscuous and spurious species that embody the Darwinist dream of evolution run amok.
Cult-ivation, 2023, oil on canvas, 60x45cm
The idea is to represent, as Ryan Heshka says, “the first generation of new life forms after the end of the world.” And in fact his paintings pullulate with freak show creatures, eccentric and rather outlandish entities that seem to have leapt off the pages of a DC comic – something like Doom Patrol by Grant Morrison, for example – but also anomalous morphologies worthy of the Southern Reach Trilogy by Jeff VanderMeer, or – if you will – Stalker by Andrei Tarkovsky. Nevertheless, unlike the leaden atmospheres of sci-fi dystopias, Heshka’s painting is packed with bright colors, blaring yellows, blazing reds and intense greens that curiously remind us of the palette of the leader of the Neue Leipziger Schule, Neo Rauch. Moreover, his whimsical characters, though unusual, even seem to be normal within his prophetic vision of a planet rising from the ashes of a human-built civilization, where life can survive only by inventing new and unforeseen genetic combinations.
Putting aside the dark tones of the previous exhibition Midnight Movie[1](2018), this time Ryan Heshka lets himself be guided by the idea of a rebirth, of form and creativity, that turns around concepts of germination, blossoming and proliferation, not only of unprecedented beings but also of natural landscapes halfway between a post-apocalyptic Eden and an alien Garden of Earthly Delights. “My new works portray the coming of spring after a long winter,” the artist says, “and perhaps this is why the botanical species that set the tone of these landscapes seem so lively and luminous.”
Hortus Renatus, 2024, gouache and mixed media on paper, 51x40cm
The theme of landscape has already been a recurring presence in the paintings of Romance of Canada[2] (2015), but it that case it was a sidereal nature made of snowy conifer woods and frozen grottos. Here, on the other hand, the artist shapes a new Jurassic geography, alternating uncertain morphologies such as those depicted in the painting Winter Swamp Oasis, a sort of geo-climatic oxymoron, or like the forest of modified cacti of Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), which seems to have been borrowed from the set of a classic episode of Star Trek.
Moreover, the theme of the Eden-like garden, which spontaneously arose during the preparation of the works, perhaps in relation to the impression of cloistered isolation during the pandemic, is accompanied by one of the most typical motifs of Heshka’s imagery, that of the man-animal hybrid, addressed through a singular gathering of figures ranging from the iridescent bug-woman seen in The Art of the Blind Beetle to the gallant couple composed of a muscular mermaid and an amphibious girl, in Frog Wife’s Paradise (also the protagonist of a comic book made by the artist), all the way to the advancing group of unnamable genetic oddities of Cult-ivation.
Sketches and studies
In short, the savage lands of Heshka host a plentiful assortment of weird creatures that elude any attempt at classification. There are not only crossings between identifiable species – like the women-octopi, for example, of The Blossoming Pond and Post Reign Fall – but also indeterminate, anatomically abnormal entities, like those that appear in Voice of Bloom and Sinister Grove, a lineage of prodigious and fatal monsters that unleash an almost enchanting power with their wings of changing colors, their skins striped with arterial branchings, their plumed raiment and petal-shaped pelts to cover feverish and toxic pudenda.
Frog Wife’s Paradise, 2023, oil on canvas, 60x45cm
The monster has a special place in the artist’s imagination, because it represents the frequentation of an overturned universe, the normality of an alternative dimension that can be seen as an allegory of the collective unconscious in the era of the downfall of civilization, and at the same time the foreshadowing of a future dominated by otherness, and the non-conformity with everything that is familiar to us.
Though with its usual irony and lightness, Heshka’s painting, feeding on the pop culture of science-fiction comics and B-movies, addresses a very timely subject, namely the hypothesis of a world without human beings (or, at lease “beings that are fully human”), in the wake of a dramatic biotic transition of mass extinction. Paradoxically, Ryan Heshka takes a non-anthropocentric perspective – curiously close to that of the contemporary philosophers of Speculative Realism[3] or the so-called Dark Ecology of Timothy Morton[4] – to describe a reality dominated by antediluvian creatures and Lovecraftian entities, like those that emerge from the depths of the earth in Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals).
Rosetta, 2023, pastels on paper, 18x13cm
But in this dimension of vintage science fiction, seething with trans-human figures that seem to reset the laws of genetic inheritance, what counts is the vision of an unstoppable proliferation of life forms, a joyful and springtime dissemination of organisms, some of which are partially anthropomorphic (and furthermore sheathed in bizarre “camp” garb), that reassure us about the fact that no end of the world will ever be quite definitive. If anything, there will be the end of an obsolete species like homo sapiens, the last of a long series of now-extinct hominids.
[1] Ryan Heshka, Midnight Movie, curated by Michela D’Acquisto, 2018, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milan.
[2] Ryan Heshka, Romance of Canada, curated by Ivan Quaroni, 2015, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milan.
[3] Speculative Realism is a philosophical current that began in 2007, involving various authors sharing the idea that unlike what has been sustained over the last two centuries, man can have access to the “thing itself,” not just to the phenomenon, the appearance, but to the essence of the real. Behind the various tenets of Speculative Realism there is an attempt to go beyond the anthropocentric approach.
[4] Dark Ecology is a radical revision of the concept of ecology, which seeks to surpass the anthropocentric approach by establishing a bond with non-human beings, and by acknowledging the dark, destructive side of nature. See Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016.
Ryan Heshka. Springs to come
di Ivan Quaroni
The Blossoming Pond, 2023, oil on canvas, 60x45cm
Potrebbe essere una civiltà extraterrestre oppure una realtà parallela alternativa o, semplicemente, la versione survivalista del nostro pianeta dopo una crisi climatica o una singolarità tecnologica di proporzioni epiche, poco importa. Quel che conta è che quello descritto da Ryan Heshka è un universo fantastico, un mondo folle e selvaggio popolato da pin-up mascherate e temibili femme fatale, bizzarre chimere e mostri spaziali, supereroi e subumani, ma soprattutto variazioni genetiche di ogni sorta, incroci, innesti e ibridi di un’umanità mutata e di una fauna e flora riadattate a nuove condizioni di vita. Questo è, in distillato, l’odierno immaginario di un originale artista canadese, che nelle sue tele “proietta” il carosello di una variopinta gamma di forme organiche, un catalogo di specie promiscue e spurie che incarnano il sogno darwinista di un’evoluzione fuori controllo.
L’idea è quella di rappresentare, come dice Ryan Heshka, “la prima generazione di nuove forme di vita, dopo un’ipotetica fine del mondo”. E infatti, nelle sue tele pullulano creature da freak show, entità eccentriche e un po’ bislacche che paiono uscite dalle pagine di un fumetto DC – qualcosa come il Doom Patrol di Grant Morrison, per esempio -, ma anche morfologie anomale degne della Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer o, se preferite, dello Stalker di Andrej Tarkovskij. Però, a differenza delle atmosfere plumbee tipiche delle distopie fantascientifiche, la pittura di Heshka è dominata da una felice gamma di colori brillanti, fatta di gialli squillanti, rossi accesi e verdi intensi che curiosamente richiamano la palette cromatica del capofila della Neue Leipziger Schule, Neo Rauch. Inoltre, i suoi estrosi personaggi, benché insoliti, appaiono addirittura normali nella sua visione profetica di un pianeta risorto dalle ceneri della civiltà antropica, dove la vita sopravvive inventando nuove e imprevedibili combinazioni genetiche.
Randy, 2023, pastels on paper, 18x13cm
Accantonati i toni dark della precedente mostra Midnight Movie[1], questa volta Ryan Heshka si lascia guidare dall’idea di una rinascita, insieme formale e creativa, che ruota attorno ai concetti di germinazione, fioritura e proliferazione, non solo di personaggi inediti, ma anche di paesaggi naturali che stanno a metà tra un eden post-apocalittico e un Giardino delle delizie alieno. “I miei nuovi lavori rappresentano l’avvento della primavera dopo un lungo inverno”, dice l’artista, “forse per questo, le specie vegetali che caratterizzano questi paesaggi appaiono così vivaci e luminose”.
Il tema del paesaggio era già stato uno degli elementi ricorsivi dei dipinti di Romance of Canada[2] (2015), ma in quel caso, si trattava di una natura siderale, fatta di boschi innevati di conifere e grotte ghiacciate. Qui, invece, l’artista plasma una nuova geografia giurassica, in cui si alternano morfologie incerte come quella raffigurata nel dipinto Winter Swamp Oasis, una specie di ossimoro geoclimatico, o come la foresta di cactacee modificate di Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), che sembra rubata alla scenografia di un episodio classico di Star Trek.
Sketches and studies
Inoltre, il tema del giardino edenico, emerso spontaneamente durante la preparazione dei lavori, forse in reazione al clima di isolamento claustrale vissuto durante la pandemia, si accompagna a uno dei motivi più tipici dell’iconografia di Heshka, quello dell’ibridazione tra uomo e animale, trattato attraverso una singolare raccolta di figure che vanno dall’iridata donna-bacherozzo ritratta in The Art of the Blind Beetle, alla galante coppia composta dal muscoloso sirenetto e dalla ragazza anfibia di Frog’s Wife Paradise (peraltro protagonista anche di un comic book disegnato dall’artista), fino all’avanzante gruppo di innominabili anomalie genetiche di Cult-ivation.
Insomma, le lande selvagge di Heshka ospitano un nutrito campionario di creature weird che sfuggono a qualsiasi tentativo di classificazione. Non ci sono, infatti, solo incroci tra specie identificabili – come, ad esempio, le donne-polpo di The Blossoming Pond e Post-Reign Fall – ma anche entità indeterminate, anatomicamente eteroclite, come quelle che compaiono in Voice of Bloom e Sinister Grove, una teoria di mostri prodigiosi e fatali, che sprigionano un potere quasi incantatorio con quelle loro ali dai colori cangianti e le epidermidi striate di ramificazioni arteriose, quei loro abiti pennuti e le pellicce petaliformi a coprire le febbrili e venefiche pudende.
Melveena with Shrubs, 2023, oil on panel, 40x30cm
Il mostro occupa un posto privilegiato nella fantasia dell’artista, perché rappresenta la consuetudine di un universo capovolto, la normalità di una dimensione alternativa che può essere considerata come un’allegoria dell’inconscio collettivo nell’epoca del tramonto della civiltà e, insieme, l’anticipazione di un futuro dominato dall’alterità e dalla difformità con tutto ciò che ci è familiare. Pur con l’ironia e la levità che la caratterizzano, la pittura di Heshka, alimentata dalla cultura pop dei fumetti di fantascienza e dei B-Movie, contempla un soggetto quanto mai attuale, ossia l’ipotesi di un mondo privo di esseri umani (o, perlomeno, di “esseri del tutto umani”), quello che seguirebbe alla drammatica transizione biotica di un’estinzione di massa. Paradossalmente, Ryan Heshka adotta una prospettiva non antropocentrica – curiosamente vicina a quella dei filosofi contemporanei del Realismo Speculativo[3] o alla cosiddetta Ecologia oscura di Timothy Morton[4] – per descrivere una realtà dominata da creature antidiluviane e entità lovecraftiane, come quelle che fuoriescono dalle profondità terrestri in Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals). Ma in questa dimensione da fantascienza vintage, brulicante di figure transumane che sembrano ridefinire le leggi dell’ereditarietà genetica, quel che conta è la visione di un’inarrestabile proliferazione di forme di vita, una gioiosa e primaverile disseminazione di organismi, alcuni dei quali parzialmente antropomorfi (e per di più inguainati in bizzarri abiti camp), che ci rassicurano sul fatto che nessuna fine del mondo sarà mai definitiva. Semmai solo quella di una specie obsoleta come l’homo sapiens, l’ultimo di una lunga serie di ominidi ormai estinti.
Gilbert, 2023, pastels on paper, 18x13cm
[1] Ryan Heshka, Midnight Movie, a cura di Michela D’Acquisto, 2018, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano.
[2] Ryan Heshka, Romance of Canada, a cura di Ivan Quaroni, 2015, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano.
[3] Il Realismo speculativo è una corrente filosofica nata nel 2007 e rappresentata da autori diversi, accomunati dall’idea che, diversamente da quanto si è sostenuto negli ultimi due secoli, l’uomo può avere accesso alla “cosa in sé”, non solo al fenomeno, all’apparenza, ma all’essenza del reale. Alla base delle varie anime del Realismo speculativo c’è il tentativo di superare l’approccio antropocentrico.
[4] L’Ecologia oscura è una radicale revisione del concetto di ecologia, che cerca di superare l’approccio antropocentrico stabilendo un legame con gli esseri non-umani è accogliendo il lato oscuro e distruttivo della natura. Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016.
Quella della Corea è stata una storia particolarmente travagliata, segnata dalle continue ingerenze delle potenze straniere. Nel XIX secolo, il Paese del calmo mattino è stato oggetto di aggressioni da parte di Russia e Giappone e di potenze occidentali come la Francia e gli Stati Uniti che, pretestuosamente, intendevano liberarla dall’influenza del confinante impero cinese. Agli inizi del XX secolo, la penisola era diventata prima un protettorato del Giappone (1905), poi una sua colonia (1910). Lo sfruttamento economico e le repressioni politiche e culturali messi in atto dal governo nipponico, particolarmente oppressivo, cessarono solo con la sconfitta del Sol Levante nella Seconda Guerra mondiale. Dopo il conflitto, la Corea venne suddivisa in due zone d’occupazione. La linea di demarcazione del 38° parallelo separava, infatti, il territorio settentrionale, presidiato dalle truppe sovietiche, da quello meridionale, sottoposto all’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti. Una situazione per certi versi simile a quella europea, dove gli ex territori del Terzo Reich vennero separati dalle potenze vincitrici in due blocchi ideologicamente antitetici, quello orientale, controllato dall’Unione Sovietica e quello occidentale, protetto dalle forze alleate.
La proclamazione nel 1948 di due stati distinti, la Repubblica di Corea e la Repubblica Democratica Popolare di Corea, ognuna delle quali reclamava la sovranità giuridica sull’intero territorio, è all’origine delle tensioni che contrapposero le due diverse entità politiche. Tensioni che esplosero nel 1950, quando le truppe nordcoreane sconfinarono a sud del 38° parallelo provocando l’immediato intervento a fianco dell’esercito sudcoreano delle forze armate statunitensi stanziate nel Pacifico e di quelle dell’ONU. Fu l’inizio della Guerra di Corea, che durerò fino al 1953 provocando due milioni e ottocentomila vittime, tra morti, feriti e dispersi. Ma fu anche uno dei momenti di maggior tensione della Guerra Fredda, dato che al cosiddetto Korean Conflict – come lo chiamano gli americani per sottolineare il fatto che si tratta piuttosto di una guerra di posizione – parteciparono anche le truppe della Repubblica Popolare Cinese a fianco di quelle nordcoreane, esacerbando, così, la contrapposizione ideologica tra il modello capitalista e quello comunista. Alla fine delle ostilità, le trattative tra i rappresentanti dei diversi schieramenti fissò ancora una volta la linea di demarcazione tra gli eserciti delle due Coree al 38° parallelo, lasciando sostanzialmente invariata la situazione prebellica.
Minhee-Kim, Sue, 2023, oil on canvas, 130×130 cm.
Influsso occidentale
Dalla metà del XX secolo, le divergenze politiche, sociali ed economiche che separavano le due Coree si riflettevano anche sul piano delle identità culturali e artistiche. Mentre in Corea del Nord si affermava lo stile del Realismo Socialista, nella Corea del Sud cominciava a farsi sentire l’influenza delle correnti dell’arte europea e statunitense.
Soprattutto i principi dell’Arte Informale e dell’Espressionismo Astratto offrivano ai giovani artisti sudcoreani l’opportunità di esprimere l’angoscia e il turbamento generati dalla guerra civile. Centrale, in tal senso, fu l’esperienza dell’Associazione Hyun-Dae fondata a Seoul nel 1957, di cui fecero parte artisti come Park Seo-Bo e Chung Chang Sup, futuri pionieri di Dansaekhwa, il movimento di pittura monocromatica degli anni Settanta che oggi fa tendenza nel mondo del collezionismo internazionale.
Dansaekhwa, che letteralmente significa appunto “pittura monocromatica”, è un termine introdotto recentemente per designare il gruppo di artisti che, a distanza di vent’anni dalla fine della guerra civile, rompeva definitivamente con i linguaggi dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto. Spesso accostato alla pittura minimalista, questo movimento combinava lo spirito tradizionale coreano con l’astrazione occidentale in una congerie di ricerche originali, dove la predilezione per le tinte monocolore e per i moduli geometrici si fondeva con la sperimentazione di nuove tecniche ed il recupero di materiali tradizionali.
Il successo occidentale di Dansaekhwa è dovuto, in parte, a una serie di mostre collettive organizzate da Alexander Gray Associates (Overcoming the Modern. Dansaekhwa: The Korean Monochrome Movement, 2014, New York), Blum & Poe (From All Sides: Tansaekhwa on Abstraction, 2014, Los Angeles), Boghossian Foundation (When Process Becomes Form: Dansaekhwa and Korean Abstraction, 2016, Bruxelles) e ancora Blum & Poe (Dansaekhwa and Minimalism, 2016, Los Angeles e New York) e anche a una pletora di esposizioni personali dedicate ai suoi principali esponenti da importanti gallerie come Perrotin (Park Seo Bo, Chung Chang-sup), Pace (Lee Ufan), Tina Kim (Ha Chong-Hyun) e White Cube (Park Seo Bo).
Tuttavia, il relativamente recente interessamento dei player occidentali per Dansaekhwa e per gli artisti di generazioni successive come Haegue Yang, Lee Bul, Liu Wei e Anicka Yi, non è stato il risultato di un improvviso innamoramento euro-americano per gli esponenti dell’arte di questa lontana penisola asiatica, ma piuttosto è dovuto alla politica culturale adottata dai governi filocapitalisti e strenuamente anticomunisti succedutisi alla guida della Corea del Sud fin dal dopoguerra. Una politica che, naturalmente, ha beneficiato del pieno sostegno degli interlocutori occidentali. Prova ne è il fatto che un movimento come Minjung, una corrente artistica e sociopolitica nata tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta in seno al movimento democratico durante la dittatura militare del presidente Chun Doo-Hwan e in reazione al Massacro di Gwangju (1980), non sia stato oggetto di alcuna riscoperta da parte del collezionismo occidentale. Eppure, l’arte Minjung, per lo più realizzata da collettivi artistici che mettevano in dubbio i concetti di autorialità individuale e criticavano il formalismo di Dansaekhwa e il suo disinteresse verso le questioni sociali e politiche, ha avuto un ruolo importante ha segnato l’evoluzione dell’identità culturale e democratica del paese.
Seong Jin Jeong, Relief, 2022, Polystyrene, Digital print gypsum, Epoxy, 163x34x20 cm
Soft Power
L’immagine cool e attrattiva della Corea del Sud negli ultimi anni si deve, infatti, a decisioni governative strategiche come l’adozione, fin dagli anni Ottanta, dunque in un momento di grande sviluppo economico e industriale, di una politica di national branding che ha puntato sulla cultura come strumento di promozione degli interessi della nazione, formalmente in un’ottica di “dialogo e collaborazione multilaterale” con altri paesi asiatici e occidentali. Risultato di questo soft power, che è il segno dell’ammodernamento dell’immagine del paese all’apice della sua ascesa capitalista, è stata la travolgente onda di prodotti d’intrattenimento e spettacolo che ha invaso prima i paesi asiatici limitrofi, poi il resto del mondo. L’hanno chiamata Hallyu (Korean Wave), un fenomeno che proietta il carattere dinamico, pop e ipertecnologico con cui la Corea del Sud si presenta sul palcoscenico internazionale attraverso la musica, il cinema, le serie TV e, infine, anche l’arte contemporanea.
L’Hallyu esplode intorno al Duemila, quando le soap opera coreane fanno breccia a Taiwan e nella Cina continentale, rendendo celebri attori e attrici coreani. Poi si estende anche ad altre nazioni come Thailandia e Malesia, dove si diffondono non solo le serie televisive, ma anche la musica K-Pop di gruppi come Sechs Kies, Diva, GOD e Baby VOX. Persino in Giappone, lo storico nemico insieme al quale la Corea del Sud haospitato il Campionato Mondiale di Calcio del 2002, il boom dell’Hallyu si diffonde grazie all’enorme successo del drama televisivo Winter Sonata, che racconta la travagliata ricerca del padre perduto da parte del figlio Joon-sang. Una telenovela dai risvolti inquietanti, che può essere letta anche come una dura critica al ruolo parentale nella società contemporanea.
In Europa e negli Stati Uniti la Korean Wave si presenta, invece, come una Nouvelle Vague che conquista le giurie dei principali Festival cinematografici con autori come Park Chan-wook, regista di Old Boy, il compianto Kim Ki-duk, conosciuto per capolavori come Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (Bom-yeoleumga-eulgyeoulgeuligobom) e Ferro 3 – La casa vuota (Bin-jip); Im Kwon-taek, autore di Ebbro di donne e di pittura (Chihwaseon); Lee Chang-dong, regista di pellicole come Oasis (Oasiseu) e Poetry (Si); e soprattutto Bong Joon-ho, vincitore con Parasite di tre Premi Oscar e della Palma d’Oro a Cannes.
Goyoson x Sungermone, Goblin (indefinable), 2023, mixed media dimensions variable
Il Dark Side della Korean Wave
Nonostante le tattiche geopolitiche di Soft Power, esercitate a colpi di finanziamenti, sgravi, fiscali e facilitazioni destinate all’industria culturale per potenziare l’economia interna ed estera e che proiettano l’ologramma di una nazione prospera e avanzata, con colossi tech come Samsung, LG e Daewoo a fare da capofila, le produzioni cinematografiche e seriali della Corea del Sud trasmettono anche l’immagine di una realtà contraddittoria, stretta nella morsa delle diseguaglianze economiche generate dal capitalismo avanzato.
Film come Parasite e serie tv come Squid Game svelano, infatti, il profondo malessere di una nazione in cui il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo e dove la crisi del welfare ha prodotto fenomeni allarmanti di autolesionismo non solo tra i giovani, ma perfino tra gli anziani. Oltre ai vecchi che si tolgono la vita per non pesare sul reddito delle famiglie, ci sono ragazzi e giovani adulti che, per ragioni principalmente economiche e sociali (debito studentesco che non riescono a pagare, frustrazione generata da una scarsa mobilità sociale, fallimento finanziario e disoccupazione), cadono in depressione e decidono di farla finita. Un recente articolo pubblicato lo scorso 14 aprile 2023 dalla CNN sottolinea il dramma degli Hikikkomori coreani che ha messo in allarme anche l’attuale governo, obbligandolo a varare una misura volta al loro reinserimento sociale attraverso l’erogazione di una pensione di 650 mila won al mese che servirebbero a supportarne la stabilità emotiva e psicologica e a promuoverne la crescita e la salute. Attualmente il 3,1% dei giovani sudcoreani tra i 19 e i 39 anni, circa 338 mila persone, sono classificati come “giovani solitari con tendenze alla reclusione”. Nato in Giappone, il fenomeno degli Hikikkomori, evoluzione deteriore fenomeno degli Otaku degli anni Novanta, è divenuto la spia di un disagio che riguarda le fasce più giovani e deboli delle società capitalistiche avanzate dell’Asia. In particolare, in Corea del Sud, come spiega Dario Ronzoni in un articolo su Linkiesta pubblicato il 16 ottobre 2021, “Le disuguaglianze sociali, al centro di quasi tutti i film e le serie tv prodotte in Corea, provocano rabbia e [un] risentimento che, sostiene Byung-Chul han, viene sfogato su di sé”. Infatti, secondo il filosofo, uno dei massimi pensatori sudcoreani e docente di Teoria della Cultura all’Universität der Künste di Berlino, la depressione sarebbe il risultato delle pressanti richieste di una società ultraliberista caratterizzata dall’imperativo della prestazione. Pressioni che, però, sfociano in una sofferenza che l’individuo si auto-impone in termini masochistici.
Gimsapi, Loading.. (2), oil on canvas, 323×130 cm
L’entusiastica risposta occidentale
Il carattere pessimistico e perfino distopico di molti prodotti culturali sudcoreani non ha, però, scoraggiato l’occidente, che ha entusiasticamente accolto la Korean Wave non solo favorendo le strategie governative di Soft Power ed elargendo i massimi riconoscimenti a film, serie tv e produzioni musicali, ma anche rendendo la Corea Del Sud meta di una serie d’ingenti investimenti.
Nel solo campo dell’arte contemporanea, oltre alle numerose mostre dedicate a Dansaekhwa e a esponenti di generazioni successive – a cui vanno aggiunte le importanti esposizioni Korean Eye 2020: Creativity and Daydream (Saatchi Gallery di Londra e Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, 2020) e Hallyu! The Korean Wave, (Victoria & Albert Museum di Londra, 2022) –, estremamente significative sono le aperture di nuove sedi a Seoul di gallerie come Perrotin (la prima nel 2016, la seconda nel 2022), Various Small Fires (2019), Pace (2021), König (2021), Thaddaeus Ropac (la prima nel 2021, la seconda inaugurerà il prossimo settembre), Lehmann Maupin (2022), Gladstone (2022), Peres Projects (2023) e White Cube (2024). A fare da acceleratore c’è anche lo sbarco nel 2022 a Seoul di Frieze Art Fair al COEX Convention Art Exhibition Center nel distretto di Gangnam, in stretta collaborazione con il Kiaf, la fiera dell’associazione delle gallerie coreane. Ma non basta, perché a confermare il ruolo di nuova capitale dell’arte contemporanea assunto da Seoul contribuiscono sia la presenza in città del National Museum of Modern and Contemporary Art, del Leeum Samsung Museum of Art e del vicino dello Ho-Am Art Museum di Yongin, sia la notizia dell’apertura nel 2025 del Centre Pompidou presso la Tower 63 della Hanwha Culture Foundation, nel cuore del distretto finanziario.
Lee Sung Min, Hit hit!, acrylic, ink and color on korean traditional paper, 90×140 cm
Generazioni
Nonostante il successo di Dansaekhwa e di alcuni artisti più giovani, la conoscenza della storia e delle evoluzioni dell’arte contemporanea coreana in occidente è ancora agli inizi. Le maggiori difficoltà di comprensione riguardano le differenze espressive e linguistiche generatesi nelle diverse generazioni di artisti che si sono avvicendate dal dopoguerra in avanti. Differenze che rispecchiano le vicende politiche e sociali del paese, di cui spesso gli occidentali non conoscono la storia.
Chi ha visto la serie tv Squid Game, sa che il conflitto generazionale è una delle chiavi per comprendere la recente evoluzione di questo paese, spesso riflessa anche nelle sue vicende artistiche. Dopo Dansaekhwa e il movimento politico e artistico Minjung durante la dittatura di Chun Doo-Hwan, la generazione degli artisti nati negli anni ’70 e ’80 è quella che ha sperimentato gli effetti del boom economico. Questa “generazione di mezzo”, rappresentata da artisti comeLee Jinju, Jwa Haesun, Baek Heaven,Jang Jongwan, Sim Raejung,Lee Eunsil e molti altri, a cui la Arario Gallery di Seoul ha dedicato l’esposizione The 13th Heistation nel 2021, è stata la prima a poter viaggiare e studiare all’estero, ma ha dovuto, però, fare i conti con la mentalità tradizionalista dei loro padri, vivendo quindi il conflitto e la transizione tra due diversi mondi e modi di vivere.
Chi ha beneficiato in pieno degli effetti del boom economico, della rivoluzione digitale e dell’apertura internazionale generata dall’Hallyu è stata, invece, la generazione degli anni Novanta, oggetto di questa esposizione in quattro tempi intitolata K90-99.
Minhee-Kim, Twins, 2023, oil on canvas 130×130 cm
K90-99
La mostra, che raccoglie le opere di ventuno artisti nati tra il 1990 e il 1999, è frutto di una attenta ricognizione sul campo compiuta dalla galleria L.U.P.O. nell’estate del 2022, una sorta di inedita indagine periscopica tra gallerie, istituzioni e scuole d’arte, alla ricerca di temi, motivi e procedure che caratterizzano le produzioni pittoriche e plastiche della prima generazione davvero cosmopolita e globalista dell’arte coreana. A convincere il gallerista Massimiliano Lorenzelli e il suo staff sono stati i racconti dei protagonisti dell’esposizione, che hanno messo in luce non solo il persistere del conflitto generazionale, con tutte le difficoltà che questo comporta in termini di emancipazione e affermazione personale, ma anche il vantaggio offerto dalla facilità di relazione con la rete delle gallerie e delle istituzioni pubbliche.
La curatrice Hyun Jeoung Moon, chiamata a tirare le fila delle complesse e variegate tendenze che innervano la scena emergente dell’arte coreana, ha individuato quattro temi per altrettanti rounds espositivi.
Il primo round, Beyond Human: Exploring Cyborg Body and Technology affronta il tema dell’influsso del cyberpunk e dell’estetica post-human nei lavori di Minhee Kim, Ahyeon Ryu, Jihyoung Han, Jio Yoo e Seon Jin Jeong, che testimoniano la metabolizzazione di linguaggi visivi di matrice globale.
Miryu Yoon, Wondering How Things Change, 2023, oil on canvas, 41×27 cm each
Il secondo round, Visual Narrative: Experimenting Images Through Painting and Sculpture, fa il punto sulla natura ambigua e ubiqua delle immagini nella società contemporanea e sul loro rapporto con la realtà materiale e oggettuale attraverso lo sguardo di Miryu Yoon, Goyson, Sang So Kim, Seo YoonYi e Sungermone.
Se Eun Yu, Like a ghost on a finite space, 2023, Oil and acrylic on canvas
All’impatto della tecnologia e di internet è dedicato, invece, il terzo round, Hybrid Visions: Searching for Digital Era, in cui gli artisti Kai Oh, Gimsapi, Alex Inomuseki, Eun Yu e Seong Min Li contaminano media tradizionali come pittura, collage e fotomontaggio con i linguaggi che dominano dell’immaginario digitale, come anime, meme, emoji e glitch.
Jihyoung Han, Little Ice Age, 2022, oil and acrylic on canvas, 53×80 cm
L’ultimo round, Transcultural Fusion: K-Art as a Convergence of Multi-culture, attraverso le opere di Suyon Huh, Ji Won Han, Lee Seoung Hee, Chung Kook Lee, Eun Shil Hwang e Lee Eun, è forse quello che meglio riassume e circoscrive la specificità della giovane arte coreana. Cioè, quella di essere l’espressione plurale e multimediale dei sentimenti contradditori che animano una società consumistica dove la cultura pop si intreccia alle angosce e alle sofferenze della generazione che più ha patito le conseguenze della pandemia ed ha ancora indelebilmente impresse nella memoria le drammatiche immagini della strage di Halloween del 2022, quando nel quartiere di Itaewon, trasformato in una calca infernale, perdono la vita, calpestate a morte, 156 persone.
K90-99 è la prima mostra italiana dedicata alle tendenze della giovane arte coreana, un’arte ambigua, contaminata, bizzarra, ma anche complessa, curiosa, inattesa e terribilmente seducente.
Al centro dell’attuale dibattito sul global warming c’è il traumatico passaggio dall’antropocentrismo all’antropocene, cioè da una visione che pone l’uomo in posizione privilegiata al centro del mondo ad un’era geologica caratterizzata dalle conseguenze delle sue azioni sull’ecosistema terrestre. Conseguenze che, secondo molti, porteranno alla sesta estinzione di massa del pianeta.
Secondo lo scrittore e giornalista esperto di tecnologie James Bridle “Il cambiamento climatico è già una realtà e i suoi effetti sono visibili e pressanti sul panorama geopolitico quanto su quello geografico”[1]. Il fatto che ci siano ancora molte persone che negano la realtà dell’antropocene è una conseguenza dell’antropocene stesso, che è stato causato dall’uomo, non certo dagli scoiattoli o dai delfini. Il motivo per cui l’uomo fatica a concepire la crisi climatica come una realtà che lo riguarda direttamente è stato spiegato da Timothy Morton, scrittore e filosofo ecologista britannico che, ispirandosi alla canzone Hyper-Ballad di Björk, ha coniato il termine Iperoggetti per indicare entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo che ci avviluppano e ci collegano, ma che sono talmente grandi da sfuggire alla nostra piena comprensione. “Percepiamo gli iperoggetti”, spiega Bridle, “attraverso l’influenza che esercitano su altre cose – una calotta polare che si scioglie, un mare in agonia, lo scuotimento di scia in un volo transatlantico”[2].
Prima del compimento, 2023, acrilico su tela, 50×100 cm
Per Timothy Morton, un iperoggetto può essere un buco nero, un centro petrolifero nell’area di Lago Agrio in Equador, la riserva delle Everglades in Florida, la biosfera, il sistema solare, il cambiamento climatico oppure “il prodotto, incredibilmente longevo, della produzione umana: il polistirolo o le buste di plastica, o l’insieme di tutti i rumorosi macchinari del Capitale”[3]. Noi siamo entrati nell’epoca degli iperoggetti perché è solo da poco che ci siamo accorti della loro esistenza. In quest’ultimo scorcio di antropocene – un’era che possiamo far iniziare con le prime attività agricole nella zona della Mezzaluna fertile 11.500 anni fa – l’umanità, divenuta oramai una forza di scala geologica con i suoi 7,7 miliardi di individui, inizia a interrogarsi sull’impatto di altre forze di grande portata. “La fine del mondo”, afferma Morton, “è connessa con l’Antropocene, il riscaldamento globale e i conseguenti, drastici, cambiamenti climatici: tutti fenomeni la cui precisa portata rimane ancora poco chiara, laddove la loro realtà è assodata al di là di ogni ragionevole dubbio”[4]. Come è assodato il fatto che il vecchio concetto di natura, così come è stato fin qui interpretato, non è più funzionale allo scenario attuale. Proprio perché avvertita come una alterità, cioè come qualcosa di separato dall’umanità, la natura è stata da una parte considerata una risorsa da sfruttare, dall’altra un bene da difendere. In entrambi i casi la sua reificazione è parte del problema che ci ha condotti fino a questo punto. Timothy Morton – e con lui i filosofi della cosiddetta OOO (Ontologia Orientata agli Oggetti)[5] – pongono, infatti, gli esseri umani sullo stesso piano ontologico di non solo delle altre forme di vita, minerali, muschi e virus inclusi, ma anche degli oggetti. Secondo questa visione di una realtà non antropocentrica è possibile sviluppare una ecologia che faccia a meno del concetto di natura.
Curiosamente un artista come Pao, pur non essendo (ancora) un lettore di Morton, è giunto intuitivamente a formulare un immaginario coerente con le idee della OOO. Modificazione, mutazione, trasformazione, evoluzione sono, infatti, tutti concetti ricorrenti nella sua ricerca pittorica, popolata da strane forme di vita che sembrano il risultato di un nuovo tipo di adattamento. Nei suoi murales, come nei suoi dipinti su tela, animali, piante, funghi e perfino elementi come l’aria, l’acqua e la terra si combinano variamente per formare nuove specie ibride che appartengono a un mondo alternativo, un altrove che potrebbe benissimo essere la versione post-apocalittica del nostro pianeta, o di quel che ne resta alla fine dell’antropocene. Non solo, le sue bizzarre (e per la verità anche divertenti) metamorfosi includono imprevedibili incroci tra il regno animale e quello vegetale, ma perfino inaspettati innesti tra il mondo organico e quello inorganico.
Storia di Ciò, Cià e Cì, 2023, acrilico su tela, 70×100 cm.
In sintonia con quanto propone la moderna ontologia non antropocentrica, Pao immagina un mondo dove animali, vegetali e oggetti costituiscono organismi complessi e integrati. Così, ad esempio, in opere come Passerotto d’acqua(2023) e Il messaggero (2023), gli uccelli di vetro sono piccoli ecosistemi che includono elementi naturali come l’acqua ed artefatti umani come barchette di carta e messaggi rinchiusi in una bottiglia. Un esoscheletro vitreo, di natura oggettuale, caratterizza anche la creatura dalla forma di gufo che compare in Le farfalle nella pancia (2023), e al cui interno svolazzano, appunto, i corpi di cinque lepidotteri, oltre ai tre esseri appollaiati sul ramo in Storia di ciò, cià e cì(2023), dove quello centrale esibisce un curioso beccuccio fumante.
Nell’immaginario di Pao la fusione inter-specie è già una realtà, anzi si può dire, che il concetto stesso di specie viene definitivamente archiviato. Basti guardare ai bizzarri uccelli arborei che fioriscono, letteralmente, sui rami nei dipinti Sakura (2023), Si sta’ come d’autunno sugli alberi le foglie (2023), come pure nel grande murale intitolato Siamo tutti sullo stesso ramo (2023) recentemente inaugurato su un condominio di Quarto Oggiaro a Milano. Qui il processo di speciazione di nuove forme zoologiche e botaniche assume una connotazione felice, diventando il simbolo di una proprietà adattativa che non genera necessariamente mostri. Siamo lontani, infatti, dalle distopiche mutazioni narrate da Jeff VanderMeer nella trilogia di romanzi dell’Area X[6], che narra le vicende di un territorio anomalo, in continua espansione, dove leggi fisiche alterate trasformano gli animali e le piante, modificando perfino lo scorrere del tempo.
Quanto è profonda la tana del Bianconiglio, 2020, acrilico su tela e legno, 80×120 cm
Pao proviene da tutt’altro retroterra culturale. La sua visione del futuro è, infatti, più vicina alla sensibilità progettuale ed alla grammatica fantastica di Bruno Munari che non all’ecologia oscura di Timothy Morton e James Bridle, che analizzano le fondamenta logiche dell’attuale crisi climatica. Pao, invece, ci mostra direttamente un mondo senza uomini, dove i paesaggi assomigliano a quelli desertici dipinti da Salvador Dalì e le foreste e i prati sembrano artefatti digitali filtrati da moderni schermi OLED, come nel caso di Una luce nella notte (2020) e Prima del compimento (2023). Un mondo in cui l’artista ha immaginato – come diceva Munari – “qualcosa che già esiste ma che al momento non è tra noi”[7]. Ecco, la pittura di Pao è, allo stesso tempo, una moderna fiaba sulle evidenti fragilità del nostro ecosistema e una potente metafora sulle facoltà mutagene e rigeneranti di un ecosistema futuro che accoglierà ogni forma di ibridazione, perfino quella tra organismi e oggetti.
In questo nuovo capitolo della sua indagine, l’artista riflette non solo sui mutamenti che caratterizzano la nostra epoca – e quindi, inevitabilmente quelli climatici e ambientali che si manifestano ormai con sempre maggiore evidenza e con conseguenze talora drammatiche e catastrofiche – ma sulla natura fondamentalmente mutevole e cangiante dell’esistenza stessa. Ispirato dalla lettura dell’I Ching, Il libro dei Mutamenti, il più antico testo sapienziale della cultura cinese la cui stesura risale a circa 3000 anni fa, Pao mostra, attraverso una pletora di nuove creature dalle camaleontiche abilità adattative, che la capacità di rinascere e reinventarsi, pur in un mutato e spesso avverso contesto ambientale, è la più alta forma di saggezza ecosistemica.
Il messaggero, 2023, acrilico su tela, 70×100 cm
Perciò, se alcuni anfibi possono alterare la propria struttura e trasformarla in una sostanza gelificante (Jelly Frog, 2023), se le lucertole armadillo cingolate possono levitare nella posizione dell’uroboro (Eterno ritorno, 2023) e, infine, se alcune specie ornitologiche possono sviluppare trasparenti corpi vetrigni, è perché, almeno nel fantastico universo di Pao, le probabilità combinatorie e di collaborazione tra sostanze e organismi sono davvero infinite.
E d’altra parte, persino il concetto di “umano” sarebbe da rivedere, ammesso che in futuro ce ne sia ancora bisogno. Infatti, che cosa è umano e che cosa è non umano in un corpo letteralmente infestato da milioni di batteri che ne garantiscono la sopravvivenza? “Considerarci come ambienti infestati”, scrive lo scrittore Livio Santoro, “contenitori di moltitudini viventi che confutano le leggi moderne della soggettività – dove finisco io e dove cominciano i miei batteri? -, è per Morton un passo fondamentale verso l’ecognosi o ‘consapevolezza ecologica’: il processo di riconoscimento che ci porta a vedere umano e non-umano come parte del cosiddetto ‘reale simbiotico’ […]”[8].
Pao arriva alla medesima conclusione per via intuitiva e analogica costruendo un universo visivo che è la fabula picta di questo scorcio finale di antropocene, dove sembra aver adottato – come dice Richard Wilhelm a proposito di chi consulta dell’I Ching – “Lo sguardo di colui che ha riconosciuto il mutamento e [che] non osserva più le singole cose che gli fluiscono dinanzi, bensì l’eterna e immutabile legge operante in ogni mutamento”[9].
L’Eterno Ritorno, 2023, acrilico su tela, 100×70 cm
[1] James Bridle, Nuova era oscura, 2019, Nero edizioni, Roma, p. 67.
La nuotatrice, 2023, acrilico e olio su tela, 130x155cm
Quello di “linea” è un concetto eminentemente estetico perfino in uno sport come il surf. Come spiega lo scrittore americano Ryan McDonald, nel linguaggio del surf una “linea” è il percorso che un surfista sceglie di fare su un’onda. In pratica, è il disegno che traccia, sfrecciando sulla superficie dell’acqua, come una specie di elegante ed effimera firma personale. Una linea è anche quella immaginaria in cui le onde si frangono e dove i surfisti si posizionano, seduti sulla tavola, in attesa della prossima onda. È questo forse il momento più magico e contemplativo di una pratica che può essere variamente intesa come una semplice attività atletica, oppure come uno stile di vita assoluto, ossessivo, che influenza ogni aspetto della quotidianità, sfociando talvolta nelle manifestazioni di una cultura machista perfettamente incarnata dalla figura di “Bodhi”, il romantico villain interpretato da Patrick Swayze nel film Point Break.
Mare di vigne, 2023, acrilico su tela, 155×180 cm
Al contrario, stare seduto sulla tavola in line-up all’alba o al tramonto, come racconta Michele Redaelli, rappresenta la parte più spirituale del surf. In quell’attesa al confine tra la notte e il giorno, un individuo ha l’opportunità di entrare in contatto con la dimensione più profonda del proprio essere: “Io cerco ovviamente le onde”, confessa, infatti, l’artista, “ma prima ancora un contesto, una dimensione in cui mi possa trovare sospeso tra mare, terra e cielo e la mia anima”.
Ecco perché, nell’immaginario pittorico di Redaelli, a dominare non è mai la visione adrenalinica dei Waves Hunters, come vengono chiamati i surfisti tormentati alla ricerca dell’onda perfetta, ma piuttosto la versione lirica, incantata e crepuscolare di uno sport di solito associato al sole, alle spiagge e allo stile di vita anticonformista e spensierato della costa californiana.
Line Up, 2023, acrilico su tela, 46×34 cm
Il modo in cui l’artista tratta questi soggetti – che, è bene ricordarlo, non sono gli unici esplorati nella sua ricerca – si distingue nettamente dagli stilemi di quella che viene comunemente chiamata Surf Art. Dunque, niente onde gigantesche alla maniera di Raymond Pettibon, che reinterpreta in chiave punk La Grande Ondadi Hokusai, e niente disegni psichedelici alla Rick Griffin o grafiche lisergiche alla John Van Hamersveld. L’immaginario di Michele Redaelli è, infatti, lontanissimo dalle grammatiche visive della galassia di Lowbrow Art e Pop Surrealism. Semmai, affonda le radici in una tradizione pittorica astratta e figurativa incentrata sul colore. Una sorta di nobile discendenza novecentesca che da Henri Matisse e Raoul Dufy arriva, attraverso Milton Avery, ai pittori della Color Field Painting come Mark Rothko, Helen Frankenthaler e Morris Louis per approdare, infine, a Peter Doig e soprattutto a Katherine Bradford, la pittrice dei notturni balneari – ad esempio quelli della serie Lifeguards – a cui Redaelli è forse più affine per temperamento e sensibilità.
Eppure, nelle tele, negli acquerelli e perfino nelle incisioni di Michele Redaelli, accanto alla matrice coloristica è rintracciabile anche una vena grafica, quella che guarda da una parte alla lezione di illustratori come Saul Steinberg e Jean Jacques Sempé, entrambi copertinisti del New Yorker, dall’altra ad artisti eclettici come Philip Guston e George Condo, che hanno integrato alcuni aspetti del fumetto nel linguaggio aulico della pittura.
Passeggiata sul molo, 2023, acrilico su tela, 155×130 cm
Dunque, linea e colore formano l’ossatura dei suoi dipinti, pur stando tra loro quasi in rapporto di mutuo contrasto. Infatti, sopra un tappeto cromatico che può assumere le sembianze di un magmatico campo informale, spesso caratterizzato da impronte gestuali, Redaelli sovrascrive, quasi fossero un contrappunto, le sue scarne e sintetiche figure. Basti guardare lavori come In acqua (2022), La nuotatrice, Giorni felici (2023) oppure Il bagnino dorme sotto l’ombrellone (2022), per accorgersi che i personaggi sembrano posati sullo strato di colore del fondo come papier collé, figurine ritagliate dai contorni marcati che, però, danno volumetria, tridimensionalità e soprattutto leggibilità a dipinti che altrimenti sarebbero puramente astratti.
UFO, 2023, acrilico su tela, 142x155cm
Questi floating charachter sono, appunto, per lo più surfisti impegnati a scivolare sulla superficie dell’acqua, come si può desumere da dipinti come Area riservata ai bagnanti (2023), Mare di Vigne (2023), Mickey (2023), Planetaria (2023), Pasta fresca (2023), ma nelle tele dell’artista ci sono anche soggetti in cui il surf, passa in secondo piano e affiora, invece, una visione più poetica – o “romantica”, come direbbe l’artista – legata anche alla scoperta dei luoghi, osservati da “un punto di vista privilegiato”, cioè quello di chi può ammirare il paesaggio della terraferma dal mare.
Galattica, 2023, acrilico su tela, 135×155 cm
L’artista racconta, ad esempio, che “In Versilia, soprattutto d’inverno quando gli stabilimenti sono chiusi, sei circondato dai pini marittimi e dalla cornice delle Alpi apuane, in Liguria le montagne si tuffano direttamente in mare, a Lanzarote o Fuerteventura, dove ho vissuto, lo sguardo si perde tra terre desertiche e vulcani, in Costa Rica ad esempio galleggi ammirando la jungla, ascoltando le scimmie urlatrici, circondato da cormorani che volano a pelo d’acqua a pochi centimetri da te”. Non stupisce, quindi, ritrovare queste stesse suggestioni geografiche in quadri come Line up (2023), dove riconosciamo le scimmie urlatrici del Costa Rica; Vulcano (2023), che rimanda ai paesaggi eruttivi delle Canarie; Passeggiata sul molo (2023), dove l’allusione alla Versilia, filtrata dalla citazione di una malinconica opera di Lorenzo Viani (Passeggiata notturna sul molo, 1919), assume la forma classica del pontile, una costruzione che compare anche nel dipinto Il pontile del Forte (2023) e nell’acquarello Il pontile del Tonfano (2023) – ubicati rispettivamente a Forte dei Marmi e Marina di Pietrasanta – e poi anche nelle acqueforti e acquetinte intitolate Versilia (2023), che mostrano una tipica località balneare a ridosso delle Alpi Apuane. E tuttavia, più dei riferimenti geografici, colpiscono, gli elementi fantastici che fanno capolino nell’immaginario estatico e notturno di Redaelli.
Dall’alto, 2023, acrilico su tela, 133×157 cm
Se le figure sospese nel cielo e aggrappate alle pinne di un grande pesce volante in Dall’alto (2023) e nelle sopracitate acquetinte e acqueforti oppure il cosmico cavaliere che solca la volta notturna in Galattica (2023) fanno pensare allo Chagall più favolistico, i dischi volanti che compaiono in Planetaria (2023) e UFO (2023) strizzano l’occhio alle tavole dell’americana Esther Pearl Watson che, proprio come Redaelli, usa un linguaggio pittorico volutamente naïve, per evocare lo stupore dello sguardo infantile. Ed è proprio grazie all’adozione di questa grammatica elementare – ma in fondo maliziosamente sofisticata – che l’artista riesce a raggiungere una tensione davvero lirica. Quando, cioè, smessi i panni dell’autodidatta e dimenticato per un attimo il tema iconografico, diventa realmente un pittore, capace di penetrare la dimensione fluidificante della visione con immagini semplici ed esatte, sintetiche e precise, che sarebbero piaciute al Calvino delle Lezioni Americane.
L’attesa I, 2023, acrilico su tela, 116×153 cm
Sono quadri come L’attesa I e L’attesa II, La surfista tra i bagnanti e anche il già citato Il pontile del Forte, tutti dipinti nel 2023, quelli in cui lirismo e geometria sembrano fondersi senza soluzione di continuità in una sintesi perfetta dove gli orizzonti (quelli del titolo di questa mostra) assumono la forma di una linea retta. Quella di un pontile, di una tavola da surf o del pelo dell’acqua che segmentano l’immagine come i campi di colore in una tela di Mark Rothko. Sono particolari come questo che ti fanno capire che più che l’esperienza del surf, qui vale quella del pittore, dell’artista che saggiamente intrattiene un muto dialogo con i maestri del Novecento, senza rinunciare alla freschezza e immediatezza stilistica tipiche dell’outsider art.
All’immaginario pittorico pop surrealista americano degli anni Novanta appartiene una sottocorrente definita “Big Eye Art” che predilige la rappresentazione di personaggi ipertrofici, caratterizzati da corpi infantili e volti dagli occhi grandi che somigliano a quelli delle bambole. Si tratta di un tema iconografico, o forse dovremmo dire di uno stile, in parte ispirato ai dipinti di Margaret Keane, artista americana diventata famosa negli anni Sessanta con il nome del marito, Walter Keane, e di cui il regista Tim Burton ha raccontato la storia nel film Big Eyes (2014).
Un riferimento imprescindibile di questo genere pittorico sono le Blythe, bambole dai grandi occhi, create nel 1972 dalla designer Allison Katzman per la ditta Marvin Glass and Associates, ma quasi subito ritirate dal mercato per il loro aspetto inquietante. Le Blythe, le cui forme sono chiaramente ispirate ai dipinti di Margaret Keane, sono state rilanciate nel 1991 dalla Takara, azienda giapponese che le ha trasformate in un prodotto di culto. Attraverso l’esasperata espressività di queste Big Eyed Dolls, molte pittrici pop surrealiste come Marion Peck, Amy Sol, Kukula, Lisa Petrucci e Ana Bagayan hanno trattato i temi dell’infanzia e dell’adolescenza ambientandoli in una dimensione fantastica in bilico tra fiaba e racconto horror.
Sempre negli anni Novanta, dall’altra parte del globo, il movimento Superflat fondato da Takashi Murakami promuove un linguaggio in cui convergono l’immaginario dei manga e dei cartoni animati giapponesi, l’iconografia della pop art occidentale e la subcultura deviata degli otaku. A questa corrente aderiscono artisti che utilizzano uno stile super deformed che si propone di potenziare l’espressività dei personaggi attraverso fattezze anatomiche tipicamente infantili. Oltre a Takashi Murakami, anche Yoshitomo Nara, Aya Takano e Chiho Aoshima saccheggiano la cosiddetta estetica kawaii (l’equivalente giapponese della Cuteness), incarnata da pupazzi e giocattoli che ispirano tenerezza come Hello Kitty o Miffy, popolarissimi non solo in Giappone, ma in tutto il mondo.
Mask, 2023, oil on linen, 123×103 cm
Eppure, i paradigmi della Big Eye Art e dell’estetica Kawaii, ormai diventati luoghi comuni della cultura pop contemporanea, riguardano solo superficialmente la pittura di Rachel Hobkirk, che eredita, semmai, un profondo senso di inquietudine da tanta pittura europea del Novecento – dalla Metafisica alla Nuova oggettività, dal Surrealismo al Realismo magico. Rispetto alla nuova categoria estetica della Cuteness, sviluppatasi a partire dall’epoca vittoriana come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile, la pittura di Rachel Hobkirk è, piuttosto, il risultato di un processo di dissezione analitica del mondo infantile.
Le sue bambole e i suoi giocattoli, dipinti con uno stile insieme nitido e allucinato, sono innanzitutto oggetti transizionali che, come sosteneva il pediatra e psicologo britannico Donald Winnicot, svolgono la funzione di aiutare il bambino a distaccarsi dalla figura materna e a svilupparsi passando dall’iniziale stadio di onnipotenza soggettiva alla successiva comprensione della realtà oggettiva. Sono oggetti che, come i giocattoli e le bambole dipinti da Hobkirk (i Furby, le Barbie, i Playmobil o le Tiny Tears), accompagnano il traumatico processo evolutivo dei bambini. D’altra parte, perfino uno psicanalista come Sheldon Kopp ammetteva senza remore che “l’infanzia è un incubo”[1].
My Fragile Sweetheart, 2023, oil on linen, 200×170 cm.
Forse per questo Rachel Hobkirk ci mostra la matrice drammatica di questi giocattoli, di cui sottolinea la dirompente carica perturbante attraverso una serie di espedienti visivi di taglio cinematografico. Il primo dei quali è il Detail, usato tanto nel dipinto Crying (2023), per accentuare l’espressività sbigottita e dolente degli occhi di una bambola, quanto in Mouthing Words of Regret (2023), per mostrare, in un’altra bambola, la mimica labiale di un sentimento di rimpianto. Un altro artificio usato dall’artista è il cosiddetto split screen, molto in voga negli anni Settanta e impiegato sia in Mask (2023) che in My Fragile Sweetheart (2023), per accostare dettagli di giocattoli diversi e creare, così, una sorta di cortocircuito interpretativo non meno destabilizzante dei dettagli anatomici delle bambole. A questa categoria si può, in qualche modo, ricondurre anche un’opera come Tongue (2023), una specie di mise-en-scène del titillamento tra oggetti inanimati che è quanto di più vicino alle simulazioni erotiche nei giochi infantili. Infine, Hobkirk si serve anche della tecnica del close up, in particolare nell’opera Origin of the Female Painter (2023) dove il volto scarabocchiato a pennarello di una bambola diventa, retrospettivamente, visione profetica del destino dell’artista.
Rachel Hobkirk non celebra l’infanzia o i giochi infantili, non strizza l’occhio alla cultura pop per il solo gusto di condividere il sentimento nostalgico dell’infanzia perduta. Possiamo dire che il vero soggetto della sua pittura sia lo sguardo adulto e analitico che, nella rappresentazione di questi oggetti transizionali, individua l’origine della propria inquietudine esistenziale.
Tongue, 2023, oil on linen, 150×120 cm.
Il riferimento alla pittura del Novecento, soprattutto a quella tra le due guerre, non è casuale. L’inquietudine che sprigiona dalle bambole di Rachel Hobkirk è, infatti, simile a quella che emana dai giocattoli metafisici di Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, dai molti object trouvé surrealisti in forma di enigmatici simulacri femminili – come, ad esempio, il Retrospective Bust of a Woman di Salvador Dalì o i conturbanti manichini dell’Exposition Internationale du Surréalisme del 1938, abbigliati, tra gli altri, da Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Joan Mirò e Max Ernst – e perfino da tutta la ritrattistica del Realismo Magico che, passando da Felice Casorati ad Antonio Donghi, da Christian Schad a Otto Dix, da Ubaldo Oppi a Max Beckmann, fino Cagnaccio di San Pietro, sembra composta di una sequenza ininterrotta di volti imbambolati e stupefatti, tanto algidi e immoti da apparire artificiali.
La grammatica pittorica di Hobkirk, così nitida e cristallina, quasi chirurgica, richiama le atmosfere fredde e oggettive della pittura degli anni Venti e Trenta, ma adatta quel tipo di rigore formale alla sensibilità dell’odierna civiltà digitale. Infatti, nei suoi dipinti ad olio su tela di lino si avverte la presenza invisibile di quel particolare filtro ottico che chiamiamo “schermo”. Se i suoi dipinti mostrano inquadrature tipiche del cinema è perché la sua pittura, più che “una finestra sul mondo”, è un telo proiettivo su cui l’artista fa scorrere feticci e simulacri che incarnano non solo le sue personali ossessioni e manie, ma anche quelle di una intera generazione intenta a formulare nuovi postulati estetici. Concetti poco rassicuranti, come una specie di nuova Edgy Cuteness[2], capace di traghettare il senso di turbamento dell’Unheimlich[3]freudiano nella forma di un oggetto inanimato che simula quelle caratteristiche di vulnerabilità, tenerezza e innocenza proprie dei bambini e di alcuni cuccioli di animali.
Origin of the Female Painter, 2023, oil on linen, 120×100 cm.
[1]An Eschatological Laundry list. A Partial Register of the 927 (or was in 928?) Eternal Truths, in Sheldon Kopp, If you meet the Buddha on the Road kill him, Sheldon Press, London, 1974, p. 165-167.
[2] Il termine Edgy Cute è usato per la prima volta nel libro di Harry Saylor, Carolyn Frisch, EdgyCute: From Neo-Pop to Low Brow and Back Again, Mark Batty Publisher, 2009.
[3]Das Unheimliche è il titolo di un saggio di Sigmund Freud, pubblicato nel 1919. Freud definisce Unheimlich la sensazione di spaesamento ed estraniamento provocata da qualcosa che prima era familiare e che poi è stata estraniata dal soggetto attraverso il processo di rimozione.
English Text
To the American pop surrealist pictorial imagery of the 1990s belongs a subcurrent defined as ‘Big Eye Art’ that prefers the depiction of hypertrophic characters, characterised by childlike bodies and large-eyed faces resembling those of dolls. It is an iconographic theme, or perhaps we should say a style, partly inspired by the paintings of Margaret Keane, an American artist who became famous in the 1960s under the name of her husband, Walter Keane, and whose story was told by director Tim Burton in the film Big Eyes (2014). An inescapable reference of this pictorial genre are the Blythe dolls with big eyes, created in 1972 by designer Allison Katzman for the firm Marvin Glass and Associates, but almost immediately withdrawn from the market due to their disturbing appearance. The Blythe dolls, whose shapes were clearly inspired by Margaret Keane’s paintings, were relaunched in 1991 by Takara, a Japanese company that turned them into a cult product. Through the exasperated expressiveness of these Big Eyed Dolls, many pop surrealist painters such as Marion Peck, Amy Sol, Kukula, Lisa Petrucci and Ana Bagayan have dealt with the themes of childhood and adolescence by setting them ina fantastical dimension hovering between fairy tale and horror story.Also duringthe 1990s, on the other side of the globe, the Superflatmovement founded by Takashi Murakami promoted a language in which the imagery of Japanese manga and cartoons, the iconography of Western pop art and the deviant subculture of otaku converged. This current includes artists who use a super deformedstyle that aims to enhance the expressiveness of characters through typically childlike anatomical features. In addition to Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Aya Takano and Chiho Aoshima also plunder the so-called kawaii aesthetic(the Japanese equivalent of Cuteness), embodied by tenderness-inspiring puppets and toys such as Hello Kitty or Miffy, popular not only in Japan, but worldwide. And yet, the paradigms of Big Eye Art and Kawaii aesthetics, which have become commonplaces of contemporary pop culture, only superficially concern Rachel Hobkirk’s painting, which inherits, if anything, a profound sense of disquiet from so much 20th-century European painting – from Metaphysics to New Objectivity, from Surrealism to Magic Realism. Compared to the new aesthetic category of Cuteness, which developed from the Victorian era onwards as a consequence of the idealisation of the world of childhood, Rachel Hobkirk’s painting is, rather, the result of a process of analytical dissection of the infantile world.Her dolls and toys, painted in a style that is at once sharp and hallucinating, are above all transitional objects that, as the British paediatrician and psychologist Donald Winnicot argued, serve the function of helping the child to detach itself from the mother figure and develop from the initial stage ofsubjective omnipotence to the subsequent understanding of objective reality. They are objects that, like the toys and dolls painted by Hobkirk (the Furby, Barbie, Playmobilor Tiny Tears), accompany the traumatic developmental process of children. On the other hand, even a psychoanalyst like Sheldon Kopp admitted without hesitation that ‘childhood is a nightmare’1.
Perhaps this is why Rachel Hobkirk shows us the dramatic matrix of these toys, whose disruptive charge she emphasises through a series of cinematic visual devices. The first of which is the Detail, used both in the painting Crying (2023), to accentuate the stunned and pained expressiveness of a doll’s eyes, and in Mouthing Words of Regret (2023), to show, in another doll, the lip mimicry of a feeling of regret. Another artifice used by the artist is the so-called split screen, very much in vogue in the 1970s and employed both in Mask (2023) and in My Fragile Sweetheart (2023), to juxtapose details of different toys and thus create a sort of interpretative short-circuit no less destabilising than the anatomical details of the doll.A work such as Tongue (2023), a kind of mise-en-scène of titillation between inanimate objects that is as close as one can get to erotic simulations in childhood games, can also be traced back to this category. Finally, Hobkirk also makes use of the close-up technique, in particular in the work Origin of the Female Painter(2023) where the face scribbled in felt-tip pen of a doll becomes, in retrospect, a prophetic vision of the artist’s destiny. Rachel Hobkirk does not celebrate childhood or childish games, she does not wink at pop culture just for the sake of sharing the nostalgic feeling of lost childhood. We can say that the real subject of her painting is the adult and analytical gaze that, in the representation of these transitional objects, identifies the origin of its own existential restlessness. The reference to 20th-century painting, especially that between the two wars, is not accidental.The uneasiness emanating from Rachel Hobkirk’s dolls is, in fact, similar to that emanating from the metaphysical toys of Giorgio De Chirico and Alberto Savinio, from the many Surrealist object trouvés in the form of enigmatic female simulacra -such as, for example, Salvador Dali’s Retrospective Bust of a Woman or the perturbing mannequins of the 1938 Exposition Internationale du Surréalisme, dressed, among others, by Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Joan Mirò and Max Ernst -and even by all the portraiture of Magic Realism, which, passing from Felice Casorati to Antonio Donghi, from Christian Schad to Otto Dix, from Ubaldo Oppi to Max Beckmann, up to Cagnaccio di San Pietro, seems to consist of an uninterrupted sequence of stunned and stupefied faces, so algid and motionless as to appear artificial. Hobkirk’s pictorial grammar, so crisp and crystalline, almost surgical, recalls the cold and objective atmospheres of the painting of the 1920s and 1930s, but adapts that kind of formal rigour to the sensibility of today’s digital civilisation. Indeed, in her oil paintings on canvas, one can feel the invisible presence of that particular optical filter we call ‘screen’.If her paintings show typical cinema shots, it is because her painting, more than “a window on the world”, is a projective canvas on which the artist runs fetishes and simulacra that embody not only her personal obsessions and manias, but also those of an entire generation intent on formulating new aesthetic postulates. Not very reassuring concepts, like a kind of new Edgy Cuteness2, capable of conveying the sense of disturbance of the Freudian Unheimlich in the form of an inanimate object that simulates those characteristics of vulnerability, tenderness and innocence typical of children and certain puppies.
[1]An Eschatological Laundry list. A Partial Register of the 927 (or was in 928?) Eternal Truths, in Sheldon Kopp, If you meet the Buddha on the Road kill him, Sheldon Press, London, 1974, p. 165-167.
[2] The term Edgy Cute is first used in Harry Saylor, Carolyn Frisch, EdgyCute: From Neo-Pop to Low Brow and Back Again, Mark Batty Publisher, 2009.
[3]Das Unheimliche is the title of an essay by Sigmund Freud, published in 1919. Freud defines Unheimlichas the feeling of disorientation and estrangement caused by something that was previously familiar and then was estranged from the subject through the process of removal
Per Giorgio Griffa la pittura non è mai stata una semplice attività creativa, ma piuttosto un processo conoscitivo, qualcosa a cui l’artista partecipa per penetrare nella dimensione dell’insondabile e dell’inesprimibile. “Il punto fondamentale”, afferma, “è che le altre forme di pensiero e di azione umana non riescono a farsi strumento di conoscenza allo stesso modo della pittura, non riescono a raggiungere la stessa quota di ignoto, di inconoscibile, di sovrappiù”[1]. Considerando tale prospettiva, diventa più semplice fare a meno delle consuete etichette che sono state via via applicate alla sua indagine (Pittura analitica, Pittura Pittura o Anti-Forma). Una lettura meramente formalistica dell’arte di Griffa, pur nell’obbligato inquadramento dei rapporti che essa ha avuto con i movimenti artistici coevi e con tutta la tradizione dell’arte, ci porterebbe, infatti, fuori strada. Certamente, la sua evoluzione pittorica non è stata quella di un astrattista classico – alla Mondrian, per intenderci – che sia pervenuto all’espressione aniconica per progressive asciugature e sintesi delle forme rappresentative. Per sua stessa ammissione, Griffa non ha mai fatto una scelta tra figurativo e astratto. Il critico d’arte Paolo Fossati, che presentò la sua prima mostra personale alla galleria Martano di Torino nel 1968, sosteneva che, nella sostanza, Griffa ragionava come un artista figurativo[2]. Tant’è che, nel corso della sua carriera, più volte ha fatto riferimento a grandi maestri figurativi come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Tiepolo e Henry Matisse.
Fin dalla serie dei cosiddetti Segni primari, eseguita tra la fine degli anni Sessanta e i successivi anni Settanta, vera e propria pietra angolare della sua grammatica pittorica, Griffa ha concepito il suo apparato segnico, gestuale e materiale come il risultato di un processo di alleggerimento dell’enorme massa informazionale di cui è portatrice la tradizione della storia dell’arte. Si tratta di una procedura che, similmente al “principio di esonero” proposto da Arnold Gehlen[3], condensa il surplus di sensi, significati e simboli in una sintassi scabra, minimale, concentrata, che stringatamente “riassume”, anziché “rifare”, ciò che si è accumulato in secoli, se non in millenni, di storia.
Griffa mette a punto il suo linguaggio, come abbiamo detto, alla fine degli anni Sessanta, sviluppando una procedura operativa che ancora oggi lo caratterizza. La tela, prevalentemente grezza e senza telaio o cornice, viene stesa sul pavimento. L’artista dispone sul piano le sue tinte acriliche (oppure le tempere) diluite in acqua, evitando le colature che si produrrebbero con colori molto liquidi se la tela fosse disposta in verticale. I segni tracciati sul supporto nudo sono volutamente anonimi, elementari e di spessore variabile secondo la misura del pennello o della spugna utilizzata.
Griffa parte, sovente – ma non sempre -, tracciando segni verticali o obliqui nella parte superiore destra della tela e procede orizzontalmente, fermandosi prima di raggiungere il bordo laterale. Queste linee suggeriscono l’idea di una sequenza potenzialmente infinita. L’arista ne traccia in numero sufficiente da consentire all’osservatore di evincere l’ipotetico eccetera sotteso. Si tratta anche in questo caso di una sintesi, di un’elisione significativa. Non si può rifare l’infinito, lo si può solo suggerire.
Quel che vi è di razionale e di analitico in questo modo di operare riguarda una serie di decisioni a monte, ossia la preparazione, potremmo dire, di una sorta di set procedurale che permette all’artista di stabilire in anticipo che tipo di linea tracciare (verticale, orizzontale, obliqua con inclinazione a destra o a sinistra), di quale spessore e con quale strumento (pennello o spugna), con quale colore e quanto diluito, su quale tipo di tela (canapa, iuta, lino, cotone) spesso già segnata da lievi pieghe orizzontali e verticali, in tutto simili a quelle dei tessuti ripiegati e riposti nei cassetti degli armadi.
Una volta stabilita la procedura, inizia il processo pittorico, che Griffa interpreta come un “introdursi” all’interno del fenomeno della pittura. C’è qui l’idea di una fusione tra il soggetto e l’oggetto del dipingere, piuttosto che l’adozione di un atteggiamento analitico e distaccato. Per Griffa la pittura è appunto un’attività conoscitiva “che rifiuta la contrapposizione tra soggetto-oggetto e riconosce il mondo come un gioco di relazioni e una continua, raffinata e ininterrotta re-interpretazione della tradizione pittorica”[4].
A partire dai Segni primari e poi per tutti i cicli successivi, la sua ricerca si configura come un’incursione verso l’ignoto, o meglio verso quella parte nascosta della conoscenza a cui le scienze non hanno accesso. Per spiegare questo compito che “l’umanità ha affidato alle arti”, Griffa ricorre al mito di Orfeo:
Nella mia lettura del mito la scomparsa di Euridice non è soltanto la punizione di Orfeo per l’inosservanza del divieto di girarsi. La disobbedienza è anche il compimento di un gesto razionale tipico della scienza, la verifica. Dunque Euridice svanisce anche perché il sentiero della poesia chiede di essere percorso con un atteggiamento in cui la ragione possa convivere con gli infiniti altri aspetti che esulano dalle scienze.[5]
La pittura di Griffa, come la poesia, è una disciplina in cui l’atteggiamento razionale convive con la tensione lirica verso l’infinito e l’inconosciuto. Tale tensione si esplicita con tutta evidenza nei cicli successivi ai Segni primari e alle Contaminazioni, a partire dagli anni Ottanta, quando il rigore puritano dei primi segni viene abbandonato in favore di una grammatica formale più ricca e articolata. Non solo, infatti, i segni minimali degli anni Settanta vengono contaminati con nuovi segni dall’incedere ritmico e dal carattere esornativo (Contaminazioni), ma instaurano anche un dialogo aperto con la tradizione millenaria della pittura (Alter ego) – da Paolo Uccello a Piero Dorazio, da Tintoretto a Henri Matisse, fino a Paul Klee e Yves Klein – e con il mito classico (il primo titolo del ciclo delle Trasparenze è, infatti, Dioniso, il grande lavoro esposto alla Biennale di Venezia nel 1980).
All’inizio del nuovo decennio il linguaggio di Griffa si arricchisce ulteriormente con l’elemento delle campiture cromatiche del ciclo Segno e campo. Afferma, infatti, l’artista che “Il campo, la campitura di colore, ha una forte connotazione di energia, dunque non deve stupire che in questo mio tentativo di ripercorrere la grande tradizione della pittura sia emersa prepotente la necessità di farne uso accanto ai segni”[6]. L’accostamento tra elemento segnico e campitura cromatica è visibile in tutte le opere qui esposte del ciclo Segno e campo, come, ad esempio Campo giallo del 1988 e Campo rosso del 1989, nonché i due lavori del 1990, intitolati rispettivamente Campo rosso e campo azzurro e, di nuovo, Campo rosso. L’introduzione delle campiture cromatiche non solo completa la grammatica di Griffa, ma la apre a nuove possibilità d’interazione. “Segno e campo si alternano, si confrontano, si penetrano”, scrive l’artista, “in quel minuscolo frammento di universo”[7], che è poi lo spazio fisico e microcosmico della tela.
Quest’idea di confronto tra lemmi pittorici differenti, cominciata già nella seconda metà degli anni Settanta col ciclo delle Connessioni, caratterizza anche altri lavori degli anni Ottanta, come ad esempio Due linee rosse (1987), dove la nozione di campo cromatico è rimpiazzata da sequenze segniche di diverso spessore, separate da due rette orizzontali rosse.
Una nuova contaminazione lessicale si verifica nel decennio successivo nella serie Tre linee con arabesco, dove i segni di Griffa si arricchiscono dell’elemento curvilineo orientale, cioè appunto dell’arabesco, un “tipo di ornamentazione che sembra implicare, al di là del contesto culturale cui fa riferimento il nome (l’Arabia, l’arte islamica), l’idea di ripetizione, di ritorno circolare, di intreccio […]”[8].
Questo ciclo è caratterizzato ancora una volta da una serie di decisioni programmatiche: ogni lavoro deve contenere tre linee e un arabesco e deve recare il numero progressivo di esecuzione, che indica la sua posizione all’interno della serie, una sorta di carta d’identità, come nel caso dei dipinti qui esposti, Tre linee con arabesco 1463 del 1994 e Tre linee con arabesco 1540 del 1995. L’arabesco non solo introduce attraverso l’elemento elicoidale una valenza decorativa, allusiva a una concezione temporale ciclica che va ad affiancarsi alla concezione lineare e progressiva occidentale rappresentata dalle tre linee menzionate nel nome del ciclo, ma insinua anche un gradiente ritmico reiterativo, che evoca le sonorità salmodiche o le ripetizioni dei mantra usati come supporti alla meditazione. È un ulteriore passo in direzione del lato più nascosto e misterioso della conoscenza, quello che, come abbiamo detto, sfugge all’indagine razionale.
Il ciclo Tre linee con arabesco inaugura anche l’utilizzo del numero come elemento pittorico, che poi ritroviamo in diverse serie successive, dalle Numerazioni della seconda metà degli anni Novanta, dove i numeri indicano l’ordine in cui i vari segni e colori sono stati dipinti sulla tela, dando così un’informazione sulla progressiva costruzione della singola opera, fino alle opere del ciclo Canone aureo, in cui il numero irrazionale 1,6180339887… costituisce non solo un’allusione alla dimensione ineffabile che la pittura è incaricata di esplorare, ma anche un punto di snodo dello sviluppo di due culture contrapposte, quella esoterica e quella essoterica. “La sezione aurea”, scrive infatti l’artista, è “da una parte elemento della storia esoterica dell’uomo, e dall’altra di quella scientifica: il numero attraverso cui ricostruisco le proporzioni del mondo e in base a esse edifico templi e apro alla speculazione fisica, matematica e metafisica; il numero della magia, della creazione, della religione, dell’esoterismo, della mistica ma anche della scienza, della fisica, della geometria…”[9].
In tutta la sua opera, infatti, Griffa mostra interesse tanto per la componente scientifica ed empirica della conoscenza, quanto per quella quota d’ignoto che sfugge a ogni tentativo di misurazione. Il suo approccio, insomma, risulta sempre in equilibrio tra istanze razionali e incursioni nell’ineffabile. “Quando ho fissato le ‘Tre linee con arabesco’ o il ‘canone aureo’, queste stesse norme”, confessa l’artista, “mi hanno dato una libertà di lavoro straordinaria […] e ti rendi conto che la libertà è un margine, è un fattore tutt’altro che astratto, che si concretizza se hai una norma con cui fare i conti”[10].
Eppure, questo doppio registro, insieme razionale e lirico, scientifico e magico, sembra non trovare mai una definitiva composizione ma, semmai, raggiungere una specie di precario bilanciamento. “Impossibile giungere a una condizione definita”[11], notava giustamente Davide Silvioli in un’intervista del 2021, in cui l’artista tornava a ribadire, ancora una volta, il compito che l’umanità ha affidato alla pittura: “Al di là delle funzioni narrative, rituali, celebrative che si succedono nella storia, penso che la pittura, con le altre arti, porti sempre con sé questo suo aprire la porta sul sovrappiù tramite l’emozione, la irresistibile ricerca del bello”[12]. Basta guardare un’opera recente come Archiblu (2007) per accorgersi che, in fin dei conti, la ricerca della bellezza e la tensione verso il raggiungimento di quella “quota d’ignoto”, così spesso menzionata da Griffa, altro non sono che la conseguenza di quello che Theodor Adorno riteneva fosse il compito attuale dell’arte, ossia di introdurre il caos nell’ordine.
[1] Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Primo colloquio (11 luglio 2013), in Giulio Caresio, Martina Corniati, Roberto Mastroianni, Giorgio Griffa. Il paradosso del più nel meno, Gribaudo/Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 78, 79.
[3] Arnold Gehlen (Lipsia 1904 – Amburgo 1976) è stato un filosofo e sociologo tedesco, annoverato tra i padri fondatori dell’antropologia filosofica. A proposito del concetto di “esonero”: «Con questo termine Gehlen vuole indicare la capacità dell’uomo di creare schemi standard di comportamento, i quali una volta stabiliti “scattano” automaticamente in circostanze simili e, quindi, “esonerano” l’uomo da continue risposte agli stimoli ambientali e alle pulsioni interne. liberando così energie per ulteriori e più elaborate imprese, che coinvolgono anche le funzioni rappresentative e simboliche», in Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2001, pp. 23, 24. Citato anche in Giorgio Griffa, Il paradosso del più e del meno, Op. Cit., p. 31.
[4] Roberto Mastroianni, Quadri d’epoca e immagini del mondo, in Giulio Caresio, Martina Corniati, Roberto Mastroianni, Giorgio Griffa. Il paradosso del più nel meno, Gribaudo/Feltrinelli, Milano, 2014, p. 14.
[5] Giorgio Griffa, Undici cicli di pittura / Eleven cycles of painting, Allemandi, Torino, 2021, p. 21.
[8] Juan Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli, Adelphi, Milano, 2021, p. 95.
[9] Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Primo colloquio (11 luglio 2013), in Op. cit., p. 78.
[10] Marco Meneguzzo, Una lunga stagione. Dialogo con Giorgio Griffa, in Marco Meneguzzo (a cura di), Giorgio Griffa. Early Works 1968-1973, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2014, p. 16.
Nel suo famoso studio intitolato Arte e illusione, Ernst Gombrich ricordava che già nell’antichità classica Plinio aveva compendiato la distinzione tra realismo e illusionismo sostenendo che «la mente è il vero strumento della vista e dell’osservazione, [mentre] gli occhi agiscono come una sorta di vaso che riceve e trasmette la parte visibile della coscienza»[1]. Si tratta di una precisazione che si attaglia perfettamente alla pittura di Nicola Nannini, il cui realismo schietto, maturo, otticamente appagante non scade mai nella categoria dell’illusionismo e della pura mimesi. Tant’è che perfino uno dei suoi maggiori estensori critici, Roberto Cresti, qualche anno fa ribadiva che, nel suo caso «non si tratta più di dimostrare d’essere capace di rendere un particolare o un contesto tratto dal mondo esterno, ma di costruire l’esterno attraverso la realtà dell’interno, affinché i ruoli si scambino»[2].
Certo, la pittura di Nannini evoca la realtà con sguardo acuto, nitido, restituendoci il sapore di paesaggi, edifici e persone come quella di pochi altri pittori italiani contemporanei. Eppure, non bisogna scambiare il suo modo di “vedere” la realtà con una mera registrazione ottica. Ancora Gombrich ammoniva il lettore a non confondere il “vedere” con la “sensazione visiva” e ricordava l’importante ruolo della memoria nella pratica pittorica. A tal proposito citava, infatti, il grande paesaggista inglese John Constable, il quale sosteneva che «l’arte dà piacere con il ricordo non con l’inganno»[3].
Della pittura di Nannini – apprezzata anche per la capacità di restituire il sapore, quasi allucinato, di certi squarci realistici – è importante rilevare l’aspetto squisitamente “mentale”. Infatti, se la sua tecnica, che alcuni hanno accostato alla grande tradizione fiamminga e olandese ed altri alla Metafisica ferrarese, può corroborare l’impressione di una pittura veristica – più vera del vero -, la presenza nei suoi lavori di alcuni espedienti reiterati nel tempo – come, ad esempio, l’abitudine di lasciare abbozzati il margine inferiore e talvolta i bordi della tela, quasi per mostrare la natura fittizia della visione, oppure l’inserzione di personaggi nel paesaggio come se si trattasse di pezzi di un collage -, ci dicono che l’artista, più che al problema della mimesi illusionistica, è interessato alla rappresentazione di quel che non si può rilevare coi sensi. Non deve sorprendere, a tal proposito, se a commento del convincimento leonardesco secondo cui la pittura è un procedimento tutto mentale, qualche anno fa il compianto Alberto Agazzani notava che «non esiste e non esisterà mai un pittore che desidera fermarsi all’apparenza delle cose, soprattutto un pittore figurativo»[4].
Da pittore figurativo, Nicola Nannini ha esplorato principalmente i generi del paesaggio e del ritratto, cercando spesso di farli coincidere o, meglio, di far apparire sulla morfologia del primo, le fisionomie del secondo. I suoi dipinti più celebri sono quelli che ritraggono le piatte e silenti geografie della Padania – toponimo che non ha qui nessuna accezione politica, dato che deriva da Padus, il nome latino del fiume Po’. Sono luoghi che l’artista conosce fin dall’infanzia e che ha continuato a frequentare con gli occhi e con la memoria, fino a trasformarli in metafore di una condizione interiore di incantata sospensione.
Accadde tutto una domenica mattina, 2023, olio su tela, cm 72×102
Una presenza constante in questi paesaggi piani, fatti di distese d’erba attraversate da viottoli costeggiati da rogge, tagliati da fossi o intersecati da strade appena asfaltate, sono edifici isolati, abitazioni monofamiliari dai luccicanti infissi in alluminio anodizzato, che non emanano il fascino pittoresco delle antiche cascine, delle vecchie masserie o delle case coloniche ma che, tuttavia, mostrano la brutale schiettezza di certa architetturada geometri, insomma di quel tipo di edilizia residenziale che caratterizza gran parte dei sobborghi e delle provincie italiane. Eppure, con questo stesso materiale iconografico Nannini riesce a fare quel che David Lynch e Tim Burton hanno fatto con la visione stereotipata del sobborgo americano. E, cioè, creare una geografia simbolica dell’isolamento esistenziale che è, al tempo stesso, una topografia di memorie, ovvero di tutte quelle cose aleatorie, impalpabili e invisibili, appunto, che un vero pittore figurativo ha l’ambizione di rappresentare.
Venendo ai ritratti, presenti fin dagli esordi nei paesaggi di Nannini, non si può, ignorare come sovente essi abbiano una qualità fantasmatica, una consistenza, per così dire, evanescente. Soprattutto in alcune opere dei primi anni Duemila, dove la presenza umana si aggrega in spettrali cortei funebri che attraversano nottetempo silenziose piazze italiane o planano, da un cupo cielo parigino, sulle sponde dell’Île de la Cité. Ritratti di abitanti associati a villette a schiera e case unifamiliari caratterizzano, invece, le opere successive, ad esempio quelle della serie Houses, dove all’evanescenza si sostituisce l’effetto collage, ottenuto dipingendo i personaggi come fossero elementi isolati, che fanno da corredo al paesaggio sub o extra urbano.
Nella pittura di Nannini il genere del ritratto sembra raggiungere una completa autonomia dal paesaggio solo nella serie intitolata Type, composta di grandi figure intere a grandezza naturale che formano un analitico regesto di caratteri tipologici, ognuno dei quali è corredato da una gamma di accessori, oggetti o feticci che aiutano l’osservatore a sceverare la natura di ciascun soggetto. Eredi dei ritratti della serie Type sono le minute carte Senza titolo che costituiscono quasi una versione portatile di quel regesto, qualcosa che potrebbe stare comodamente nei comparti della duchampiana Boîte-en-Valise.
Un nuovo tipo di interpolazione tra paesaggio e ritratto è quello che caratterizza la recente produzione di Nicola Nannini, che approfondisce il dialogo tra i due generi pur continuando a riconoscere a ciascuno di essi una sorta di indipendenza. Quel che troviamo nei suoi ultimi racconti visivi sono, da una parte, soggetti già noti come cascine, caseggiati e abitazioni, immersi in una pianura che potremmo definire – per usare un’espressione di Giovanni Lindo Ferretti – “densamente spopolata”, quel genere di edifici che, insomma, sono divenuti oramai simbolo di una condizione di provincialità quasi archetipica e universale, dall’altra, una pletora di personaggi spiazzanti, geograficamente incongrui. Ci sono, infatti, accanto alle figure dei “locali”, una schiera di figure letteralmente catapultate da un altro contesto culturale, quello dell’America degli anni Cinquanta o meglio delle sue molteplici rappresentazioni cinematografiche.
Questo sorprendente accostamento all’interno delle opere di Nannini produce un effetto di alterazione della continuità spaziotemporale che, oltre ad essere il segno di una felice libertà espressiva, serve a rimarcare il carattere universale delle sue immagini, non più riferite a una precisa cultura o area geografica. Poco importa, infatti, se alle origini delle osservazioni dell’artista ci sono scorci e vedute della piana ferrarese. Quel che conta è, piuttosto, l’atmosfera stupefatta e sospesa, che potremmo trovare anche in un ipotetico altrove, sia esso collocato nelle campagne dell’Iowa o dell’Europa centrale o in una qualunque «pianura uguale a mille altre da intendersi», come dice l’artista, “come una sorta di foglio bianco su cui scrivere qualsiasi cosa reale o immaginata»[5].
Bonjour Monsieur Gauguin, 2023,olio su tela, cm 72×102
Il senso di queste anomalie è, infatti, di produrre uno spaesamento, cioè quel senso di disagio e perdita d’orientamento di chi si trova fuori del proprio ambiente abituale. Un sentimento che viene, se possibile, acuito dalla presenza di immagini “fuori posto”, ma riconoscibili come lemmi di una lingua diffusa, di una koinè occidentale che passa attraverso pellicole classiche come The Wizard of Oz – nel dipinto intitolato Bonjour Monsieur Gauguin (2023), dove i personaggi del film di Victor Fleming sono impaginati in uno spazio simile a quello di un omonimo olio su tela di Paul Gauguin – , oppure molteplici riferimenti alla fantascienza classica – con dischi volanti, invasori alieni e astronauti che invadono la bassa padana in opere come Accadde tutto una domenica mattina (2023), Defcon 2 (2023) e Lo strano caso del ragazzo che sapeva volare (2023) – usati come metafore della Guerra fredda, peraltro evocata anche nelle figure collocate nel margine destro di Nota zona di avvistamenti (2023), che fanno il verso all’estetica da Realismo socialista del primo Neo Rauch.
Le neveu aviateur, 2023, olio su tela, cm 72×102
In questo territorio, che Nannini interpreta come un foglio bianco da riempire, non ci sono solo i fantasmi del cinema, ma tutti i segnali dell’immaginario sociale e consumistico dell’American Graffiti, con le pin up e le caramelline gommose (Una rissa finita male, 2023), le automobili e le insegne al neon (Nota zona di avvistamenti) e perfino i rockabilly (Sotto bianchi cieli e Sala prove, 2023), superstiti cultori di un rock & roll che nell’Emilia degli anni Ottanta vantava ancora molti seguaci. Ma se la Padania è un foglio bianco, appunto, perché limitarsi a evocare l’America felix degli anni Cinquanta e Sessanta? Nannini introduce nella rappresentazione l’espediente dell’anomalia spazio-temporale per muoversi a piacere tra epoche e luoghi disparati. Al periodo tra le due guerre alludono sia la figura di Le Neveu aviateur (2023), asso dell’aeronautica che pare uscito dalla penna di Hugo Pratt, sia quella di Lawrence d’Arabia (Lettera al governatore della Libia, 2023), l’avventuriero che affinò il Grande gioco[6], l’attività di spionaggio dei servizi segreti e delle diplomazie occidentali in Medio Oriente e Asia Centrale. Cita, invece, la pittura veneziana del Settecento e l’Orientalismo romantico il dipinto La memoria dell’acqua (2023), un incredibile capriccio che, da un lato, confonde la morfologia fluviale della pianura lombardo-emiliana con una veduta lagunare popolata di figurine degne di Bernardo Bellotto e, dall’altro, fantastica attorno al fascino di una villa eclettica (o Liberty) che rimanda agli sfondi esotici della pittura di Alberto Pasini. Nannini concepisce evidentemente la pittura come un campo dalle infinite possibilità combinatorie e, così, dissemina le sue nuove opere di segnali e codici esogeni che hanno forme di oggetti e figure inconseguenti rispetto ai luoghi delle sue memorie. Sono apparizioni che provengono da un altrove che non è necessariamente “vissuto”, “esperito”, ma può essere anche solo pensato o immaginato. D’altronde, se c’è un segnale – come ricordava lo storico dell’arte George Kubler – il messaggio è necessariamente nel passato, anche se la sua ricezione avviene nel presente. L’altrove da cui partono questi segnali non è altro che l’attività mentale e associativa, quel coacervo di idee, impressioni, segni, tracce e visioni che l’artista dispone sempre più liberamente sulla solida impalcatura dei suoi paesaggi padani. Perfino in quei notturni, cui da lungo tempo ci ha abituati, che ora sembrano scorci di territori artici.
[1] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965, p. 17.
[2] Roberto Cresti, Attraverso la notte, in Nicola Nannini.Attraverso la notte, a cura di Roberto Cresti, catalogo mostra Centro Culturale Le Muse, Andria, 12 novembre 2017 – 31 gennaio 2018, p.19.
[4] Alberto Agazzani, La scelta di Nicola, in AA.VV., Nicola Nannini.Divertissement, a cura di Graziano Campanini, catalogo mostra Associazione Artistico Culturale Il Ponte, Pieve di Cento, Bologna, dicembre 2004 – gennaio 2005, Skira editore, Milano, 2004, p. 13.
[6] Gli storici chiamarono “Grande gioco” la contrapposizione strategica tra Impero Britannico e Russia zarista nel XIX secolo nella lotta al controllo coloniale dell’Asia centrale e del subcontinente indiano. A rendere popolare il termine fu lo scrittore britannico Ruyard Kipling nel romanzo Kim, che introduce il tema della rivalità e dell’intrigo spionistico tra potenze rivali.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.