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Vanni Cuoghi. Aion. Di giochi, giardini e altre delizie

9 Set
 
 
 

di Ivan Quaroni

Nell’uomo autentico si nasconde un bambino che vuole giocare”.
(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885)

Il gioco, la beffa, l’inganno, la trappola, l’affabulazione, ma anche la metafora, la metonimia, il calembour, la citazione, l’allusione sono, forse da sempre, gli strumenti e i dispositivi retorici dell’arte di Vanni Cuoghi. Al gioco, inteso come umana attività volontaria, sovente caratterizzata da regole e finalizzata al raggiungimento di obiettivi specifici, è dedicata la recente ricerca dell’artista, il quale ipotizza una sorta d’immaginifica ludologia cortese.

Percorrendo i topoi di un Rinascimento idealizzato, insieme artefatto e incongruo, Cuoghi dissemina i suoi eleganti lavori d’indizi e citazioni che rimandano tanto al passato quanto al presente. Emerge qui, infatti, più che altrove, la sua innata e postmoderna propensione al miscuglio e alla combinazione di riferimenti, proprio come in un gioco di abilità verbale che stà a metà tra il gioco da tavola e il calembour. Qui, più che altrove, lo stile di Cuoghi appare fin troppo disciplinato, esasperatamente aggraziato, quasi l’artista intendesse imbrigliare l’espressione in un codice visivo di stretta osservanza formale, per occultare il magma emotivo in un processo di sublimazione intellettuale.

Il gioco, dicevamo. E’ un argomento alquanto difficile, scivoloso. Basta un nonnulla per tramutarlo in un pretesto da fiera paesana. In fondo, al gioco si possono ascrivere tutte le attività ricreative e, per estensione, perfino quelle libere e prive di scopo, purché siano connotate da una certa reiterazione gestuale o verbale. Il gioco cui allude Vanni Cuoghi, invece, ha un’accezione estetica e formale. E’, come sosteneva Gregory Bateson, filosofo, antropologo e psicologo britannico, un metalinguaggio, ossia un codice che rimanda a un altro codice. Bateson, infatti, sottolineava la natura convenzionale del gioco. Non solo l’accettazione da parte dei partecipanti di norme straordinarie, cioè diverse da quelle che regolano la vita quotidiana, ma anche l’implicita adesione a immergersi in una realtà fittizia, in una rappresentazione metaforica e, nondimeno, estremamente seria. Come afferma Jean Baudrillard, “Ogni regola del gioco è affascinante. Un gioco, non è che questo, e il delirio del gioco, il piacere intenso del gioco proviene dalla chiusura nella regola”. Il metalinguaggio serve, quindi, a comunicare la natura ipotetica del gioco, il suo «come se». Il giocatore si comporta «come se», ed è, dunque, a suo modo, un attore temporaneo. Ma il «come se». implica anche una proiezione in avanti, verso il futuro. Diventa una domanda: «e se fosse?». L’anglosassone «what if?» designa un genere letterario. La Marvel ha addirittura inventato una linea di fumetti supereroistici («What if?», appunto), basata sullo sviluppo di trame alternative e sull’indagine di realtà parallele. Dato che il gioco, come metalinguaggio, rivela qualcosa dei giocatori e quindi anche della società o della cultura cui appartengono, scegliere la tipologia di gioco può avere una valenza perfino poetica.

Vanni Cuoghi ha scelto d’ispirarsi alle Delizie rinascimentali, espressioni dell’abitare nobiliare e cortigiano in un ambito suburbano in cui natura e artificio s’intrecciano indissolubilmente. Le Delizie (gli Estensi ne costruirono oltre 30 tra il Trecento e il Cinquecento) erano residenze estive destinate allo svago e alla villeggiatura dei Signori ed avevano anche funzioni strategiche, politiche e amministrative, potendo fornire ospitalità a un’intera una corte itinerante. Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, ad esempio, è fra le più celebri Delizie Estensi. Il suo nome – che letteralmente significa “che schiva la noia” – ci dice molto sulla sua funzione, quella, appunto, di essere un luogo destinato al piacere e allo svago della corte. Trattandosi di divertissement nobiliari, la cornice architettonica (ed estetica) ricopriva una certa importanza. Si trattava, soprattutto, di ville, castelli, manieri e casini di caccia immersi nel verde, dove tra orti, giardini, labirinti si svolgevano i passatempi della corte.

Cuoghi ambienta i propri racconti entro la cornice ideale di un Rinascimento lontano dal neoplatonismo fiorentino, ancora impregnato di cultura gotica e letteratura romanza. Il suo è un linguaggio affine all’immaginario eccentrico dei pittori ferraresi, come Francesco Del Cossa ed Ercole De Roberti, che proprio a Palazzo Schifanoia affrescarono il Salone dei mesi, oppure di artisti come Pisanello e Paolo Uccello, capaci di creare inedite suture a cavallo tra eleganza e geometria. Ciò che accomuna il lavoro di Cuoghi alla linea del Gotico Internazionale è, dunque, la sua distanza dalla mimesi tridimensionale (penso a Masaccio) e la su predilezione per l’ornamento e la fioritura di forme aggraziate, sovente usate per velare contenuti dissonanti, aspri o addirittura violenti. E’ il caso di Sette pensieri saggi, piccola tela che illustra l’efferata vendetta di una gentildonna verso i sette cavalieri che la accerchiano. Il pensiero corre immediatamente alle suggestioni cinematografiche di Tarantino e alla sua Beatrix Kiddo, sanguinaria protagonista di Kill Bill che incarna il tipo della moderna eroina manga. Inoltre, proprio a un artista giapponese, Takashi Murakami, autore di un sincretismo che mescola suggestioni pop e tradizione artistica del Sol Levante, allude l’ellittico fiotto di sangue del dipinto di Cuoghi, consapevole riproposizione della dinamica rappresentazione di fluidi corporali di Lonesome Cowboy e di HiroponSette pensieri saggi mostra, quindi, il ricorso a fonti d’ispirazione tutt’altro che desuete. Cuoghi avrebbe potuto rifarsi a iconografie più tradizionali, come ad esempio l’altrettanto sanguinoso dipinto di Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi. Invece, ha preferito creare un cortocircuito, squisitamente postmoderno, tra forma e contenuto. La stessa cosa accade in un altro dipinto, Viscontea, che illustra l’origine del blasone di Milano, contraddistinto dal biscione che ingoia un infante. Lo stemma fu assunto dalla famiglia dei Visconti in occasione della loro ascesa alla signoria di Milano (1395) e che poi divenne simbolo del ducato e della città stessa. Il biscione ondeggiante, una sorta di mitologico basilisco, rappresentava il drago Tarantasio. Secondo la leggenda, il biscione perseguitò i milanesi fino a quando non fu ucciso da Umberto Visconti, che lo sorprese nella sua caverna mentre stava divorando un neonato. Anche in questo caso, Cuoghi attinge alla contemporanea cultura pop e cinematografica. La figura di Umberto Visconti trionfante, con il braccio alzato a mostrare l’infante salvato, ha il volto di Edward Mani di forbice, protagonista dell’omonimo film di Tim Burton, il quale, a sua volta, s’ispirò al look gotico di Robert Smith, cantante della band The Cure, sulla cui immagine, peraltro, è plasmata anche la caratterizzazione del personaggio principale di This Must Be the Place di Paolo Sorrentino.

Il tema del gioco, di cui la fitta trama di rimandi e citazioni non è che un filone secondario, una sorta di enigmistico “gioco nel gioco”, affiora soprattutto nell’elegante elencazione di svaghi cortesi. All’iconografia della caccia sono dedicati Il dono del grande cervo, Il sangue ha un colore unico e Uno sguardo indietro, mentre il torneo, almeno a giudicare dal titolo, è il soggetto di Giostrarsi nella trama. Ai passatempi maschili per eccellenza si affiancano quelli muliebri, come la carola, danza medievale che appare in Cinque volte in sogno e in La danza dell’unicorno. Un gioco, o piuttosto un esercizio di abilità, è la tecnica del paper cutting, l’arte di ritagliare disegni di carta, che Cuoghi abbina alla tecnica dell’acquarello in gran parte dei lavori. E’ una pratica tradizionale, sviluppata soprattutto in Asia – dall’India alla Cina, fino al Giappone e alle Filippine – che recentemente è stata adottata da diversi artisti contemporanei. Come molti giochi di abilità, il paper cutting richiede precisione e pazienza da parte dell’artista e soprattutto una propensione a immergersi nella ripetizione dell’atto fino a perdere la cognizione del tempo. Come un mantra, oppure come l’esercizio del ricamo di Ventitré primavere e due gatti, il paper cutting introduce (o induce) l’esperienza di una diversa concezione temporale, slegata dalla consecutio lineare. Quella che gli antichi greci identificavano in Aion, personificazione del tempo eterno, opposta a Chronos (il tempo rettilineo della Storia). Per Eraclito, Aion è raffigurato come “un bambino, intento a spostare le figure sul tavoliere”. Nella concezione greca, il gioco era intimamente connesso a un’idea circolare del tempo. Un’idea che ritroviamo, in filigrana, anche nel ricorrente impianto circolare delle opere di Vanni Cuoghi. Esemplari, in tal senso, sono L’orto del senso, con il suo labirinto concentrico; La danza dell’unicorno, con l’episodio centrale simile a un mandala; Viscontea, con il drago in forma di ouroboros; infine, Nostra Signora delle farfalle, con il volo centrifugo dei lepidotteri a tracciare un cerchio radiale.

Matteo Ramon Arevalos, La Folia, performance 2

Se i concetti di “differenza” e “ripetizione”, cari al filosofo francese Jaques Derrida, sono elementi fondanti del gioco, altrettanto si può dire per la musica, argomento che ci permette di introdurre l’ultima opera di Vanni Cuoghi. Questa similitudine tra gioco e musica, avvalorata dal verbo inglese to play, che designa, appunto, sia l’atto del giocare sia quello del suonare, è il tema nascosto de La Folia, una performance – se così si può definire – concepita dall’artista con il musicista e compositore Matteo Ramon Arevalos. La Folia (o Follia) è un tema musicale portoghese risalente al XVI secolo, basato su una struttura melodica precisa, su cui il compositore poteva introdurre variazioni e improvvisazioni. Entrata a far parte della musica colta nel XVII secolo, la Folia è stata interpretata nel corso del tempo da compositori come Giovanbattista Lully, Arcangelo Corelli, Antonio Vivaldi, Alessandro Scarlatti, Johan Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel. La versione di Händel, nell’arrangiamento di Leonard Rosenman, è poi diventata la colonna sonora del film Barry Lyndon di Stanley Kubrik. La variante di Matteo Ramon Arevalos, composta appositamente per Vanni Cuoghi, è eseguita su un pianoforte a coda, sulle cui corde sono poggiate le sagome di fanti e cavalieri rinascimentali. Le figure, dipinte da Vanni Cuoghi e disposte su basamenti di rame, conferiscono alla composizione un suono metallico che richiama il clangore delle armi. Mentre il battito dei martelletti, muove gli armigeri sulle corde del pianoforte, noi assistiamo, attoniti, all’irrompere degli eserciti in battaglia. La performance, ripresa dalle telecamere con la regia di Chiara Zenani, e proiettata durante un’esecuzione pubblica al Teatro San Domenica di Crema, diventa, così, un’opera multimediale, in cui confluiscono musica, pittura e video.

Con La Folia, Vanni Cuoghi sembra includere la guerra nella sua articolata elencazione di ludi cortesi. E così, sia pure nella forma della finzione, finisce per evidenziare il pericoloso legame che unisce le passioni al gioco. Ma mentre la caccia o il corteggiamento amoroso, tanto per citare due esempi di attività ludiche predilette dell’aristocrazia, appaiono, tutto sommato innocui (almeno per gli uomini), “La guerra” – come scrisse William Cowper – “è un gioco, che i re, se i loro sudditi fossero saggi, non giocherebbero mai”.

ENGLISH TEXT

Aion . Of games, gardens and other delights

 ivan Quaroni

Within the authentic man hides a child who wants to play
(Friedrich Nietzsche, Thus spoke Zarathustra, 1885)

Games, pranks, scams, traps, storytelling, but also metaphors, metonimies, calembours, quotes, allusions, have always been , the means and rhetorical devices of Vanni Cuoghi’s art. Play, intended as a voluntary human activity, often marked out by rules and finalized to specific goals, is the subject of the artist’s most recent research that hypothesizes some kind of courtly ludologia. Going through the topoi of an idealized Renaissance, unnatural and incongruous, Cuoghi disperses hints and quotes that remind of the past as much as of the present, throughout his elegant artworks. His innate and postmodern attitude to mixing and combining references, is in fact standing out here more than anywhere else, just as a verbal skills game, half way between the the board game and the calembour. Here especially, Vanni Cuoghi’s style appears even too disciplined, madly gracious, as if the artist wanted to constraint expression in a visual code of strict formal compliance, to hide the emotional magma in a process of intellectual sublimation. Play, as said, is a difficult slippery topic. It takes nothing to turn it into a country fair chance. In the end, all recreational activities , and to some extent even the free ones with no purpose , can be ascribed to play, as long as characterized by a certain verbal and gesture repetition.

The kind of play Vanni Cuoghi refers to has instead a formal and aesthetic meaning. It is  a metalanguage, as stated by Gregory Bateson, British philosopher, anthropologist and psychologist , a code that refers to another code. In effect Bateson underlined the conventional nature of play. Not only the acceptance by all the players of extraordinary regulations , different from the ones that rule everyday life, but also the silent subscription to dive into a counterfeit reality , into a metaphoric representation , nevertheless extremely serious. As Jean Baudrillard states, “Each rule of play is fascinating. Play is nothing more than the delirium of play, the intense pleasure of playing comes from the bond to the rule “.  The metalanguage is then necessary to communicate the hypothetical nature of play itself, its own “as if”. The player acts “as if” , therefore being some kind of temporary actor. However the “as if” entails a forward projection as well, towards the future. It actually becomes a question “what if?”. In English “what if?” designs a true literary genre. Marvel got to invent an entire chain of super-hero comics (“What If”, note), based on the development of alternative plots and on the investigation of parallel realities. Given that play, as a metalanguage reveals something about the players and consequently about culture and society they belong to, picking the typology of play can get to have a poetical value.

Vanni Cuoghi chose to get inspired by renaissance Delights, displaying courtly and noble living in a suburban context where nature and artifice intersect forever. The  Delights ( Estensi built more than 30 between ‘300 e ‘500) were summer residences intended to leisure and resort of the Nobles and they also had strategic, administrative and political functions, being able to host an entire itinerating court. For instance, Schifanoia Palace in Ferrara, is among the most famous Estensi Delights. Its name – that means “boredom escaping”- tells us a lot about its function, being indeed a place of pleasure and leisure for the court. Being a matter of noble divertissements, the architectural (and aesthetical) background had a certain importance. They were mainly villas, castles, manor houses and hunting lodges surrounded by green, where courtly activities took place, among orchards, gardens and labyrinths . Cuoghi sets his stories in the ideal frame of a Renaissance far from Florentine neo-platonist, still permeated by gothic culture and Romanic literature. His language is close to the eccentric imagery of Ferrara painters, such as Francesco Del Cossa and Ercole De Roberti, who frescoed Salone dei Mesi in Schifanoia Palace, or even to Pisanello o and Paolo Uccello, who were able to create never before seen seams between elegance and geometry. What is common between Cuoghi’s work and the International Gothic line is the distance from the three-dimensional mimesis (I’m thinking of Masaccio) and his inclination to ornament and blooming of gracious shapes , often used to mist over dissonant , harsh  and even violent contents. It’s the case of Seven wise thoughts, small canvas showing the strong vengeance of a noblewoman against seven knights that surround her. We immediately think of Quentin Tarantino and his Beatrix Kiddo, bloody protagonist of Kill Bill , who embodies modern manga heroine. Furthermore, the elliptical gush of blood in Cuoghi’s painting, conscious bringing back of the dynamic representation of body fluids in Lonesome Cowboy and Hiropon, refers to the work of Japanese artist Takashi Murakami, author of a syncretism that mixes pop suggestion with his national artistic tradition. In the end  Seven wise thoughts shows the recall to inspirational sources very far from obsolete. Cuoghi could have recalled more traditional iconographies, such as the bloody painting Giuditta e Oloferne by Artemisia Gentileschi. He instead preferred to create a delightfully postmodern short circuit between shape and content. Same thing happens in another painting, Viscontea , depicting the birth of Milan’s blazon, distinguished by a snake swallowing a baby boy. The blazon was adopted by the Visconti family in the occasion of their achievement of the lordship of Milan (1395) and lately became the symbol of the city’s duchy. The waving snake , some kind of mythological basilisk , stood for Tarantasio’s dragon. According to the legend the giant snake prosecuted the population of Milan before being killed by Umberto Visconti, who found him in his cave eating a newborn. In this case as well Cuoghi draws from contemporary pop and cinematographic culture. The figure of a triumphing Umberto Visconti, waving his arm high to show the saved child, has Edward Scissorhands’ face , protagonist of the namesake movie by Tim Burton, who, in turn, got inspired by the gothic look of Robert Smith, leading voice of the band The Cure , who’s image has been used to characterized the protagonist of the movie by Paolo Sorrentino, This must be the place.

The theme of play , in which the dense plot of quotes and references is just a side branch, some kind of “game in the game”, surfaces especially in the elegant listing of courtly leisure. The great deer’s gift, Blood has a unique colour and A look back, are dedicated to the hunting iconography, while tourney , judging from the title, is the subject matter of Jousting in the weave. Typical masculine pastimes go along with the feminine ones, such as the carol, a medieval dance making his appearance in Five times in dreaming and in The unicorn’s dance. Paper cutting technique,  the art of cutting paper drawings, that Cuoghi pairs with watercolors in almost all artworks, is some kind of play, or better, a game of skill. This is a traditional practice, mostly developed in Asia – from India to China, to Japan and the Philippines – that’s been recently adopted by some contemporary artists. Just as many games of skill , paper cutting requires patience and precision and most of all an inclination to plunge into repeating an act until losing track of time. Like a mantra, or the embroidery exercise in Twenty-three springs and two cats, paper cutting introduces (or induces) the experience of a different time conception, free from the linear consecutio. This was defined by ancient Greeks Aion, personification of the eternal time, opposite to Chronos (the straight time of History). Eraclito depicted Aion as “ a child, busy moving figures on the  board” . In the Greek conception, play was intimately connected to the idea of a circular time. An idea we find back, in filigree, in the recurring circular scheme of Vanni Cuoghi ’s artworks. The orchard of sense and its circular labyrinth ; The unicorn’s dance and its central episode similar to a mandala ; Viscontea with the dragon in the shape of an ouroboros ; and finally Our lady of the butterflies with the centrifugal flight of the moths tracing a radial circle, are exemplars of this idea. Stated that  the concepts of “difference” and “repetition” , so precious to the philosopher Jacques Derrida, are founding elements of  play , likewise is the music, a topic that allows us to introduce Vanni Cuoghi’s last artwork.

This similarity between play and music, supported by the English verb to play, that indeed defines both the act of playing games and playing music, is the hidden theme behind La Folia , a performance – if you want –  conceived by the artist together with music composer Matteo Ramon Arevalos.  La folia (o Follia) is a Portuguese music theme dating back to XVI century, based on a defined melodic structure, to which the composer could introduce variations and improvisations. Getting to be part of the educated music in XVII century, la  Folia has been played by composers like Giovanbattista Lully, Arcangelo Corelli, Antonio Vivaldi, Alessandro Scarlatti, Johan Sebastian Bach and Georg Friedrich Händel. Händel’s adaptation , arranged by Leonard Rosenman, later became the soundtrack for the movie Barry Lyndon by Stanley Kubrik.

The variation by Matteo Ramon Arevalos composed exclusively for Vanni Cuoghi is played with a grand piano on the strings of which are placed little figures of renaissance knights and foot soldiers, painted by Vanni Cuoghi and mounted on copper platforms, give a metallic sound to the composition that recalls the clangor of the weapons. While the beat of the hammers moves squires on the piano strings, we watch , stunned, the breaking in of the battling armies. The performance, filmed by cameras and directed by Chiara Zenzani and screened during the public show at San Domenico Theatre in Crema, becomes a true multimedia work, gathering music, painting and video. Through La Folia Vanni Cuoghi seems to include war in the list of courtly leisure. Thus, even if in a fictional form, he ends up highlighting the dangerous bound between passions and play. However, while hunting and courtship , just to mention a couple of examples of entertainment loved by the aristocracy , appear all in all  harmless (at least for men) “War” – as written by William Cowper – “is a game that kings would never play, if their subjected were wise”.

Italian Newbrow: un’arte di larghe intese

26 Lug

Questo mese è uscito il nuovo numero di 8 e mezzo, rivista dell’Istituto Luce – Cinecittà, diretta da Gianni Canova. All’interno c’è il mio articolo sui rapporti d’influenza tra Italian Newbrow e il cinema.

Trovate qui sotto l’impaginato in pdf:

Articolo 8 e mezzo

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Per una maggiore leggibilità e per dare spazio alle immagini che sono state un po’ sacrificate dalla grafica, riporto per intero il testo originale:

L’arte contemporanea è come un tempio esoterico frequentato da soli iniziati. Come una loggia massonica, obbedisce a codici simbolici di difficile decrittazione e si fonda su un linguaggio segreto e incomprensibile agli occhi del grande pubblico, insomma su una grammatica estetica che rafforza il sentimento di esclusività di chi ne fa parte.  In questa setta, l’autoreferenzialità è una regola aurea, in special modo in quel particolare segmento chiamato “arte concettuale”. Da qualche tempo, però, si è aperto uno spiraglio verso le suggestioni dell’immaginario di massa, dal fumetto all’illustrazione, dai videogame al Cinema.

Giuliano Sale, MONICA E IL DESIDERIO

Si tratta di un fenomeno in parte dovuto all’attitudine più aperta e orizzontale delle nuove generazioni, quelle che Luca Beatrice sulle pagine di Flash Art designava con il termine di Google Generation. Sono artisti abituati alla logica del cut & paste digitale, cresciuti in un clima di contaminazione tra la cultura artistica ufficiale e quella popolare e pervasiva dei nuovi media. Un mix d’impulsi e influenze che il filosofo outsider Franco Bolelli interpretava, nel saggio intitolato Cartesio non balla, come segni dell’ascesa di una nuova antropologia pop energica, divertente, sexy e soprattutto capace di affermare nuovi valori basati sulla vitalità e l’abbondanza di esperienze di cross over e ibridazione dei linguaggi. Qualcosa di diverso, insomma, da quel microcosmo concettuale che, come afferma Bolelli, ruota intorno al deturnamento e all’estetizzazione del banale.

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In una sequenza del film I soliti idioti (Enrico Lando, 2011), con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, appariva il dipinto Alter Ego di Paolo De Biasi, uno degli esponenti dell’Italian Newbrow, non proprio un movimento, ma piuttosto un variegato gruppo di artisti italiani, impegnati in un’orgogliosa rivendicazione di tutto il bazar della cultura popolare – dal fumetto alla TV, passando per il Cinema, il tatuaggio e la grafica punk e underground.

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In verità, ancor prima dell’uscita del film di Enrico Lando, l’Italian Newbrow proponeva una visione dell’arte contemporanea capace di infrangere le rigide barriere dell’ufficialità, tramite il recupero di fonti d’ispirazione provenienti dalla produzione dell’industria, con frequenti incursioni non solo nell’immaginario cinematografico mainstream, ma perfino in quello indipendente.

Massimo Gurnari, IN ITALY WE TRUST

Lo scopo è di riattivare, in pittura e in scultura soprattutto, la dimensione narrativa del racconto, superando l’empasse provocato dalla tautologia dei minimalismi e dei concettualismi di fine stagione. Basta, quindi, con i pezzi di legno appoggiati al muro, con le matasse di lana furbescamente disposte in un angolo di galleria, con le foto appoggiate a terra, magari con il vetro infranto. Cose che, con buona pace del critico d’arte Francesco Bonami, fanno esclamare al pubblico: “Lo potevo fare anch’io”. Il pensiero corre inevitabilmente alle Vacanze intelligenti di Alberto Sordi, capolavoro di perplessità e ironia che traccia un solco incolmabile tra l’avanguardia artistica e la sensibilità del grande pubblico e diventa, trentacinque anni dopo, uno stimolo per artisti della galassia newbrow, sostenitori di un’arte di larghe intese, a cui la gente comune possa tornare ad accostarsi senza imbarazzo o senso d’inferiorità. Agli eroi della Disney e della Dreamworks, s’ispira, Veneziano, rendendoli testimoni di un’epoca complessa come la nostra, travagliata da una profonda crisi economica (Indignados, 2012).

Diego Dutto, NONMAMA

Guarda invece a Tarantino e al Lonesome Cowboy di Takashi Murakami, Vanni Cuoghi in Sette pensieri saggi, dove una variante rinascimentale dell’Uma Thurnman di Kill Bill è impegnata a decapitare i suoi  avversari in un dipinto splatter. A La piccola bottega degli orrori di Roger Corman (1960) è ispirato l’inquietante fiore carnivoro di Diego Dutto (Nonmama, 2012), debitore dell’estetica post-human teorizzata da Jeffrey Deitch, mentre guardano al cinema d’autore, Silvia Argiolas Giuliano Sale ed Elena Rapa. La prima con una pittura lisergica e surreale, che indaga il disagio giovanile alla stregua dei film di Larry Clark e Todd Solondz, gli altri due attraverso uno stile cupo, influenzato da Ingmar Bergman, Rainer Fassbinder e Lars Von Trier. E se Mullholland Drive di David Lynch e Tokyo Ga di Wim Wenders forniscono i titoli ai bidimensionali ritratti di Fulvia Mendini (2008), L’Ultimo metrò di François Truffaut (1980) solletica le fantasie underground di Michael Rotondi in Amore clandestino (2011). L’unico tributo al Cinema italiano arriva da Massimo Gurnari, tatuatore e artista feticcio della scena hip hop lombarda, che nel dipinto intitolato In Italy we trust condensa riferimenti al Neorealismo (Vittorio De Sica), allo Spaghetti Western (Clint Eastwood) e perfino alla tradizione del B movie nostrano (Kriminal, Umberto Lenzi, 1966).

STOP MAKING SENSE -Intervista a Paolo De Biasi

11 Feb

 a cura di Ivan Quaroni

E’ un universo casuale al quale noi apportiamo un significato.

(Sheldon Kopp)

Ivan Quaroni: Stop Making Sense, titolo che riprende un disco dei Talking Heads, è il nome che hai dato a una nuova serie di lavori. Lo slittamento dalla dimensione pittorica a quella del collage (anche digitale) non è formalmente distante dalla tua ricerca precedente. Perché, a un certo punto, hai sentito l’esigenza di operare in un campo diverso dalla pittura?

Paolo De Biasi: Questa selezione di opere è nata riflettendo su una frase di Sheldon Kopp, autore di Se incontri il Budda per strada uccidilo[1]. L’idea che il nostro sia un “universo casuale al quale noi apportiamo un significato”, mi ha suggerito un parallelo con il mio metodo di lavoro. In Stop Making Sense ho voluto – diciamo così – portare questo metodo alle estreme conseguenze, rinunciando all’aspetto narrativo della mia pittura. Ho perso qualcosa, ma ho guadagnato una maggiore libertà formale ed espressiva. Si tratta di un’idea che accarezzavo da tempo e di cui la serie degli Ephemeral paintings costituisce una sorta di precedente. In quei dipinti m’interessava rendere evidente il processo compositivo e porre l’accento sull’idea primitiva, la suggestione e l’intuizione che genera l’opera. Sono convinto che per ogni artista (ma vale per tutte le attività umane), l’unica vera spinta sia la ricerca di un senso, che è poi il senso del nostro stare al mondo. Mi sono chiesto come sia possibile esprimere questa intuizione attraverso un’opera.

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IQ: E che cosa ti sei risposto?

PDB: Che non c’è una soluzione. Sheldon Kopp – una lettura da te consigliata tempo fa – non può che avere ragione: non rimane altro che insistere, continuare la ricerca nella consapevolezza che il senso non è l’obiettivo finale, ma lo è, piuttosto, il percorso stesso. Ecco, queste opere mostrano un percorso, che è surrealista per definizione.

IQ: In uno dei nostri vitali scambi d’informazioni via mail, mi avevi postato il Manifesto Incompleto per la Crescita di Bruce Mau[2] – poi diventato uno degli strumenti didattici dei miei seminari – in cui si afferma che “il processo è più importante del risultato”. Quindi, si tratta di un’idea che, in qualche modo, era già presente nel tuo DNA.

PDB: E’ vero. Il concetto stesso presuppone secondo me che tu sia al tempo stesso attore e spettatore, colui che guida il flusso ma anche colui che ne subisce la spinta. La pittura -pure nelle sue forme meno convenzionali di collage o di digital painting- non riguarda tanto la produzione di opere, quanto piuttosto un modo di osservare il mondo. Non è il risultato di uno sguardo, ma è a sua volta sguardo. Nell’ultimo numero della rivista monografica Solo, Daniel Pitìn scrive a proposito della pittura: “Mi ritrovo spesso come uno spettatore di un film, che è molto felice di essere stato in grado di entrare in possesso del biglietto per questo spettacolo[3]. La sua metafora è perfetta. Per completare il ragionamento ricordo anche un tuo articolo di qualche tempo fa sul metodo abduttivo, in cui ritrovavo molte similitudini con il mio modus operandi. In fondo la pratica del collage è la rappresentazione più evidente di quel tipo di pensiero.

IQ: Qualche anno fa intervistai Isao Hosoe per una testata della Condé Nast. Durante il nostro colloquio, il designer giapponese menzionò il filosofo Charles Sanders Peirce in merito ad una cosa chiamata “abduzione”. Non ne sapevo assolutamente nulla, ma ne rimasi affascinato. Secondo Peirce, l’uomo ha tre possibilità d’inferenza, tre modi di ragionare: deduzione, induzione, abduzione. Mentre la deduzione è un’argomentazione scaturita automaticamente dalle premesse (dall’aspetto del cielo possiamo dedurre che pioverà), l’induzione è un’elaborazione logica che ricava i principi generali dall’osservazione di uno o più casi (quando piove, il cielo ha un certo aspetto). Nell’abduzione, invece, dato un fatto sorprendente, cioè diverso dalle attese, si formula un’ipotesi tale che, se fosse vera, trasformerebbe il fatto sorprendente in un fatto normale. In pratica, l’abduzione cerca una teoria proprio per spiegare i fatti sorprendenti. Si tratta di un procedimento in cui l’intuizione gioca un ruolo fondamentale, come nel caso degli Ephemeral Painting e dei collage digitali di Stop Making Sense. Secondo te, è possibile elaborare una teoria dell’intuizione o dell’improvvisazione?

PDB: Le teorie mi risultano indigeste, ma, allo stesso tempo, non voglio cadere nel tranello filosofico secondo cui anche l’assenza di regole è una regola; quindi ti rispondo semplicemente che se dev’essere improvvisazione che lo sia fino in fondo, senza premeditazione e senza intenzione. Per l’intuizione è leggermente diverso, perché è quel momento in cui abbandoni la logica binaria per abbracciare il paradosso, è quel guizzo che rende chiaro ciò che non lo è, io lo vedo come un calcolo che il tuo cervello elabora mettendo in campo conoscenze, emozioni, cultura, sentimenti e tutto il resto e ti fornisce un risultato a cui razionalmente non saresti mai arrivato.

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IQ: Che cosa distingue il metodo di realizzazione di Stop Making Sense dai processi di scrittura automatica e d’improvvisazione degli artisti surrealisti? Non credi che il processo digitale richieda un minimo di postproduzione e che, quindi, implichi, un lavoro “cartesiano”, come direbbe Franco Bolelli, di riordino e riorganizzazione?

PDB: Come dicevo, il mio è un percorso surrealista. Non ho la presunzione di avere inventato nulla di nuovo. Noto, però, che mentre in passato le correnti artistiche nascevano spesso in antitesi ad altre correnti, oggi le cose sono più diluite, perciò l’appartenenza a una corrente e alla sua metodica non è mai così totale. Io parto da un archivio d’immagini infinito e quindi devo selezionare diversamente. La post-produzione non è in fondo diversa dalla preparazione in pittura se vedi i vari passaggi come tappe di un processo che si serve via via di strumenti diversi. Bolelli quindi c’entra, nel lavoro inevitabile di selezione: davanti a infinite possibilità combinatorie, dobbiamo attivare una maggiore capacità e responsabilità nella scelta.

IQ: Il tuo distinguo sulle correnti artistiche del passato si riferisce al fatto che Italian Newbrow, che più volte ho definito come uno scenario fluido e se vogliamo anche informe, sembra piuttosto un contenitore di biodiversità artistiche, accomunate da un’attitudine aperta e anti-elitaria? Condividi la necessità di questo genere di approccio, diciamo più espansivo e comunicativo?

PDB: “Biodiversità artistiche” mi sembra una definizione azzeccata. Ma tu sei il critico, quello che cerca di definire uno Zeitgeist, io sono l’artista e nella pratica non puoi pensare allo Zeitgeist se speri in qualche risultato. Al di là di questo distinguo, che vuole semplicemente evidenziare i diversi punti di osservazione dello scenario, direi che sì l’arte dovrebbe essere inclusiva anziché esclusiva. Condivido questo tipo di approccio, anche a te allora non interessa il risultato quanto piuttosto continuare la ricerca spostando di volta in volta il confine? Lo stato Beta permenente riguarda anche gli esseri umani non solo i software ed è l’unico modo per evolvere.

Immagine

IQ: Un mio personale cruccio, se vogliamo un nodo non del tutto risolto nell’analisi delle espressioni artistiche contemporanee, consiste nel fatto che la necessità di rivolgersi a un pubblico più vasto rispetto a quello tradizionale dell’arte, può indurre alcuni artisti a rinunciare alla complessità. Mi spiego meglio. Secondo te, un lavoro complesso può essere apprezzato e compreso anche dal pubblico generalista?

PDB: E’ una questione ricorrente, che parte da una premessa sbagliata secondo cui la complessità è sinonimo di qualità. Capisco la tua domanda, ma direi che, oltre a quello che tu chiami pubblico generalista, ce n’è un secondo, altrettanto pernicioso, in cerca di promozione culturale. Il rischio per molti artisti è di individuare il pubblico prima ancora di aver maturato un percorso e, quindi, di indossare di conseguenza il cilicio del perbenismo intellettuale oppure l’abito mondano del “nazional popolare”. Comprendo il tuo cruccio da critico, ma da artista io posso non pormi questo tipo di problema.

IQ: Tornando a Stop Making Sense, una volta espunto l’elemento narrativo a vantaggio di quello formale, credi sia ancora possibile definire “pop” questa serie di opere?

PDB: Non dovrei essere io a definire il mio lavoro, ma se rispondessi “no”, ciò significherebbe che la “qualità pop” delle mie opere dipende dall’elemento narrativo. Al contrario, rispondere “sì” vorrebbe dire che l’aspetto formale è il vero elemento qualificativo. Io ho solo voluto verificare un nuovo percorso che non presuppone un taglio con il passato, ma che anzi vuole lasciare spazio alle diverse forze in gioco. Tempo fa pensavo alla frase di Mies van der Rohe “less is more”, che presuppone una volontà di semplificare e togliere anziché aggiungere. Bene, lo stesso Mies van der Rohe disse anche “God is in the detail”, che per me significa che se vuoi ottenere un effetto di pulizia formale, devi dedicare molta attenzione al singolo dettaglio. A me questa cosa sa di contraddizione. Come dire che per “levare”, devo in realtà “aggiungere”. Quello che sto cercando di fare è semplicemente sfruttare le contraddizioni insite nel mio lavoro per trovare nuovi stimoli di riflessione. Una specie di ecologia del lavoro. “Mess is more”.

IQ: Questo tuo mescolare simultaneamente elementi contraddittori è una caratteristica che fa pensare agli artisti della Leipzig Schule.  Molti pittori di quell’area e, in generale, dell’est Europa sono, per così dire, “simultaneisti” e prediligono un immaginario iconografico pieno di sovrapposizioni e ambiguità semantiche. Avverti quest’affinità elettiva tra te e loro? E come te la spieghi? In fondo, il tuo background storico e culturale è molto diverso da quello degli artisti dell’Est.

PDB: In realtà non me lo spiego. Credo semplicemente che ognuno ha il diritto di scegliere i propri eroi. Neo Rauch ha detto che “Balthus, Vermeer, TinTin, Donald Judd, Donald Duck, Agitprop e l’immondizia della pubblicità dozzinale possono entrare nel paesaggio e generare un conglomerato di sorprendente plausibilità[4]. Rispetto agli artisti dell’Est magari mi manca l’Agitprop, ma posso trovare un sostituto.


[1] Sheldon Kopp, Se incontri il Budda per strada uccidilo, Astrolabio editore, Roma, 1975.

[2] Bruce Mau, Incomplete Manifesto for Growth, http://www.brucemaudesign.com.

[3] Solo n.2, AmC Collezione Coppola, Treviso, 2012.

[4] Intervista a Neo Rauch, Flash Art n. 252, Giancarlo Politi Editore, 2005, Milano

Assalto al Museo: dal Surreal Pop all’Italian Newbrow

4 Nov

Su RUMORE n. 250 di novembre, una approfondita ricognizione di Vittore Baroni nei meandri dell’Italian Newbrow e del pop surrealismo nostrano, a cavallo tra arte e musica….

All’interno, una guida alla lettura, alla visione e all’ascolto Lowbrow…

ecco l’articolo:

Rumore n. 250_Italian Newbrow