di Ivan Quaroni
“Andremo di metamorfosi in metamorfosi, inesorabilmente”.
(Alejandro Jodorowsky)
Peso specifico, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×120 cm
Il percorso pittorico di Daniela Volpi si configura come una progressiva immersione nella materia. Nelle opere precedenti l’artista si era concentrata sul volto come luogo privilegiato della manifestazione interiore. Quei volti sospesi in campiture monocrome restituivano l’impressione di icone sottratte alla mercificazione visiva, immagini femminili depurate dalle convenzioni mediatiche e restituite a un’aura sacrale. L’attenzione era rivolta allo sguardo, inteso come soglia di accesso a una dimensione che oltrepassa la mera rappresentazione. Ogni volto appariva come epifania di un enigma, immagine paradigmatica della bellezza intesa come necessità dell’anima.
Nella nuova serie di opere, riunite sotto il titolo Trasformazione, il baricentro si sposta sulla rappresentazione del corpo intero, che diventa soggetto e superficie insieme, forma che nasce direttamente dalla sperimentazione di nuovi materiali che introducono nella pittura qualità imprevedibili. L’artista utilizza, infatti, accanto ai più tradizionali acrilici, anche sostanze inartistiche come la ruggine e il cemento, con le quali plasma non solo le figure femminili – che costituiscono il centro focale della sua indagine – ma anche gli ambienti, tutti giocati su un’elegante e ridottissima palette di colori. La ruggine, con la sua natura mutevole, lascia tracce che non seguono un disegno preimpostato. Le colature si diffondono, ispessendosi in punti che diventano macchie incandescenti o depositi bruni, e generando, così, superfici instabili che somigliano a morfologie minerali.
Corpi in ruggine, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 100×100 cm.
Il cemento aggiunge consistenza, fornisce basi e blocchi che sostengono le figure, ma introduce anche un elemento di artificialità che allude alla dimensione urbana e innaturale della vita contemporanea. L’incontro di queste due sostanze genera un tipo di pittura in cui al gesto dell’artista si somma la reazione dei materiali che portano nel quadro una memoria autonoma. Ogni opera diventa, così, un campo attraversato da fenomeni chimici e fisici che plasmano le figure. L’incontro di queste sostanze è parte di un procedimento creativo erratico, in cui l’opera si forma in itinere, cioè senza seguire un progetto prestabilito. L’artista procede, infatti, intuitivamente, cercando proprio nei materiali utilizzati i motivi e le soluzioni che determinano il formarsi dell’immagine. Un esempio si trova nelle speculari tele intitolate Corpi in ruggine (2025), che insieme formano un ideale dittico. Qui i corpi affiorano dal fondo ossidato attraverso colature che tracciano linee di contorno fluide e indeterminate. Le anatomie compresse, strette in un viluppo di nervi, muscoli e ossa si stagliano sulla ruggine come sculture acefale. Le macchie ferrose imprimono su queste membra il segno irrimediabile del tempo, lasciando allo spettatore la percezione di un organismo irrisolto, instabile, in continua metamorfosi.
Distanze, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×100 cm-
Nei due dipinti intitolati Distanze (2025) – anch’essi pensabili come una sorta di diade – l’attenzione si concentra, invece, sul rapporto tra la figura e lo spazio, tra l’ingombro dei corpi e l’ambiente pneumatico che vi si oppone. In una tela, è raffigurato un corpo femminile, di cui ancora una volta non vediamo il volto, seduto a gambe incrociate e con i palmi delle mani rivolti verso il cielo, come in una sorta di solenne supplica. Nell’altra, la postura è irregolare, contorta, avvoltolata su sé stessa. In entrambi i casi l’epidermide è irrorata dai riflessi sanguigni della ruggine, in contrasto con lo sfondo grigio, percorso da erosioni e dilavate striature. Sono opere in cui lo spazio vuoto diventa elemento quasi tangibile, una presenza solida che regola la relazione tra i due corpi, generando una forte corrente emotiva.
Sia Corpi in ruggine che Distanze introducono per la prima volta la rappresentazione di corpi senza volto, ma adombrano anche il tema del doppio, che affiora nella presenza di figure doppie, che rimandano all’esperienza biografica dell’artista e al forte legame con la sorella gemella Cristina. Tuttavia, nelle opere di Daniela Volpi la gemellarità non corrisponde mai a una simmetria perfetta. C’è sempre uno scarto, una differenza che preserva l’unicità individuale. Le sue figure riflettono una condizione di costante sdoppiamento, come se la condizione di costante metamorfosi (interiore ed esteriore) generasse sempre una forma altra, una specie di alter ego che accompagna l’individuo nel proprio percorso. Si può dire che in queste tele la duplicazione di figure diventi un momento essenziale del processo di trasformazione, cui fanno eco anche i diversi stati di ossidazione. Le posture chiuse, i corpi serrati in sé stessi rimandano, invece, a uno stato di gestazione interiore, come nel caso dell’opera Equilibri (2025) in cui sono rappresentate due figure sedute in posizione raccolta su un massiccio basamento di ferro. In questo dipinto, dove le aree ossidate diffondono vibrazioni cromatiche irregolari e le campiture cementizie dello sfondo conferiscono all’immagine una severa uniformità, torna il motivo dello sdoppiamento e della moltiplicazione dell’immagine, che qui non assume mai il carattere negativo e perturbante del doppelgänger freudiano. Le figure gemellari, pressoché identiche, differiscono solo per dimensioni e consistenza: solida e compatta la figura grande in primo piano, evanescente e fantasmatica quella piccola, contornata da una sottile linea aurea. Eppure, c’è tra loro una evidente corrispondenza morfologica ed emotiva, come se, oltre alla fisionomia, fossero legate da identici stati d’animo.
Dualità, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×120 cm.
Qualcosa di analogo succede anche in Dualità (2025), un dipinto dove due corpi similari, accovacciati ognuno su un piedistallo, alla stregua di sculture viventi, si differenziano non solo per l’ineguale dimensione, ma anche per la diversa intensità di definizione: una figura più delineata, l’altra più sfumata. Dissimili sono anche le texture che caratterizzano questi nudi ambigui, per la prima volta non espressamente femminili. Nella figura minore, a sinistra, le venature ferrose solcano l’epidermide come tatuaggi tribali, mentre nella maggiore, a destra, la pelle è percorsa da screpolature, infiorescenze e corrosive incrostazioni. Qui la duplicazione è eteroclita, irregolare, anomala e genera nel campo pittorico due distinte varianti iconografiche, che avvalorano la tesi della singolarità nella similarità.
Equilibri,2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 120×100 cm
L’impatto dell’uso di ruggine e cemento diventa oltremodo evidente nel dipinto intitolato In bilico (2025), in cui la figura femminile, rappresentata in posizione contratta su un basamento chiaro, col busto piegato in avanti e le braccia raccolte, presenta sul dorso un curioso pattern a losanghe esagonali, generato dalle ossidazioni ferrose. Queste venature di ruggine segnano la superficie del corpo come una trama di ramificazioni organiche. La base che regge il corpo e ne sottolinea il peso, è caratterizzata da una pellicola pittorica crepata e difforme, che simula perfettamente la consistenza di vecchio blocco cementizio. Daniela Volpi ci offre qui un’immagine di disarmante fragilità attraverso la rappresentazione di una figura in precario equilibrio, che sembra opporsi alla condizione di instabilità con la sola forza interiore.
Il ciclo raggiunge il suo momento apicale nell’opera Peso specifico (2025), che mostra tre donne collocate su diversi basamenti. La prima, trattata con campiture di ruggine, trasmette densità e solidità. La seconda, più rarefatta, suggerisce una condizione intermedia, sospesa tra formazione e dissolvenza. La terza, costruita con cemento, appare radicata pur poggiando su una base trasparente. L’opera raccoglie, quindi, tre modi di intendere la figura, ciascuno caratterizzato da una diversa qualità materica. L’artista gioca sull’ambivalenza tra ciò che appare e ciò che è, tra ciò che sembra solido e può rivelarsi vuoto e ciò che appare fragile, ma rivelare sorprendentemente una grande forza. “È in questo dialogo tra pesantezza e leggerezza”, spiega Daniela Volpi, “che si compie la metamorfosi dell’essere, la sua trasformazione appunto”.
In bilico, 2025, tecnica mista, acrilici, cemento, ruggine, 100×100 cm
Questa articolazione di stati materici e corporei trova riscontro nell’intero ciclo, costituito come una sequenza di figure ridotte ad atti essenziali e collocate in posture concentrate. La scelta di Daniela Volpi non è, infatti, quella di raccontare una storia, ma di fermare, per così dire, una serie di gesti elementari e significativi – sedersi, piegarsi, inginocchiarsi, rannicchiarsi – e di affidare a queste configurazioni minime il compito di esprimere il senso dell’opera. È così che la metamorfosi evocata in Peso specifico diventa un principio ordinatore di tutta la serie, dove ogni quadro rappresenta la tappa di un processo evolutivo.
La principale caratteristica di questa serie è il trattamento delle superfici pittoriche, che mostrano colature, abrasioni e screpolature, tracce dell’inesorabile trascorrere del tempo. Se le zone ossidate diffondono una gamma di cromie calde e vibranti, le campiture di cemento introducono elementi freddi, che assumono la forma di compatti blocchi geometrici. Da questa commistione di materiali inconsueti, nasce ogni figura, che si presenta come emanazione diretta della materia. Le donne di Volpi, infatti, si stagliano nello spazio pittorico come presenze concrete, ineludibili, testimoni di un passaggio, di un momento esistenziale transitorio che resta aperto a ulteriori metamorfosi. Ed è proprio in questa adesione totale alla materia che si riconosce la cifra più autentica della ricerca di Daniela Volpi, un’indagine che finalmente restituisce alla pittura un carattere di essenzialità e di necessità.













