Tag Archives: Superflat

Italian Newbrow. Genealogia culturale di un’esperienza

11 Giu

di Ivan Quaroni

Vanni Cuoghi, Under blood red sky, (La messa in scena della Pittura 02), 2019, acrilico e olio su tela, cm45x45

Italian Newbrow è un termine piuttosto curioso. Sono stato più volte rimproverato, perfino dagli artisti che hanno aderito a questo progetto, di aver scelto un nome che sarebbe risultato incomprensibile al pubblico italiano. Avevano naturalmente ragione! E la prova evidente sta nelle molteplici deformazioni che del nome sono state fatte dai giornalisti più disattenti, per non dire dislessici: Nebrown (nuovi marroni?), Newborn (neonati?), Newboh (bho!, appunto). In effetti, Newbrow è una parola inglese difficilmente traducibile nella nostra lingua, che è intimamente legata agli sviluppi di un fermento artistico di matrice americana, quella che viene chiamata Lowbrow Art, ma che è conosciuta anche con il più fortunato nome di Pop Surrealism. Il significato letterale della parola Brow è “ciglio” o “fronte”, cioè due elementi anatomici, ma il suo senso cambia notevolmente se associato ad altre parole. Lowbrow, ad esempio, si riferisce, nella cultura pop, a qualcosa che è privo di gusto, di intelligenza, di raffinatezza. Insomma, a qualcosa che è considerato intellettualmente inferiore come, talvolta, sono state considerate le produzioni plastiche e pittoriche degli artisti pop surrealisti americani che si sono ispirati a fonti triviali e corrive della cultura di massa quali il fumetto, l’illustrazione, i cartoni animati, le vecchie serie televisive, i B-movie di genere horror e fantascientifico. Il termine Pop Surrealism è stato introdotto proprio perché molti degli artisti che appartenevano a quella compagine non si riconoscevano nell’accezione negativa del termine Lowbrow, che invece era orgogliosamente rivendicato da coloro che provenivano dalle esperienze della Custom Culture, del tatuaggio o dei comic book. 

Il motivo per cui, a un certo punto, decisi di adottare questa terminologia per definire quanto stava facendo in pittura un gruppo di artisti che operava soprattutto a Milano, è molto semplice: tra il 2005 e il 2007 eravamo tutti interessati al Pop Surrealism. Anche se alcune gallerie, come la bolognese Mondo Bizzarro, avevano già fatto da apripista, era solo da qualche anno che iniziavano a filtrare attraverso la stampa notizie relative a questa nuova tendenza pop che aveva caratteristiche del tutto diverse rispetto alla Pop Art di Warhol e Lichtenstein, come pure al New Pop di Jean-Michel Basquat, Keith Haring, Ronnie Cutrone o Kenny Scharf. 

Giuliano Sale, Private Rave in my Living Room, 2021, olio su tela, cm. 130×110

L’influsso del Pop Surrealism si mescolava e si confondeva, peraltro, con quello proveniente dalle similari, ma non identiche, esperienze degli artisti giapponesi Superflat, da Takeshi Murakami a Yoshitomo Nara, da Aya Takano a Chiho Aoshima, che avevano traslato il linguaggio dei manga e degli anime nell’arte contemporanea. 

Questo riversamento magmatico d’immagini semplici e immediate, ma anche seducenti e affascinanti, aveva irretito non solo la mia attenzione, ma anche quella di amici artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Michael Rotondi, Michela Muserra, Massimo Gurnari, Giuliano Sale e Silvia Argiolas, con i quali avevo già avuto modo di collaborare in differenti occasioni espositive. Tuttavia – ne sono certo -, questa nuova sottocultura pop cominciava a fare breccia nelle menti e nei cuori di molti altri artisti sparsi nella penisola. All’interno del nucleo di artisti che in seguito avrebbero preso parte alle iniziative di Italian Newbrow, non tutti, per la verità, condividevano questa entusiastica curiosità verso le nuove tendenze Pop, che contrastavano la convenzionale coolness intellettualistica dell’arte concettuale per aprire il campo a un pubblico più vasto e variegato. Artisti come Paolo De Biasi, Eloisa Gobbo e Fulvia Mendini rimasero sempre sostanzialmente estranei a tale influsso, sebbene usassero un linguaggio pittorico che presentava molte analogie con quel tipo di influenze. Inoltre, noi tutti eravamo cresciuti nei primi anni Duemila in un clima artistico dominato dalla cosiddetta Nuova Figurazione, un raggruppamento davvero composito di esperienze artistiche che era stato alacremente sostenuto e propagandato dai critici Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga sulle pagine della rivista “Arte” e in numerose mostre in spazi pubblici e in gallerie private. Il tratto comune degli artisti neofigurativi era il ricorso a linguaggi narrativi, le cui grammatiche spaziavano dalle forme più realistiche a quelle più fantastiche e che prevedevano, talvolta, il saccheggio d’immagini d’origine mediatica (cinema e televisione) o di derivazione letteraria, fumettistica e illustrativa. 

La mostra cardine di quella frastagliata compagine fu Sui Generis, curata nel 2001 da Alessandro Riva al PAC di Milano con la precisa volontà di mostrare come la cultura di massa avesse plasmato l’immaginario di molti artisti (soprattutto pittori) nati tra gli anni Sessanta e Settanta. Posso affermare che il mio gusto si formò tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio sulla visione, talvolta anche scettica, di quel genere di arte. 

Fulvia Mendini, Madonnina della pera, 2016, acrilico su carta, cm 38 x 28

Per chi, come me, scriveva recensioni di anemiche mostre concettuali sulle pagine di “Flash Art”, la Nuova Figurazione rappresentava non solo una specie di guilty pleasure, ma una risposta diretta, per quanto scomposta e disordinata, all’atteggiamento snob di molta arte contemporanea, percepita come un’esoterica conventicola di affiliati che dialogavano tra loro e con i collezionisti in un linguaggio criptato, volutamente oscuro ed enigmatico. Si può dire che la Nuova Figurazione sia stata la prima forma di Lowbrow Art italiana, anzi, la prima effettivamente Newbrow, capace di contaminare l’alto col basso, il popolare con il colto, l’accademico con l’antiaccademico. 

Prima che nascesse la definizione Italian Newbrow, il gruppo di artisti con i quali ero entrato in contatto a Milano, aveva, dunque, un retroterra culturale che rispondeva favorevolmente ai segnali delle nuove sensibilità pop provenienti dagli Stati Uniti e dal Giappone. Tra il 2004 e il 2007, grazie all’intensificarsi delle opportunità espositive e delle occasioni di frequentazione, si crearono tra noi legami sempre più stretti, basati non tanto su un programma artistico condiviso, ma su una comune attitudine a privilegiare un’idea di arte immediata e comprensibile, contaminata dalla cultura di massa e dunque accessibile a un pubblico più ampio di quello tradizionalmente elitario del modo dell’arte. Non eravamo i primi a porci il problema dell’accessibilità dei linguaggi artistici, ma appartenevamo, forse, a una generazione che avvertiva con più ansia e trepidazione l’urgenza dei cambiamenti della società del tardo capitalismo, in particolare dopo lo shock dell’11 settembre e l’accelerazione dei fenomeni di globalizzazione economica. 

Personalmente, la lettura di Zygmunt Bauman, con la sua apocalittica, ma profetica, descrizione del Mondo liquido – una società moderna in cui i cambiamenti tecnologici e sociali sono più rapidi della nostra capacità di sopportarli -, mi aveva convinto che le uniche forme d’arte che avrebbero potuto interpretare la cataclismatica velocità di tali mutamenti, sarebbero state quelle che avessero saputo mutuare la semplicità e l’immediatezza comunicativa da altre forme espressive come il fumetto, l’illustrazione, il videogame, il cinema, la televisione e soprattutto il web. 

La riflessione sulla Google Generation, derivata forse dalla lettura di un articolo di Luca Beatrice, mi aveva definitivamente persuaso che il vecchio atteggiamento elitario, inaccessibile e astruso dell’arte contemporanea sarebbe presto caduto sotto i colpi della rivoluzione digitale. Per me e per gli artisti con i quali collaboravo la semplicità e la comprensibilità erano valori che la pittura doveva combinare con un intenso, gioioso, sfrontato e qualche volta drammatico vitalismo. 

Silvia Argiolas, La rossa, 2021, tecnica mista su tela, 80×60 cm

Nella formazione della mia sensibilità critica era anche l’unico modo per combinare il pessimismo di Bauman con la filosofia espansiva e appunto vitalistica di un nietzschiano eretico come Franco Bolelli, alla cui lettura ero stato introdotto da Paolo De Biasi, artista che ha avuto un ruolo importante nell’elaborazione teorica di Italian Newbrow. 

La necessità di dare un nome a questa nuova attitudine pittorica si scontrava, però, con la mia ritrosia a etichettare quella che ritenevo essere più una sensibilità che un linguaggio coerente e a presentarmi come guida teorica di un gruppo di artisti stilisticamente troppo variegato. D’altra parte, pur convinto che il tempo dei gruppi e dei manifesti fosse finito da un pezzo, prendevo atto del fatto che le novità più interessanti in pittura provenivano proprio da quegli artisti americani e giapponesi che erano stati capaci di “fare squadra”, proponendosi come un fronte compatto, tenuto insieme da una comune volontà nell’affrontare i problemi della rappresentazione pittorica nella società liquido-moderna.

Furono le pressioni di alcuni artisti e una circostanza fortuita a obbligarmi a decidere. L’occasione si presentò quando Giancarlo Politi visitò la mia mostra milanese Beautiful Dreamers[1], una collettiva che includeva una serie di opere di surrealisti pop americani, artisti giapponesi superflat e pittori neopop italiani. Fu allora, infatti, che il direttore e fondatore di «Flash Art» mi invitò – per la verità un po’ titubante – a curare una parte della sezione italiana della IV Biennale di Praga nel 2009, dandomi così modo di presentare le ricerche di alcuni degli artisti con cui lavoravo da tempo. 

Il nome Italian Newbrow saltò fuori, nella fretta di dover decidere un titolo per la mostra di Praga, durante una discussione con Giuseppe Veneziano e Vanni Cuoghi nello studio di quest’ultimo in via Rucellai. Mi sembrò adatto soprattutto perché univa il background italiano neofigurativo con l’eccitazione generata dal fermento Lowbrow americano. Conteneva un richiamo a quell’esperienza della West Coast americana e, allo stesso tempo, rivendicava anche il genoma fondamentalmente italiano del gruppo

Oltre alla Nuova Figurazione italiana, al Pop Surrealismo californiano e al Superflat giapponese, altri stimoli e sollecitazioni plasmarono la variegata identità artistica di Italian Newbrow: il cosiddetto New Folk newyorkese e la pittura della Nuova Scuola di Lipsia, che declinavano l’immediatezza e la forza comunicativa del Post-Pop in forme e direzioni meno convenzionali.

Laurina Paperina, Atomic Bomb, acrilico su tela, cm 120×170

Nel 2006 ricordo di aver letto un interessante articolo di Luca Vona[2] che raccontava l’emergere a New York – dopo lo shock dell’undici settembre -, di un’arte che tornava alla dimensione lirica del quotidiano, ad atmosfere più quiete e feriali ispirate all’arte folk, ai pittori autodidatti, agli artisti della domenica. Artisti come Marcel Dzama, Amy Cutler, Jules De Balincourt, Jockum Nordström, tutti di stanza a New York, dipingevano, infatti, con un linguaggio fiabesco vicino alle illustrazioni dei libri per bambini scene apparentemente rassicuranti che adombravano contenuti perturbanti. 

Questo nuovo Folk rappresentava la dimensione umbratile, lirica, intimistica, ma anche più drammatica, del Pop. Pop e Folk coglievano due aspetti dell’arte popolare, la matrice urbana e quella pastorale, quella mediatica e quella ancestrale, quella estroversa e quella intimista. Il New Folk era, insomma, la versione timida, diaristica, sognante, ma anche destabilizzante, del Pop e, perciò, all’indomani della nascita del progetto Italian Newbrow, mi era sembrato necessario aprire le fila del gruppo ad artisti come Silvia Argiolas, Elena Rapa, Marco Demis, Alice Colombo, Cristina Pancini, Diego Cinquegrana, Daniele Giunta e Mirka Pretelli che ampliavano notevolmente quella iniziale indicazione di semplicità e immediatezza della pittura dell’era liquido-moderna. 

La conoscenza diretta dell’arte folk fu un’esperienza collettiva e rivelatoria che si consumò negli anni tra il 2009 e il 2011 durante le nostre annuali visite all’Armory Show di New York. La scoperta dell’American Folk Art Museum, che allora si trovava proprio accanto al MoMA, ci rivelò le fonti d’ispirazione di quella nuova sensibilità artistica promossa, appena l’anno prima del nostro arrivo nella Grande Mela, dalla mostra Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger[3]

Henry Darger era una figura di artista outsider nato a Chicago nel 1892, che era stato l’autore di un voluminoso manoscritto di oltre quindicimila pagine e trecento illustrazioni intitolato The Realms of Unreal, scoperto solo dopo la sua morte avvenuta nel 1973. The Realms of Unreal è una storia folle che racconta le avventure delle figlie di Robert Vivian, sette sorelle principesse della nazione cristiana di Abbiennia, che partecipano a una eroica ribellione contro un regime di sfruttamento schiavistico dei bambini imposto dai generali “Glandeliniani”, una versione fascista dei soldati Confederati della Guerra Civile Americana. L’ immaginario di Darger, fiabesco e insieme disturbante, ha affascinato non solo artisti, ma anche scrittori, poeti e registi contemporanei. 

Nel 2006, due anni prima di imbattermi nella figura di Henry Darger, avevo curato una mostra intitolata Back to Folk[4], in cui erano esposte opere di Marcel Dzama, Raymond Pettibon, Vanni Cuoghi, Enrico Vezzi e Matteo Fato, che, pur con le dovute differenze, mi sembravano condividere una comune temperatura emotiva, una specie di fondo oscuro e passionale che trapelava, attraverso una delicata trama disegnativa, in immagini ambigue o sconcertanti. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, cm. 100×70

L’ultimo tassello di questa genealogia culturale di Italian Newbrow è, come ho accennato, costituito dalla curiosità verso le espressioni pittoriche provenienti dall’est Europa, o meglio, dall’area della ex DDR, cioè quella che era, prima della caduta del muro di Berlino, la Repubblica Democratico Tedesca. La cosiddetta Neue Leipziger Schule, che comprendeva una pletora di artisti che avevano studiato nell’Accademia di Belle Arti della città sassone e che emersero, come gruppo, attraverso una serie di mostre in Europa e negli Stati Uniti nei primi anni Duemila. Pittori come Neo Rauch, Matthias Weischer, Tim Eitel, David Schnell, Tilo Baumgartel e Christoph Ruckhäberle ci avevano stregato per quella combinazione di abilità tecniche e figurazione fantastica in cui sopravvivenze dell’arte del Novecento, tra Realismo Magico, Metafisica e Nuova Oggettività, si fondevano con una nuova sensibilità figurativa, capace di condensare la narrazione in una rappresentazione simultanea e sintetica di episodi visivi, spesso straniante e destabilizzante. Ad eccezione di Paolo De Biasi, il più continentale e mitteleuropeo, dunque più sensibile e attento alle evoluzioni della pittura d’oltralpe, per gli artisti Newbrow la Scuola di Lipsia fu una passione intellettuale, un esempio di come un gruppo compatto, appoggiato dai media e da una rete di gallerie, musei e istituzioni, potesse affermarsi sulla scena internazionale dell’arte. Ancora adesso, la nostra ammirazione per i colleghi tedeschi è incondizionata, ma la verità è che lo specifico genoma italiano del Newbrow ha sempre avuto la meglio sulle nostre passioni e curiosità. Nonostante le evidenti aperture globaliste, Italian Newbrow è stata un’esperienza maturata sul suolo italico, nel contesto di una cultura che guardava fuori dai propri confini geografici per ridefinire le proprie fondamenta in un complesso, spesso difficile, rapporto tra attualità e tradizione, tra identità ed extraterritorialità, tra retrospezione e visionarietà. 

L’arte di Italian Newbrow è infestata dagli spettri del passato, dai fantasmi della tradizione, ma è anche percorsa da una vena di traiettorie iperstizionali, di futuribili precognizioni[5] e di immersioni nella realtà ambigua e inafferrabile del presente. L’elemento citazionistico nei lavori di Giuseppe Veneziano, Paolo De Biasi, Vanni Cuoghi e Giuliano Sale, non assume mai il carattere sfacciato di un anacronismo necrofilo e mortuario che è, sorprendentemente, quello che un pubblico pigro e indolente, sovente straniero, associa alla nostra tradizione artistica. I riferimenti, le allusioni, i rifacimenti alla storia aurea della pittura italiana o europea sono sempre filtrati dall’ironia, alterati da una memoria labile, scomposti tra le pieghe di un linguaggio mutante, ibrido, in costante oscillazione non solo tra passato e presente, ma anche tra realtà e fiction. 

Le polarità espressive all’interno del gruppo sono, inoltre, esasperate dalla coesistenza di linguaggi chiari, intellegibili, narrativi, come quelli di Laurina Paperina, Fulvia Mendini, Vanni Cuoghi e Giuseppe Veneziano, e di grammatiche più ambigue ed elusive, come quelle di Giuliano Sale, Silvia Argiolas e Paolo De Biasi, che resistono a ogni fascinazione mediatica e sostituiscono la linearità del racconto con libere associazioni di tropi e figure. E tuttavia i confini tra i vari stilemi all’interno della compagine non sono mai definitivi. Non esiste nell’Italian Newbrow qualcosa di simile all’ala destrae all’ala sinistra della Neue Schlichkeit. Ci sono influssi pop e impulsi folk, tentazioni metafisiche e umori espressionistici, richiami alla cronaca ed evasioni fantastiche, allusioni alla musica rock e alla mass culture e richiami all’arte, alla poesia o al cinema d’autore. Per questo risulta impossibile “compartimentare” ogni singola tendenza. Se al criterio di intellegibilità pop sostituiamo, per esempio, il gradiente d’intensità espressiva gli schieramenti cambiano. Una ipotetica linea freddapotrebbe comprendere i lavori di Mendini e Veneziano, ironici, ma privi di gestualità e grumi emotivi, mentre una linea calda includerebbe le opere pur diversissime tra loro di Argiolas, Sale e Laurina Paperina, in cui l’elemento ironico s’innesta su una matrice più gestuale, magmatica, libera. Tra queste due linee, a giudicare dai recenti esiti delle loro ricerche, dovrebbe frapporsi una linea mediana, in cui rientrerebbero le sospensioni metafisiche di Cuoghi e De Biasi dai modi espressivi più temperati. Insomma, nel tentativo di definire i diversi orientamenti all’interno di Italian Newbrow, ci si trova costretti ad ammettere che è sufficiente variare il criterio per ottenere linee e tendenze ogni volta diverse. Questa varietà formale, di per sé in continuo mutamento, si è accentuata nel corso del tempo. Come è ovvio che sia, ciascun artista ha proseguito la propria ricerca, talvolta ampliando il proprio campo d’azione dalla pittura alla scultura fino all’installazione, talaltra maturando, anche in modo radicale, il proprio linguaggio visivo. Italian Newbrow non è mai stata un’entità stabile, né nella componente puramente numerica dei suoi membri, né, appunto, nelle grammatiche espressive. D’altra parte, è un’entità figlia della società preconizzata da Bauman. Come scrivevo nel 2012, Italian Newbrow “è uno scenario artistico in continua evoluzione, che incarna il mutato clima della società liquido-moderna e, allo stesso tempo, sanziona la nascita di una nuova attitudine, […] una condizione mentale, un mood emotivo e spirituale, generato dai recenti mutamenti tecnologici e culturali”[6].

A distanza di dodici anni dalla nascita del progetto, si può dire che le cose stiano ancora così, sebbene l’accelerazione dei mutamenti tecnologici sia stata più rapida del previsto. Spero che gli artisti Newbrow continuino a evolversi per comprendere il senso di questa condizione di perpetua transizione. Una condizione che, dopotutto, appartiene alla dimensione biologica della vita stessa, con le sue costanti mutazioni e trasformazioni.


NOTE

[1] Ivan Quaroni (a cura di), Beautiful Dreamers, 1° dicembre 2008 – 13 febbraio 2009, Angel Art Gallery, Milano. 

[2] “Fortemente radicato nella cultura popolare, a tal punto da evocare gli stilemi dei “pittori della domenica”, è il New Folk, tendenza di punta della nuova figurazione americana. Mescolando sapientemente cultura “alta” con elementi vicini alla sensibilità popolare, il New Folk riesce a parlare a tutti in un linguaggio di facile comprensione. Differentemente dalla Pop Art, vengono richiamate non tanto le icone della cultura di massa, quanto piuttosto la sua stessa capacità di esprimersi attraverso codici semplici, a volte banali, e di rappresentare un mondo altrettanto semplice e -apparentemente- “banale”: quello delle persone a cui si rivolge. La naiveté dei dipinti folk è un mezzo per veicolare contenuti morali (non più solo di critica verso la società dei consumi, come accadeva nella Pop Art) che celebrano l’eroismo e la bellezza della dimensione feriale dell’esistenza, delle piccole azioni di ogni giorno, contrariamente a quell’estetica dello shock che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’arte e non solo”. Luca Vona, New York, New Folk, «Exibart», 19 settembre 2006.

[3] Brook Davis Anderson (a cura di), Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger, 15 aprile – 21 settembre 2008, American Folk Art Museum, New York. 

[4] Ivan Quaroni (a cura di), Back to Folk, 1° dicembre 2006 – 3 marzo 2007, Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.

[5] Si vedano, ad esempio, le creature post-organiche fabbricate da Diego Dutto pubblicate in: Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi (MC).

[6] Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow, 11 febbraio – 25 marzo 2012, Pinacoteca civica Palazzo Volpi, Como.


INFO:

Italian Newbrow

a cura di Valerio Dehò e Ivan Quaroni

Sabato 19 giugno 2021

Ex Chiesa e Chiostri di Sant’Agostino, Pietrasanta (LU)

Pubblicità

Il mondo urbano e stralunato di Jeremyville

15 Ott

 

Architetto di formazione e collezionista per passione, Jeremyville è un illustratore, designer, fumettista e pittore tra i più prolifici al mondo. La sua creatività nasce da una vera passione per il disegno, applicato ai più svariati ambiti, dalla produzione di giocattoli, adesivi e T-shirt alla realizzazione e customizzazione di tavole da skate e sneaker, dalla  creazione di animazioni per la TV fino alla divulgazione di illustrazioni e fumetti. Senza dimenticare la pubblicazione di libri come Vinyl will kill you, il primo a documentare la scena dei Designer Toy, e Jeremyville Sessions, sulle sue collaborazioni con grandi gruppi come Adidas, Lego, Converse, Sony, Diesel, MTV, ma anche con artisti come Gary Baseman, Miss Van, Friends with you, Geoff McFetridge, Tim Biskup e centinaia di altri. Jeremyville è il fautore di un’arte totale, non relegata solo al ristretto circuito delle gallerie, ma capace di invadere la vita quotidiana in ogni sua forma. Jeremyville , allo stesso tempo, un artista, un brand e un progetto inteso ad ampliare il raggio d’azione della creatività attraverso un processo di scambi e interazioni con diverse realtà artistiche e produttive.

6a0120a7e56239970b016301d62317970d

 

INTERVISTA

Jeremy, la prima cosa che m’interessa sapere è perché hai trasformato il tuo nome in un luogo? Che cos’è Jeremyville?

L’idea di Jeremyville è di creare un luogo online per coloro che riescono a capire il concetto totale. È un luogo non limitato ad una nazione, un luogo che chiunque può visitare per sperimentare una parte di Jeremyville. Siamo uno studio che si fonda sul progetto, scegliamo di esplorare qualsiasi media catturi il nostro interesse. Ogni progetto cui il nostro studio sceglie di partecipare deve entusiasmarci e rappresentare una sfida. E vogliamo che il nostro entusiasmo si trasmetta anche al nostro pubblico, per forzare sempre più i limiti di ciò che il pubblico si aspetta da noi. Alcuni approdano a Jeremyville per collaborare, artisti , o aziende che rispettiamo. Penso che Jeremyville sia un nuovo concetto iconoclastico di studio d’arte e design per il nuovo secolo. Diciamo no a molte offerte commerciali , accettiamo solo quelle che ci entusiasmano realmente, come la creazione di Toys per Kidrobot, il design di una calzatura per Converse, uno snowboard per Rossignol, un invito dalla galleria Area B, una linea di t-shirts per 2K a Los Angeles, una mostra collettiva da Colette a Parigi. O l’invito ad unirmi alla mostra collettiva Vader all’Andy Warhol Museum di Pittsburg.

I confini nazionali sono stati abbattuti da internet, il nuovo linguaggio mondiale è fatto di icone, immagini, simboli e segni grafici. Ma anche emozione ed intimità sono universali. È per questo che ho sviluppato le mie silenziose storie a fumetti, pensando che chiunque sulla terra possa capirne la trama, non solo coloro che conoscono l’inglese. I simboli dei fumetti raccontano una storia universale, con una conclusione tanto aperta da permettere ad altri di aggiungervi la propria interpretazione. Per me sono allo stesso tempo molto personali, ed ugualmente molto universali. Questo è il fine ultimo di ogni progetto di Jeremyville : connettersi con gli altri ad un livello molto personale, ma anche raggiungere il maggior numero di persone, universalmente. Unione, anima, ed un messaggio in ciò che facciamo,è tutto.

multiculturalism-jeremy_ville_web

Una parte molto importante della tua attività di artista e designer è dedicata alla collaborazione con grandi brand, ma anche con singoli artisti. Il tuo libro Jeremyville Sessions, pubblicato da IdN, ne è una importante testimonianza. Che differenza c’è tra la collaborazione con un’azienda e quella con un artista? Quale preferisci?

Lavoriamo solo con artisti ed aziende che ammiriamo e rispettiamo. A dire il vero molto spesso rifiutiamo gentilmente proposte da realtà che pensiamo siano troppo distanti dall’estetica di Jeremyville, ma ancora più spesso, le realtà che ci interessano davvero, arrivano a noi per ciò che offriamo, sta diventando quindi sempre più semplice capire quali sono le aziende con le quali vogliamo lavorare , che realmente capiscono ciò che facciamo. E quando l’intesa è quella giusta , è fantastico, ed è un processo molto semplice. Se invece manca, il processo può diventare molto difficile. Personalmente amo lavorare sia con gli artisti che con le aziende, ognuno ha i propri parametri. Abbiamo sviluppato il progetto “sketchel custom bag “    per creare una piattaforma che coinvolgesse molti artisti. Il nostro studio collabora anche con numerose realtà a diversi livelli, animazione, illustrazione, conferenze, progetti editoriali, design d’abbigliamento o di toys.

Il mio approccio generale, grazie ai miei studi di architettura , è quello di considerare la soluzione totale, infatti , quando progetto qualcosa, non considero solo l’idea, ma anche il modo in cui l’idea si potrà manifestare nella costruzione finale, e quali cambiamenti si debbano fare durante la strada. Durante il design dei toys, il concetto iniziale può cambiare molte volte per ragioni di produzione o limiti di budget. Oggi devi essere un designer flessibile per lavorare con aziende diverse in campi diversi, dall’abbigliamento ai toys ai libri. Ecco perché mi piace collaborare con grandi marchi come Converse dove la vera sfida è mantenere l’idea iniziale più a lungo possibile, continuando a lavorare entro vincoli produttivi. Trovo questo esercizio tanto affascinante quanto parte dell’arte, come l’arte stessa.

jeremy_03a

Con la pubblicazione del libro Vinyl will kill you (a proposito a quando una nuova edizione? In Italia è introvabile) tu sei stato il primo a fare il punto sulla scena dei Designer Toys, contribuendo a far crescere l’interesse per questo fenomeno. Pensi che si possa parlare oggi di un vero e proprio movimento artistico legato alla produzione di Vinyl Toys?

Ho scritto e prodotto Vinyl Will Kill you nel 2004, con la Direzione Artistica di Megan Mair, ed è stato il primo libro al mondo sul movimento del toy design. Credo si sia cristallizzato in un movimento, è certamente un nuovo genere d’arte,  come il design di sneakers da parte degli artisti, e la sua valuta è simile a quella di un’edizione di stampe multiple in tiratura di 300 pezzi. Anche i prezzi di toys e stampe sono generalmente simili. Un’acquaforte firmata di Picasso è un’opera d’arte tanto quanto uno dei suoi dipinti , anche se molto più accessibile, ma sempre adatta ad un’asta. Questo principio generale si applica anche ai toys. Un toy firmato da uno dei tuoi artisti preferiti ha tanto valore quanto una sua stampa firmata, e merita di essere visto come una forma d’arte legittima, ed una parte dell’oeuvre dell’artista.

In tutto il mondo si stanno affermando forme d’arte dirette ad un pubblico più vasto di quello tradizionalmente interessato all’arte. Penso al Pop Surrealism americano, al Superflat giapponese, al Graffitismo e alla Street Art e, certo, anche al fenomeno dei Designer Toys. Non credi che sia in atto un salutare processo di democratizzazione dell’arte e che, contemporaneamente, nei circuiti tradizionali si stia radicalizzando l’idea di un’arte elitaria, diretta ad un pubblico ristretto e ad un collezionismo privilegiato?

Assolutamente si, e la tua citazione del Superflat è molto importante. L’anno scorso ero  alla mostra di Murakami  al MOCA di Los Angeles, ed è stato molto interessante vedere una quantità di suoi lavori “autorizzati” nelle loro nicchie illuminate , elevati quasi a degli assemblaggi di Damien Hirst , ai suoi “medicine cabinets”. I prodotti, le t-shirts di Murakami, le sue spillette, gli adesivi, i toys, erano elevati al livello di manufatti d’arte , balocchi rispetto alla sua produzione globale, ma comunque parte della totalità del suo lavoro, come il disegno per tessuti creato per LVMH. Tutti questi oggetti non erano venduti nello shop della galleria, ma facevano parte della mostra stessa, e  il tessuto di LVMH era incorniciato e venduto come opera d’arte.

É proprio questa democratizzazione dell’arte, quest’accessibilità al lavoro dell’artista per il grande pubblico, che ha sorpassato la tradizionale impostazione di galleria ed ha aperto la definizione di arte a nuove e maggiori possibilità. Duchamp lo ha fatto con i suoi readymades. Dalì lo ha fatto rendendo se stesso un’opera d’arte tanto quanto i suoi dipinti o le sue sculture. Warhol lo ha fatto con i suoi multipli , rimuovendo la mano dell’artista dall’opera d’arte. Murakami costruisce su questa tradizione. Fanno lo stesso KAWS, Sheperd Fairey, Bansky, Koons, Hirst. Questi artisti mi entusiasmano perché ognuno di loro è abbastanza coraggioso da sfidare la definizione di ciò che costituisce l’arte e di come viene rappresentata. Il recente superamento del contesto di galleria da parte di Hirst ed il suo approccio “direttamente all’asta” sono un interessante precedente.

Il mio obiettivo è di accorciare la distanza fra “prodotto” e “arte”, e di infondere in ogni oggetto che creo , sia esso un toy o un dipinto, lo stesso livello di pensiero ed attenzione al dettaglio ed al messaggio. Una t-shirt o un toy sono per me un “multiplo” come lo sono una stampa o un’acquaforte, ed altrettanto parte della produzione dell’artista quanto lo è un grande dipinto. È un momento entusiasmante della ridefinizione di cosa costituisce arte.

UpperWestSide

Jeremyville è a tutti gli effetti un’azienda. Mi spieghi com’è strutturata?

Siamo uno studio di design operativo, abbiamo una divisione per i prodotti con agenti a Los Angeles , New York ed in Europa.  Portiamo inoltre avanti i nostri progetti , i dipinti, le animazioni, i toys, il progetto “sketchel custom bag”, le storie a fumetti, l’abbigliamento per il nostro store online, così come progetti commissionati direttamente dalle aziende . Partecipiamo solo ai progetti che catturano il nostro interesse e che possiamo portare a termine con grande creatività e professionalmente. Il nucleo principale dello studio è composto da Neil, Megan e me, lavoriamo con molti designers e fornitori, su  progetti specifici presso il nostro studio , sia presso le loro sedi. Siamo uno studio molto flessibile, io e Megan lavoriamo normalmente dal nostro studio a New York, e con i nostri portatili siamo pienamente operativi tre ore dopo l’atterraggio aereo. Disegno molto quando volo, non si perde tempo durante il viaggio.

Kiehl'sxJeremyville

Parliamo nello specifico del tuo lavoro. Com’è nato il tuo linguaggio artistico? Intendo dire lo stile inconfondibile di Jeremyville?

Disegno ogni giorno ed ogni notte. Cerco di inventare una nuova iconografia, nuovi personaggi ed espressioni e storie. Facendo questo il tuo stile naturale evolve e diventa una parte di te, un vero specchio delle tue idee. È l’unico modo che conosco, non esiste una soluzione facile nello sviluppo di un nuovo stile. Ci vuole tempo e per me va bene così. Trovo affascinante il viaggio per approdare ad uno stile, perché a volte disegni un volto in un certo modo, o dei capelli, e sai subito che è solo la prima di molte volte in cui lo disegnerai così, perchè è nuovo, e giusto.

Quella sensazione di novità e di giustezza è ciò che cerco quando disegno, è quella connessione con qualcosa dentro di te, con quella sorta di verità che sta al di sopra di quello che sei. Sento che anche gli altri vi si possono identificare creando quella connessione. Il legame con il pubblico è tutto per me, senza opinione e senza connessioni, il processo dell’arte è alquanto vuoto.  Per questo mi piace parlare con le persone che amano il mio lavoro, su Facebook (4.500 amici) , o su Myspace (15.000 amici) , è quell’ “intimità universale” che sta al centro di ciò che cerco di fare con il mio lavoro, ed internet è il modo migliore per divulgare la mia arte. Penso che la mia arte sia parte del nostro tempo, penso parli un linguaggio capace di connettere fra loro molte persone. Non è un caso, questo è sempre stato uno degli obiettivi da raggiungere con la mia arte. Ero un bambino molto solitario, non avevo amici e non giocavo con nessuno, ora mi sto rifacendo su Facebook! Gli amici di internet sono i migliori! Certo ho un gruppo di amici adulti, da piccolo non ne avevo, ma non mi sono mai sentito solo. Disegnavo, giocavo con i Lego, facevo modellini di aeroplani, giocavo con i Puffi, guardavo un sacco di TV e cartoni! Ero sempre occupato e non mi annoiavo mai. Ricordo che ad ogni inizio di vacanza scolastica preparavo una lista di cose da fare, come costruire 4 modellini , creare un personaggio animato o costruire un trenino magnetico. Mi sono ricordato solo ora queste cose, mentre scrivo , lo avevo completamente dimenticato. Ancora oggi ogni settimana stilo una lista con quello che farò, dopo uno sguardo più attento direi che quell’abitudine che avevo ad 8 anni  mi stava preparando alle attività “project based” che faccio ora.

In un intervista hai detto: “Un coniglio carino in un trip acido paranoico probabilmente riassume bene il mio stile artistico” (NdR: “A cute rabbit on a paranoid acid trip probably sums up my art style”). Quanto è importante nel tuo lavoro  l’influsso della cultura psichedelica?

Adoro gli anni sessanta. Adoro l’idea di un hippy. Penso di avere dentro di me un hippy che vuole uscire. Ogni tanto provo a farmi crescere la barba ma i miei amici mi fanno notare che è tempo di radermi! Mi relaziono molto con l’era di Robert Crumb, dell’arte psichedelica di Martin Sharp,  dei posters rock e degli  inchiostri  fluo su sfondo nero. L’idea che l’arte potrebbe cambiare il mondo , o almeno liberarti la mente per un attimo. Quando disegno, svuoto la mente e lascio che la penna prenda la sua strada sulla pagina, non uso prima la matita, disegno direttamente sulla pagina ed uso i colori direttamente sulla tela. Spero che questo senso di liberazione che io sento con la mia arte si trasmetta allo spettatore, e che anche lui possa sperimentarlo. Voglio tornare indietro ad un livello molto personale, disegnato a mano, individuale, ma anche radicato nel contesto storico, per avere un senso di familiarità con chi guarda, come se un cartone della Disney fosse esploso sulla sua faccia.

www.flickr.com__6163059379_290ae939cd_b

Nel tuo stile c’è una contraddizione tra l’aspetto carino e positivo dei tuoi personaggi e una narrazione dai contenuti talvolta “crudi”. Credi che si tratti di una compensazione tra le forze positive e negative della tua personalità a far si che il tuo lavoro non possa essere descritto come semplicemente “fiabesco”?

La vita è fatta di contraddizioni ed opposti, ed ognuno di essi è bellissimo per me, non solo quello carino e grazioso. La morte può essere bellissima, così come il dolore e la perdita. Tutto è parte della condizione umana. Cerco di lottare con ogni aspetto dell’umanità nel mio lavoro. Così un bel coniglietto può piangere,  una ragazza può abbracciare dolcemente un mostro, è questa la dualità che cerco di catturare, perché la vita non è semplice ne’  logica, la tristezza si mischia all’amore in un istante, e  puoi sentire la malinconia in una giornata stupenda. Amo questa complessa stratificazione della vita.

Ho notato che nei tuoi fumetti c’è spesso una narrazione circolare… insomma, come se l’universo trovasse ogni volta un modo per ristabilire l’equilibrio.

Ottima osservazione, voglio anche che la storia sia quasi senza fine, come un sogno ricorrente, o una canzone che ascolti continuamente fino a quando non vi trovi qualcosa di nuovo : una nuance, una cambio di nota, un nuovo significato nelle parole. Voglio che i miei fumetti siano essenziali , stilisticamente, molto vuoti, ma anche molto ricchi e complessi in un senso narrativo. Abbastanza essenziali da permettere a chi guarda di reclamare il proprio senso narrativo, di riempire i vuoti, di farlo proprio.

La natura ciclica dei fumetti allude anche al fatto che nonostante le cose vadano bene o male, esiste sempre quell’equilibrio universale che trova la giusta misura e fa evolvere le cose. Inoltre, non importa quanto lungo ed accidentato sia il tuo viaggio nel fumetto, troverai sempre la strada di casa o la strada per una qualche conclusione universale, e per la verità. La tua osservazione è perfetta, mi piace che tu abbia colto questo dai miei fumetti, grazie, significa molto per me.

La natura e la città sono gli scenari in cui ambienti le tue brevi e fulminee narrazioni, che spesso toccano tematiche ecologiche. Credi che sia possibile fare politica attraverso l’arte in un modo che non ha nulla a che vedere con gli schieramenti politici?

Si, credo che la mia arte sia molto politica, ma non in un senso scontato. Si tratta più della politica dell’amore, della nostra relazione con la natura e fra noi. Ho sempre voluto che i miei fumetti potessero essere letti fra 200 anni ed essere ancora capaci di far riflettere e toccare le persone. Ecco perché non disegno fumetti d’attualità ed ho scelto di eliminare la lingua inglese, tranne che per i titoli, come “The End” o “The Flower”, che non vanno necessariamente letti per capire la storia raccontata. Voglio che siano piccole vignette della condizione umana, davanti a me ho altre migliaia di fumetti da disegnare, perché la condizione umana è infinita, ma il mio tempo sulla terra non lo è. Cerco di disegnare almeno un fumetto alla settimana, ne ho già molti pronti ma ancora da scansionare e colorare, altri sono solo schizzi , altri ancora solo parole.

Quando disegno un fumetto, penso ad uno stato d’animo, ad un’emozione, e cerco di esprimerla attraverso la narrativa ed uno stile riduttivo lasciandone aperta la fine, così che il lettore possa aggiungere i suoi ingredienti, le sue esperienze di vita, per dare ulteriore risalto alla storia. I personaggi sono spesso solo forme semplici, con solo un sopracciglio incurvato a suggerire preoccupazione, o un occhio chiuso per esprimere malinconia o introspezione. La loro forma non conta, e nemmeno il loro nome, mentre la storia che stanno veicolando è tutto.

La tua arte appare su ogni genere di oggetto, dalla tela ai toys, dalle borse alle T-shirt, fino agli skateboard e alle chitarre e, inoltre pubblichi libri, realizzi animazioni per la televisione, stampi serigrafie e disegni fumetti. Quali sono gli ambiti nei quali vorresti lavorare in futuro?

Quest’anno ho dipinto molto di più. Ho iniziato a dipingere a 17 anni, era la mia principale forma d’arte mentre studiavo architettura all’Università di  Sydney. Ora sono molto più concentrato sul mio stile pittorico, alcuni pezzi saranno rivelati durante questa mostra ad Area B, altri in molte collettive in programma quest’anno. Penso di aver raggiunto ora uno stile unico, chiamo i miei dipinti “Acid Pop” , sono psichedelici, paesaggi di sogno della condizione umana, pervasi da un lucido liquido ambrato che si indurisce per  tenere dentro il pensiero e preservarlo nel tempo. Come gli insetti antichi intrappolati nell’ambra di alberi  preistorici, sono vignette di un momento dimenticato ma fondamentale.

IMG_4638

Pensando a come è strutturata non solo la tua attività, ma anche quella di Takashi Murakami con la sua Kaikai Kiki, mi chiedo se il futuro dell’artista globale sia quello di diventare un’azienda. Che ne pensi?

Penso tu abbia ragione, ma naturalmente spetta ad ogni artista scegliere il proprio percorso. Il bello dell’arte è che può essere reinventata. Credo sia dovere degli artisti reinventarsi continuamente, mettersi alla prova, pur mantenendo un forte senso di ciò che sono, come artisti. L’idea di un’azienda è per me solo uno strumento con cui realizzare delle cose, non è un mezzo fine a se stesso. Dovrebbe sempre servire un proposito più grande, facilitare la diffusione dell’arte e delle idee. Quando ti trovi preso dai meccanismi amministrativi di un’azienda, dimentichi la ragione per cui l’hai creata originariamente. Tempo fa nel nostro studio lavoravano molte più persone, ma ci siamo ora organizzati all’essenziale per gestire tutto. Mi ero accorto che stavo diventando un datore di lavoro, invece di creare. Ho perso molto tempo così. Ci siamo ora strutturati in modo da massimizzare il mio tempo per creare, e minimizzare il tempo dedicato all’amministrazione. C’è un giusto equilibrio. Penso comunque di aver bisogno di una struttura aziendale che mi supporti per fare il mio lavoro al meglio, per me è liberatorio, offre alla mia arte infinite possibilità di evoluzione.

Quali sono i tuoi progetti?

Cerco di mantenere il segreto sulle mie iniziative finché  non diventano pubbliche, ma ora sto lavorando su diversi grandi progetti, molto diversi da ciò che ho già fatto e molto impegnativi per me,e per il nostro studio. Penso sia uno dei miei lavori migliori e, se riuscirà come spero, sarà un progetto davvero speciale.

Whimsical. Primo approccio al Pop Surrealism

25 Set

Ripubblico qui il mio testo per la quarta edizione di ALLARMI (2008). Qualcuno ricorderà che si trattava di una grande mostra nelle sale della Caserma De Cristoforis di Como, a cui partecipavano artisti, gallerie e naturalmente curatori. In quel 2008, pubblicavo “Whimsical”, un testo che prendeva le mosse dai fenomeni del Pop Surrealism e della Lowbrow Art, per introdurre un panorama di giovani artisti italiani, che si muovevano, anche inconsapevolmente, in una direzione affine a quella americana. Oggi molte cose sono cambiate. Gli artisti sono maturati e troverete sorprendente la loro evoluzione, guardando le immagini qui sotto. Altri sono rimasti coerenti con lo stile di allora (ben cinque anni fa) e hanno fatto una discreta carriera. Qualcuno si è immerso in un sotterraneo silenzio. Così, come succede sempre. Prendetelo come un documento curioso e interessante di un periodo.

Ecco testo e immagini:

Whimsical

di Ivan Quaroni

Prima

La civiltà, la cultura e l’arte hanno posseduto nel corso dei secoli due volti, speculari e opposti, emblematicamente cristallizzati nella raffigurazione dello Janus latino. La luce, principio organico e vitalistico che infonde linfa alle epopee eroiche e alle celebrazioni solari delle età auree di ogni tradizione e l’ombra, principio orgiastico, corrente ctonia dei misteri, bacino in cui germinano le sementi del basso e del bestiale, del proibito e del peccaminoso, del contrario e del capovolto. Il Tempo ha accolto i due aspetti con la ritmica delle oscillazioni pendolari, secondo cicli di crescita e di decadimento organico.

Weirdo Deluxe

Weirdo Deluxe

Nell’arte, l’avvicendarsi dei due aspetti si è sovente tradotto sul piano formale con l’alternanza tra classicismi e anticlassicismi, tra iconografie razionali e mitologie moralizzate da un lato, ed espressioni ibride, demoniche o primitive dall’altro. La meccanica è la seguente: una forza sopravanza quando le energie dell’altra sono in via di esaurimento. Così, fisiologicamente, nessun ordine, per quanto stabile, equilibrato e razionale, può resistere all’ineluttabile destino di decadimento. La resistenza è presto vinta dalle forze oscure, che premono ai confini del regno luminoso. “Quando questa stabilità viene alterata, quando le metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l’immaginazione”, scrive lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis, “ecco che ritroviamo il mostro e la bestia…”.[1] Gli esempi nella storia dell’arte sono numerosi. Le mostruose teste con zampe animali, i volti bifronti, gli ibridi zoomorfi oppure le chimere e le altre bestie fantastiche della glittica greco-romana migrano negli infernali capitelli dell’architettura romanica e nelle demoniache raffigurazioni dei grilli gotici, passando poi alle bizzarre figure delle grottesche rinascimentali, ai bizzosi capricci barocchi, culminando, infine, nei più oscuri incubi del romanticismo simbolista e decadente.

Adesso, altrove

Il bizzarro, il deforme, il capriccioso, il grottesco, il mostruoso, l’ibrido, l’irrazionale influenzano in larga misura tutta la produzione pop contemporanea. In termini artistici, tale produzione include un territorio che ingloba un’ampia varietà di generi e sottogeneri iconografici provenienti per lo più dalla contaminazione tra l’arte tradizionale e alcune manifestazioni della cultura di massa. Due sono le espressioni paradigmatiche, sebbene non esclusive, del nuovo genoma pop, quella giapponese, che può essere riassunta nell’esperienza del movimento Superflat di Takashi Murakami e Yoshitomo Nara, incarnazioni rispettivamente dell’anima algida ed emotiva del Poku[2] nipponico. L’altra è la cosiddetta Lowbrow Art, indicata anche col più gradito termine di Pop Surrealism, in cui, per la verità, confluiscono influenze iconografiche molteplici e talora opposte.

Superflat

Superflat

È questa, infatti, una scena artistica cangiante e proteiforme, che accoglie al suo interno suggestioni provenienti dai mondi del tatoo, del surf, dello skate, delle hot rod, dei fumetti, dei cartoni animati, dell’illustrazione, della grafica punk, della poster art, del writing, della tiki culture[3]e dell’advertising d’annata. Entrambi i paradigmi, ossia la galassia pop surrealista occidentale e il mondo superflat orientale, incarnano, con le dovute differenze culturali e stilistiche, forme di figurazione fantastica in cui all’aderenza mimetica tipica dei realismi si sostituisce una tendenza morbosa verso la deformazione e l’ibridazione anatomica e oggettuale.

Ana Bagayan, Butterfly House, stampa giclée, 28x36 cm.

Ana Bagayan, Butterfly House, stampa giclée, 28×36 cm.

Un senso opprimente di orrore e di raccapriccio, d’inquietudine sottesa o palesemente esibita, serpeggia nelle opere di Mark Ryden, Todd Schorr, Marion Peck, Camille Rose Garcia, Elizabeth McGrath, Ana Bagayan, che controbilanciano l’impatto urticante delle loro rappresentazioni con uno stile dettagliato e prezioso, sovente memore della lezione fiamminga. Più affine allo spirito della deformazione grottesca è invece il linguaggio di Big Daddy Roth, Von Franco, Robert Williams e The Pizz, in cui il senso dell’orrido è svuotato d’implicazioni psicologiche a favore di una semplificazione ironica dell’immaginario pop degli hotrodder[4] americani.

Nella cultura pop del contemporaneo Sol Levante, l’orrido e il metamorfico sono inevitabilmente legati al trauma collettivo post-atomico, che ha segnato profondamente, talora con implicazioni drammatiche, l’immaginario del paese. Tuttavia, la cultura visiva giapponese, già storicamente avvezza alle pratiche della deformazione e dell’esasperazione nell’ambito della rappresentazione anatomica (si veda tutta la tradizione erotica degli Shunga e quella dei grandi maestri xilografi come Utamaro, Hiroshige e Hokusai ), ha potenziato questa tendenza nell’evoluzione contemporanea del genere dei manga e degli anime (cartoni animati). In quest’ambito si è andato, infatti, affermando il cosiddetto stile super deformed, un disegno di tipo caricaturale in cui i personaggi assumono le proporzioni anatomiche dei neonati: testa grande, occhi enormi, corpo goffo, ma con forme e lineamenti tondeggianti. Artisti come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Mr., Aya Takano, Chiho Aoshima e molti altri di area superflat, hanno ereditato lo stile ipertrofico e piatto dei mangaka[5]. I personaggi delle loro opere, quando non sono una citazione diretta di quelli disegnati da maestri del calibro di Hayao Miyazaki[6] – ad esempio la Heidi dipinta da Mr. – ne ricalcano comunque lo stile, come nel caso delle sculture My Lonesome Cowboy (1999) e Milk (1998) di Murakami, dove i personaggi hanno organi sessuali esageratamente sproporzionati, sul genere di quelli dei manga hentai.[7] In Yoshitomo Nara, artista stilisticamente meno legato allo stile flat, prevale un tipo di deformazione anatomica e di ibridazione antropo-zoomorfa in cui è dato scorgere l’influsso della cosiddetta cuteness. Il termine deriva dall’aggettivo inglese cute, che indica tutto ciò che è grazioso, carino, tenero.

Il significato attuale si è sviluppato in epoca vittoriana, come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile ed è diventato recentemente un concetto estetico. Cute può essere un bambino, un animale (pet) o anche un oggetto che possiede le caratteristiche di piccolezza, vulnerabilità, incompiutezza, ma anche difformità. Una cosa animata o inanimata è cute se possiede una natura tenera e inferiore, al contempo mostruosa e commuovente, caratteristiche tipiche di gran parte dei personaggi dell’universo manga. In Giappone, il cute o kawai (di cui Hello Kitty[8] e i Pokémon[9] sono la perfetta incarnazione) è diventato un aspetto importante della cultura popolare. Molte aziende e perfino molte istituzioni governative hanno adottato mascotte cute per presentare prodotti e servizi al pubblico. La Nippon Airways possiede tre jet decorati con l’effige di Pikachu[10], mentre la Asahi Bank ha adottato l’immagine di Miffy[11]. Le poste giapponesi hanno inventato un personaggio, Yu-Pack, che è una sorta di casella postale stilizzata e ognuna delle 47 prefetture del paese possiede un personaggio kawai. Gli artisti del movimento Superflat, dunque, non hanno fatto altro che metabolizzare concetti estetici già ampiamente diffusi nella cultura di massa giapponese.

Adesso, qui

Ogniqualvolta ci si trova a trattare argomenti per i quali non esiste una letteratura di lungo corso, come nel caso del Pop contemporaneo che, come ho più volte ribadito ha un legame alquanto labile con la Pop Art storica, ci si imbatte inevitabilmente in una pletora di termini e neologismi, come i già citati poku, otaku, cute, kawai, hot rod, kustom, tiki, che servono a indicare e quindi spiegare le espressioni di nuove tipologie e categorie estetiche. Alla lista bisognerebbe aggiungere anche l’aggettivo anglosassone whimsical, che significa capriccioso, bizzarro, stravagante, strano, eccentrico e che viene spesso applicato a dipinti e illustrazioni in cui prevalgono atmosfere rarefatte e misteriose o ambientazioni folk e favolistiche. Come tutti i termini che definiscono una categoria estetica, whimsical si presta a molteplici interpretazioni, tanto che sotto il suo ombrello sono spesso raccolte espressioni stilisticamente opposte.

Vanni Cuoghi, La Giostra della memoria, acrilico su tela, 120x120 cm, 2008.

Vanni Cuoghi, La Giostra della memoria, acrilico su tela, 120×120 cm, 2008.

Nell’alveo delle germinazioni pop italiane, sono molti gli artisti che potrebbero essere ascritti alla categoria del whimsical. Primo tra tutti, Vanni Cuoghi, che ha fatto della bizzarria l’elemento cardine della sua ricerca, sospesa tra inclinazioni folk e pulsioni pop. Figlio esemplare della cultura postmoderna, l’artista ha inventato uno stile pittorico in cui il passato vivifica il presente attraverso l’innesto delle stilizzazioni di stampo illustrativo su temi e motivi iconografici della tradizione storico-artistica. Nonostante lo stile serafico, peraltro accentuato dal candore latteo dei fondali, la pittura di Cuoghi frequenta abitualmente i territori del grottesco e del capriccioso, offrendo allo spettatore una visione cinica e niente affatto edulcorata dell’infanzia. Tutto ruota sul contrasto tra bellezza e orrore, tra commedia e tragedia, in un’equilibrata miscela di classicismi e popismi che ben si presta alla trasposizione in chiave simbolica e fantastica delle inquietudini contemporanee.

Silvia Argiolas, Senza titolo, 80X100cm., 2008

Silvia Argiolas, Senza titolo, 80X100cm., 2008

Whimsical sono anche le atmosfere evocate dalla pittura di Silvia Argiolas, che ritrae bimbe dagli occhi grandi sullo sfondo d’inquietanti scenari campestri e boschivi. In questi ritratti, influenzati tanto dallo stile super deformed quanto dall’estetica kawai, giocano un ruolo di co-protagonisti i nugoli di coniglietti mutanti, d’insetti ronzanti e minacciosi uccelli notturni, che formano una sorta di bestiario immaginifico e surreale. Con il suo stile gotico-folk, anche l’artista sarda dipana il racconto di un’infanzia ferita e bistrattata, cui non resta che il conforto dei paradisi artificiali offerti dalle droghe e dagli psicofarmaci. Argiolas adotta, quindi, gli stilemi formali della cuteness piegandoli però alle esigenze di una rappresentazione critica della società contemporanea.

Sarah Geraci, Pemba, terracotta policroma, 53X45X40 cm., 2008

Sarah Geraci, Pemba, terracotta policroma, 53X45X40 cm., 2008

All’immaginario dei manga e degli anime nipponici sono evidentemente ispirate le sculture in terracotta policroma di Sarah Geraci, che riproducono con pallide tonalità opalescenti gli abitanti di un immaginario mondo sommerso, a metà tra mito atlantideo e microcosmo disneyano. Occhi smisuratamente grandi ed espressioni da cartone animato, i personaggi della Geraci sono un perfetto esempio di adattamento occidentale dell’estetica kawai.

bassa

Thief in the Night, stampa silkscreen su carta da archivio invecchiata e bruciata a mano, 38x58cm, edizione limitata, P.A.

Lo stesso si potrebbe dire dei personaggi raffigurati nelle due stampe di Elizabeth McGrath, se non fosse per la prossimità con lo stile grafico di Tim Burton[12]. Nata nel 1971 a Hollywood, l’artista lavora principalmente nel campo della scultura e dell’animazione, rappresentando il lato oscuro della vita, tanto da meritarsi l’appellativo di Liz “Bloodbath” McGrath (Liz “bagno di sangue” McGrath). Nei suoi disegni si fondono gli influssi dell’iconografia cattolica, dell’immaginario carnevalesco e dell’estetica punk. La McGrath ha iniziato la sua carriera disegnando la fanzine Censor this ed è diventata, in seguito – oltre che la lead vocalist della band denominata Miss Derringer – una delle voci più originali della scena lowbrow californiana. Insieme a Camille Rose Garcia, l’artista rappresenta, infatti, l’anima più gotica (e critica) della compagine pop surrealista.

Giuliano Sale, Senza titolo, olio su tela, 30X30 cm., 2008

Giuliano Sale, Senza titolo, olio su tela, 30X30 cm., 2008

Connotata da una visione distopica e decadente è la ritrattistica di Giuliano Sale, in cui le suggestioni derivate dalla pittura simbolista assumono le tinte ancor più fosche dell’immaginario gotico dei batavers[13]. Sale dipinge, infatti, personaggi chimerici e perturbanti, creature perniciose che hanno perduto l’innocenza ed ora offrono un’immagine rovesciata e blasfema dell’infanzia, che è, anche in questo caso, il tema iconografico dominante. Quella del pittore sardo si profila come un’indagine sul lato tenebroso della psiche, metaforicamente rappresentata da identità fisiognomiche e anatomiche marcatamente connotate da disturbanti ipertrofie.

Elena Rapa, Lucilla Testagrossa in altalena, 2008

Elena Rapa, Lucilla Testagrossa in altalena, 2008

Similmente, Elena Rapa ricorre alla deformazione anatomica per caratterizzare i suoi personaggi, figli di un suggestivo incrocio tra l’universo immaginifico delle fiabe per bambini e quello antagonista del fumetto underground. La fanciullezza è, infatti, al centro anche della ricerca dell’artista marchigiana, che inventa una pletora di creature ibride, come Lucilla Testagrossa (dal corpo di bimba e dalla testa di palla) o gli esserini vagamente zoomorfi che popolano alcune delle serigrafie in bianco e nero qui esposte. Nell’ambito italiano, il linguaggio di Elena Rapa, artista capace di spaziare dalla pittura al disegno, dalla scultura al fumetto, è forse tra i più affini alle sperimentazioni di marca lowbrow, sebbene conservi, soprattutto nella sua declinazione pittorica, un carattere e un impianto cromatico tipicamente marchigiano.

Paola Sala, Senza titolo, olio su tela, 90x90 cm, 2007

Paola Sala, Senza titolo, olio su tela, 90×90 cm, 2007

Uno stile influenzato dall’arte germanica e fiamminga del Quattrocento è quello elaborato da Paola Sala, la cui pittura è caratterizzata tanto dalle ipertrofie anatomiche tipiche dei manga, quanto dalle atmosfere inquiete di certo Pop Surrealismo colto e raffinato. Anche qui tornano i canoni del super deformed e dunque le ossessioni legate ad un’iconografia che predilige la rappresentazione di corpi macrocefalici e con membra affilate. Sala dipinge le sue enigmatiche muse con sofisticata acribia, disponendole sullo sfondo di paesaggi silvestri, sotto cieli ingombri di minacciose nubi. Le figurine dipinte dall’artista comasca alludono velatamente anche alle immagini votive della tradizione cattolica popolare, con le quali condividono quella sorta di stralunata fissità che le rende simili a bambole inanimate.

Ana Bagayan, Senza titolo, matita su carta melting, 20x15 cm.

Ana Bagayan, Senza titolo, matita su carta melting, 20×15 cm.

Cromaticamente opposte a quelle di Paola Sala sono le opere di Ana Bagayan, artista originaria di Yeveran (Armenia), ma californiana d’elezione. Laureatasi all’Art Center College of Design di Pasadena e svezzata professionalmente dalla galleria La Luz De Jesus di Los Angeles, Ana Bagayan è il tipico prodotto dell’educazione artistica della West Coast. Conosciuta in Italia per aver realizzato l’immagine della locandina del film H2Odio di Alex Infascelli e recentemente anche quella dell’album Un’altra me di Syria, l’artista ha elaborato un linguaggio pittorico caratterizzato da un forte imprinting illustrativo e dominato un impianto cromatico giocato su toni caramellosi e zuccherini. Eppure, il mondo onirico e fiabesco da lei rappresentato è percorso da una vena di sottile inquietudine e da un senso d’incombente minaccia che portano il clima della narrazione in una zona di confine tra incubo e idillio.

Laurina Paperina, Takashi Murakami in love

Laurina Paperina, Takashi Murakami in love, smalti, spray e biro su carta, 35×50 cm, 2008

Animata da una strafottente verve pop è Laurina Paperina, che con il suo stile grafico, in bilico tra fumetto satirico e underground, fa il verso ai Vip dell’arte contemporanea e agli eroi della cultura di massa. La sua ricerca, fondata sulla passione per lo scarabocchio e il disegno infantile, si muove seguendo i precetti di un’irresistibile vena ironica. Protagonisti delle sue bislacche e surreali narrazioni sono di solito rockstar e supereroi dei fumetti, ma in questa occasione l’artista prende di mira il movimento Superflat. Tutto nasce da un aneddoto, il tanto vociferato acquisto da parte di Takashi Murakami, leader indiscusso del pop orientale, di un disegno dell’artista trentina. Così per una sorta di bizzarro contrappasso, Laurina Paperina inserisce al centro della sua installazione di carte una grafica originale della superstar nipponica, quella in cui compaiono Kaikai e Kiki, i due personaggi manga che hanno dato il nome anche alla sua Factory. L’immagine è tra le più emblematiche dell’immaginario Poku e serve da spunto a Laurina per inscenare un’allegra e scollacciata mattanza di artisti giapponesi.

Bassa

Catalina Estrada, Red, stampa giclée, 46×78 cm, edizione limitata 28/100

In parte debitrice dell’estetica manga è la colombiana Catalina Estrada, considerata una delle promesse dell’illustrazione e del graphic design[14]. Trasferitasi a Barcellona nel 1999, l’artista ha collezionato una serie di collaborazioni eccellenti con brand come Coca Cola, Smart e la griffe brasiliana Anunciação. Utilizzando penna ottica e tavoletta grafica la Estrada ha sviluppato uno stile originale, che combina atmosfere favolistiche e nitore high tech nell’allestimento di visioni fantastiche, popolate di fate e principesse iperboree.

Oliver Dorfer, Koi,

Oliver Dorfer, Koi, co su supporto plastico, 200×300 cm, 2007

Una pittura nitida è certamente quella dell’austriaco Oliver Dorfer, che dipinge con vernice acrilica su supporti plastici, al fine di ottenere un effetto rigorosamente flat. Secondo il filosofo e teorico dei media Leo Findeisen i lavori di Dorfer sono “apparecchi visivi”, in cui si fonde la pratica analogica della pittura e l’influsso dell’estetica digitale. Sono apparentemente frammenti rubati ai film d’animazione, ai fumetti, ai videogame quelli che l’artista utilizza come fossero matrici riproducibili ad libitum per le sue sovrapposizioni iconografiche. Come ha scritto il critico Andrea Bruciati, “Oliver Dorfer metabolizza il pervasivo dilagare delle immagini nella dimensione del quotidiano, innervandola nel credo pop secondo una stilizzazione che ricorda i manga giapponesi o certi tag della street art”.

Massimo Gurnari,

Massimo Gurnari, Hot Rod, Fast Sex, tecnica mista su carta intelata, 170×150 cm, 2008

Lowbrow è un termine efficace per descrivere la pittura di Massimo Gurnari, maturata in un contesto di radicali contaminazioni pop, tra tatuaggi, vecchie pubblicità, immaginario hot rod e pin up anni ‘50, elementi che l’artista mescola, senza alcuna logica narrativa, su sfondi disseminati di frasi e scritte estemporanee ed efficaci texture ornamentali. Quelle di Gurnari sono visioni capaci di trasmettere un senso di felice eccitazione poiché costringono lo sguardo a rimbalzare tra immagini sacre e profane, tra stili grafici e pattern geometrici, alla ricerca di un impossibile appagamento visivo. La sua è, in definitiva, una pittura di sovrapposizioni e giustapposizioni iconografiche, una pittura onesta e diretta come un road movie di Tarantino, ma soprattutto una pittura capace di evolvere, di svincolarsi dalla prigione degli stili, servendosi dei più diversi codici espressivi.

Spider, California, tecnica mista su tavola, 71x112,5 cm., 2007

Spider, California, tecnica mista su tavola, 71×112,5 cm., 2007

Ora, mentre in Italia l’interesse per il variegato sottobosco artistico lowbrow, basato sul mescolamento dei generi e degli stili si è sviluppato solo di recente, giò da un decennio, Daniele Melani, meglio conosciuto come Spider, conduce in totale autonomia una ricerca che ha più di un elemento in comune con l’estetica Pop Surrealista. Già a partire dal 1995, nelle sue tavole di legno incise e dipinte, Spider dimostrava di aver metabolizzato lo stile di tanti cartoon d’annata americani, dalla Betty Boop dei mitici fratelli Fleischer al Braccio di ferro di Elzie Crisler Segar, fino al lupo cattivo dei Tre Porcellini delle Silly Symphonies disneyane. Da sempre, poi, accanto all’elemento fumettistico si avverte una grande passione per il lettering, per la calligrafia, per il logotipo. Nei suo dipinti compaiono, infatti, scritte vintage, caratteri western, corsivi infantili, stampatelli futuristi di grande forza evocativa. Le frasi che l’artista intaglia o dipinge sulla tavola non sempre sono collegate al senso dell’immagine, ma hanno, talvolta, un valore puramente grafico, come nel caso dei molti emblemi reiterati dall’artista, dal teschio al lupo, ai fiori antropomorfi.

Felicità_(disegno)

Michael Rotondi, Felicità, plotter su carta colorata a mano, 20×30 cm, 2008

Con uno stile sporco, di ascendenza punk e underground, Michael Rotondi imbastisce narrazioni bizzarre, dove spunti biografici sono mescolati a elementi dell’immaginario pop. Quello rappresentato dall’artista livornese è, quindi, un mondo sospeso realtà e immaginazione, miti collettivi e impressioni private, in cui convivono eroi dei cartoni animati, star del rock and roll e personaggi della vita quotidiana. Un esempio tipico della sua inclinazione all’ibridazione iconografica è il mausoleo di ricordi pop allestito per l’occasione, in cui l’artista ripercorre, trasfigurandoli, gli eventi dell’estate 1994, quella dei mondiali di calcio statunitensi e della musica dei Nirvana e dei NOFX. In questa sorta di racconto generazionale, Rotondi traccia la mappa culturale e sociale di un’epoca e insieme compila il racconto della sua iniziazione alla vita.

08_998x560

Uno stile conciso e raffinato è quello di Elena Monzo, che dipinge figure caratterizzate da una fisicità drammatica, da una corporeità estrema ravvisabile nelle posture complicate e contorte. Protagoniste delle sue opere, eseguite su carte da plotter, spesso con l’ausilio di pennarelli e sticker, sono figure antitetiche rispetto a quelle delle riviste patinate di moda. I suoi personaggi, infatti, sono quasi sempre donne con malformazioni o mutilazioni o addirittura ibridate e confuse in nuove entità organiche. Interessata al tema dei rapporti di dipendenza che uniscono le persone, l’artista stabilisce tra i personaggi che abitano lo spazio lindo e asettico dei suoi lavori una sorta di connessione, un legame di ordine fisico (quasi un cordone ombelicale) che li avvince in una stretta morsa.

Giuseppe Veneziano, Biancaneve allo specchio, 2007

Giuseppe Veneziano, Biancaneve allo specchio, 2007

Di tutt’altro genere, infine, sono le deformazioni e le ibridazioni messe in campo da Giuseppe Veneziano, che interessano soprattutto i meccanismi legati alla percezione d’immagini e informazioni. L’artista siciliano adotta uno stile piatto e semplice, immediatamente comprensibile, per indagare l’ambigua soglia tra verità e finzione. Nel perseguire questo scopo, Veneziano sfrutta gli automatismi tipici dell’informazione, della pubblicità, ma anche della satira, per elaborare immagini scomode e disturbanti, che denunciano la natura psicologicamente morbosa dell’uomo medio contemporaneo. Oltre a questo aspetto della sua ricerca, Veneziano insiste anche sul tema classico della contaminazione tra registri alti e bassi, tra citazionismo colto e triviale, come dimostra l’insistita presenza nelle sue tele di icone celebri dei cartoni animati, dello show business, della politica e dello Star System. Nell’installazione intitolata Biancaneve allo specchio, citazione in salsa erotico-favolistica della celebre Venere allo specchio di Velasquez, Veneziano congiunge entrambi gli aspetti della sua indagine, quello sociologico (l’indicazione della morbosità congenita della società odierna) e quello culturale (l’inevitabile, postmoderna, confusione intellettuale tra alto e basso).


[1] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo Fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, pag 43, Adelphi, 1997, Milano.
 
[2] Poku è un neologismo originato dalla crasi dei termini Pop e Otaku. Quest’ultimo era originariamente un pronome onorifico usato per indicare la famiglia o la casa altrui. Oggi otaku è utilizzato per designare negativamente un individuo ossessivamente interessato a qualcosa, come ad esempio un appassionato maniacale di manga e anime. L’accezione moderna del termine compare negli anni Ottanta grazie all’umorista Akio Nakammori, che si accorse che il pronome onorifico non era generalmente usato dai nerds.
[3] Tiki, dal nome di una divinità del pantheon polinesiano, è l’appellativo che ha assunto a partire dagli anni ’40 negli Stati Uniti lo stile in cui erano arredati alcuni ristoranti ispirati appunto all’arte della Polinesia. La cultura Tiki ha ricevuto una spinta maggiore quando, finita la Seconda Guerra Mondiale, i soldati americani di ritorno dal fronte riportarono storie, aneddoti e souvenir dalle isole del Sud Pacifico. Col tempo il Tiki Style ha permeato molti aspetti della cultura pop americana, divenendo un genere artistico autonomo, svincolato dall’arte polinesiana originaria.
[4] Con Hot Rod, letteralmente Bielle Roventi, sono indicate le auto modificate sia nella carrozzeria che nelle parti meccaniche al fine di aumentarne le prestazioni in termini di potenza e velocità, che l’aspetto, in termini d’impatto estetico. Negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’50 il termine veniva usato in senso dispregiativo per indicare vetture diverse da quelle prodotte in serie. Col tempo i bolidi Hot Rod sono diventati un fenomeno tipico della cultura americana, chiamata Kustom culture (la cultura delle customizzazioni automobilistiche), in seno alla quale si è sviluppata anche una Kustom Art, legata alla decorazione di auto, moto, caschi e altri accessori.
[5] Disegnatori di fumetti manga.
[6] Celebre autore di fumetti, animatore, sceneggiatore e regista giapponese. Sono suoi i progetti e le scene di famose serie animate come Heidi e Anna dai capelli rossi. Come regista ha realizzato, tra gli altri, i film animati La città incantata e Il Castello errante di Howl.
[7] Sono così chiamati in Giappone i fumetti e i cartoni animati pornografici.
[8] Hello Kitty è una gattina con un fiocco rosso sull’orecchio sinistro, un personaggio inventato nel 1974 a Tokyo e commercializzato dall’azienda giapponese Sanrio. Oggi un marchio che genera un fatturato di miliardi di dollari attraverso un merchandising che comprende accessori, abbigliamento, giocattoli, cartoni animati, biglietti di auguri e molto altro. Dal 1983 è ambasciatrice dei bambini per l’Unicef.
[9] I Pokémon nascono come personaggi dei videogiochi per Game Boy nel 1996 e diventano cartoni animati a partire dal 1997.
[10] Personaggio dei Pokémon.
[11] Miffy è la piccola coniglietta dei libri per bambini, creata nel 1955 dall’olandese Dick Bruna.
[12] Vedi Tim Burton, Morte malinconica del bambino ostrica, Einaudi, Torino.
[13] Venivano così chiamati i frequentatori del Batcave, famoso locale londinese attivo a Soho dal 1982 e divenuto, in seguito, il tempio del gothic rock.
[14] Alcuni suoi lavori sono pubblicati nel secondo volume di Illustration Now, curato da Julius Wiedemann per l’editore Taschen.