Giuseppe Veneziano. Storytelling

28 Gen

di Ivan Quaroni

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L’ultimo selfie, 2018_acrilico su tela, cm 90×180

Tutta la grande pittura occidentale, dall’antichità al Rinascimento, è stata “narrativa”, nel senso che le immagini dipinte servivano a raccontare vicende di carattere religioso, mitologico o allegorico. Dunque, molto tempo prima della nascita della cosiddetta “pittura storica”, che si afferma nella metà del XIX secolo col proposito di raccontare episodi della cronaca antica o recente, la pittura era considerata inscindibile da un contenuto narrativo, fosse esso desunto dalla historia(che comprendeva i cicli biblici e religiosi) oppure dallafabula(che includeva miti e leggende).

Già nel 1436, nel suo trattato sulla pittura, Leon Battista Alberti rimarcava l’importanza della “storia” intesa come rappresentazione delle interazioni tra figure, identificabili attraverso i gesti e le espressioni dei personaggi. “Sarà la istoria, qual tu possa lodare e maravigliare, tale che con le sue piacevolezze si porgerà si ornata e grata, che ella terrà con diletto e movimento d’animo qualunque dotto o indotto la miri”. Con queste parole del libro secondo del De Pictura, il grande architetto e umanista riconsegnava alla pittura – semmai ce ne fosse stato bisogno – il compito di raccontare storie intendibili tanto dalle persone colte, quanto da quelle incolte.

Oltre un secolo dopo, per la precisione nel 1593, l’accademico Cesare Ripa ordinava un sistema d’interpretazione delle immagini, dando alle stampe il suo Iconologia overo Descrittione dell’Imagini Universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi. Il trattato di Ripa inaugurava, di fatto, la disciplina iconologica più tardi approfondita da Aby Warburg ed Erwin Panofsky, consistente in una branca della storia dell’arte dedita all’analisi e interpretazione delle immagini, dei simboli e delle figure allegoriche. Tale fatto dimostrava che, fin dalle origini, le immagini artistiche non erano mai state disgiunte da un contenuto narrativo e simbolico e che la pittura e la scultura correvano su binari paralleli alla letteratura, raccontando eventi reali o immaginari che adombravano molteplici significati, alcuni evidenti, altri occultati. Così è stato fino a tutto il XIX secolo, cioè fino all’affermarsi della stagione impressionista e alla successiva (e definitiva) “cesura” delle avanguardie storiche che interrompono il tradizionale rapporto dell’arte con la Storia e con le storie.

L’arte moderna, quella dei vari –ismi che segnano il primo ventennio del Novecento, inaugura, infatti, un nuovo modo d’intendere le immagini. Il metro di giudizio diventa il cambiamento, la misura della novità è la divergenza, se non addirittura il divorzio, col passato. Insomma, l’opera d’arte moderna recide ogni legame con l’antico in nome di un presente indefinibile e di un futuro difficilmente ipotecabile. Così, il progetto iconoclasta delle avanguardie non solo archivia definitivamente la propensione al racconto, ma si sottrae alla costruzione di nuovi modelli narrativi, privilegiando gli aspetti tecnici e formali della sperimentazione e riducendo, così, la prassi artistica a una questione meramente linguistica.

Il culmine di questo processo dissolutivo si consuma con le avanguardie astratte e col dadaismo che, rispettivamente, svuotano l’arte di ogni contenuto mimetico e di ogni valore tecnico. Per Jean Clair, l’affermarsi dell’astrazione “non ha avuto come unico risultato di far sì che l’opera d’arte non fosse più una lente privilegiata attraverso la quale percepire il mondo […], essa è stata anche un impoverimento del potere diacritico dell’occhio di percepire dei colori e dei materiali, di riconquistare, cioè, il tessuto carnale del mondo”.  D’altro canto, proprio con le sperimentazioni Dada, “la perdita del mestiere, la degradazione dei materiali non hanno fatto altro che accompagnare in modo ineluttabile il restringersi progressivo del progetto perseguito dell’arte”[1].

L’opera di Giuseppe Veneziano non si può comprendere senza valutare le conseguenze prodotte dalla “cesura” avanguardista su tutta l’arte contemporanea in termini di progressivo svuotamento di senso e di persistente svalutazione dei contenuti narrativi e figurativi. Non che il Novecento non sia stato prodigo di voci dissonanti, di movimenti di ritorno che, dalla Metafisica alla Nuova Oggettività, dal Realismo magico al gruppo di Corrente, non abbiano tentato a più riprese di ristabilire un rapporto col passato, ricostruendo, insieme alla figura e alla mimesi, anche l’antica vocazione narrativa della pittura. Il fatto è che, a tutt’oggi, il sistema valoriale dell’arte contemporanea tende a relegare quell’antica vocazione a pratiche, considerate a torto limitrofe, come il fumetto e l’illustrazione, arrivando perfino a dissuadere chi pratica la pittura figurativa da ogni tentazione narrativa. Quel che persiste oggi dell’ideologia avanguardista è l’impossibilità di ripristinare una visione unitaria del mondo, di ricostruire un’ipotesi narrativa coerente per descrivere una realtà sempre più frammentata e policentrica. Una realtà che, secondo la teoria postmodernista di Jean-François Lyotard, ha preso atto della fine delle grandi narrazioni (Illuminismo, Idealismo, Marxismo) che avevano garantito la coesione sociale e ispirato le utopie rivoluzionarie.

Su queste macerie s’innesta il tentativo di ricostruzione di Giuseppe Veneziano, che recupera gli antichi modelli narrativi della pittura, adattandoli, però, alle disjecta membradi un presente frantumato, polverizzato dalla crisi dei vecchi sistemi. Nella sua pittura, il richiamo alla grande tradizione del passato, quella di Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Caravaggio, convive con la lezione moderna di Millet, Van Gogh, Magritte e Dalì, con quella pop di Warhol e Basquiat e, infine, perfino con quella concettuale di Duchamp, Beyus e Cattelan. È, in verità, la storia dell’arte, in tutta la sua estensione, dall’antichità alla contemporaneità, a fare da tessuto connettivo delle sue narrazioni, a fornire una piattaforma su cui irrompono, prepotentemente, le figure e gli emblemi dell’attualità. Tuttavia, la sua non è un’operazione banalmente citazionistica, basata sulla riproposizione d’immagini riconoscibili. Non si può davvero affermare che i suoi siano semplici ready madeiconografici, perché ogni immagine saccheggiata viene alterata, ibridata, riformulata e adattata alle urgenze espressive del momento attraverso una tecnica che ricorda i mash-upmusicali, composti da campionamenti di uno o più brani preregistrati. Nonostante ciò, nella sua pittura, il campionamento d’immagini non è mai pedissequo, ma costituisce, piuttosto, il punto di partenza per la costruzione di un racconto iconografico inedito, spesso legato a un’interpretazione critica dell’attualità.

Dipinti come L’ultimo selfie (2015), La pietà di Michael Jackson (2010), La melancolia di Basquiat (2011) e La cosa più bella di Firenze è Mc Donald’s(2018), tanto per fare qualche esempio, confermano questa sorprendente capacità d’innesto iconografico, questa straordinaria abilità combinatoria che diventa ingrediente essenziale del racconto e, insieme, anello di congiunzione tra modelli compositivi classici e sensibilità contemporanea.

La vocazione narrativa della pittura di Veneziano soddisfa due distinte necessità, da una parte quella, forse più specialistica, di riaprire un dialogo con la tradizione artistica del passato, soprattutto italiana, e dall’altra quella di riallacciare i legami col pubblico, interrotti dalle avanguardie artistiche del Novecento e poi dalle sperimentazioni concettuali del secondo dopoguerra. Sull’esempio degli affreschi del Medioevo e del Rinascimento, ma potremmo dire anche della grande tradizione figurativa greco-romana, Veneziano recupera modelli iconografici capaci di comunicare attraverso una narrazione comprensibile, come affermava Leon Battista Alberti, ai “dotti” e agli “indotti” o, per meglio dire, suscettibile di vari livelli d’interpretazione. Per questo motivo l’artista siciliano si serve di personaggi e simboli riconoscibili che appartengono all’immaginario collettivo, usandoli come elementi di una grammatica visiva universale. Chiunque, in qualunque parte del globo, può riconoscere un supereroe dei fumetti, una principessa disneyana o un personaggio dei manga, così come chiunque può identificare il logo di McDonald’s, il monogramma di Dolce e Gabbana o il simbolo della Apple. Lo stesso si può dire di personaggi storici come Garibaldi, Lenin, Hitler e Mussolini, di eminenti capi di stato come Putin, Trump o il Papa, di superstar come Michael Jackson, Madonna o Lady Gaga e, infine, di artisti iconici come Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat o Frida Kalho. Sono immagini oggi codificate dai mass media, reiterate attraverso il cinema, i canali televisivi, il web e la stampa, così come un tempo erano codificati dall’arte i personaggi dei racconti biblici e mitologici. In pratica, in un’epoca dominata dalla comunicazione massmediatica e dalla presenza di strumenti d’informazione pervasivi, Veneziano restituisce alla pittura il compito di interpretare la realtà, spesso insistendo sugli aspetti più ambigui della società, insinuando dubbi e incertezze che sviluppano il senso critico dell’osservatore, affrancandolo dalla condizione di consumatore passivo d’immagini (e informazioni).

Quella di Veneziano è, peraltro, una tecnica che deve molto al mondo dei mass media e, in particolare, a meccanismi pubblicitari persuasivi come lo Storytelling, una forma di comunicazione che usa la narrazione per trasmettere contenuti in modo che sia direttamente il pubblico a comprendere il messaggio, senza che questo sia apertamente dichiarato dall’autore. Nei suoi dipinti, infatti, il messaggio non è mai dichiarato. Anzi, spesso è un messaggio ambiguo, che esprime dubbi e perplessità su questioni non facilmente risolvibili, su problemi di ordine etico, estetico e perfino erotico che servono a stimolare un dibattito, a suscitare un contraddittorio tra i portatori di differenti, talvolta perfino antitetiche, interpretazioni. Tuttavia, si tratta di un meccanismo intuitivo, non di uno stratagemma che l’artista progetta nei minimi dettagli, magari identificando un target di pubblico specifico. Il più delle volte, questa particolare abilità narrativa è il risultato di un tormento o di un’ossessione personale che Veneziano traduce in immagini chiare e comprensibili, ma mai del tutto lineari. Immagini che lasciano spazio a una pletora di significati contraddittori, come nel caso di Merda d’artista (2017), dove non è chiaro se il titolo rubato a una celebre opera di Piero Manzoni sia un giudizio di merito sul duchampiano cesso d’oro di Cattelan o semplicemente un dotto riferimento ai contenuti scatologici di certa arte concettuale. Oppure come in L’ultimo selfie (2018), dove le immortali posture degli apostoli leonardeschi forniscono all’artista uno spunto per riflettere sull’impoverimento delle abitudini conviviali e sul decadimento dei tradizionali riti di socializzazione. Insomma, sono moltissimi gli esempi di cortocircuito interpretativo innescati dai dipinti dell’artista siciliano e le radici di questa sua abilità narrativa vanno ricercate nei suoi esordi di fumettista e vignettista satirico.

All’inizio della sua carriera, prima di scegliere definitivamente la strada dell’arte, Veneziano è stato un abile disegnatore. In parte aiutato dalla sua attività d’architetto, in parte sostenuto dalla sua passione per il fumetto (quello di Andrea Pazienza in primis), Veneziano ha usato il disegno non solo per progettare, ma soprattutto per raccontare storie: alcune di lungo respiro, come la sua ormai introvabile Storia di Riesi a fumetti (Paruzzo editore, Caltanissetta, 1999), altre immediate e fulminee, come le vignette satiriche pubblicate sulle pagine del Giornale di Sicilia e della rivista Stilos. Disegnare è stata, dunque, la sua prima palestra artistica, un modo, come sostiene Jean Clair, “di abolire le distanze tra se stesso e la realtà” e di “vedere” e conoscere il mondo. Dall’arte sequenziale del fumetto, nasce, quindi, la sua capacità di raccontare con le immagini la società contemporanea, spesso cogliendo collegamenti imprevisti e insospettabili relazioni al confine tra verità e immaginazione. È, invece, nei colori forti della Sicilia che si è forgiata la sua sensibilità pittorica, tutta giocata su contrasti cromatici squillanti, in parte derivati dalle sgargianti decorazioni dei carretti e dell’artigianato popolare. La prima forma di arte sequenziale Veneziano l’ha probabilmente vista sulle tavole lignee di quei rudimentali mezzi di trasporto che recavano, dipinti in colori accesi, episodi delle vicende bibliche e mitologiche, dell’agiografia dei santi, della Chanson de Rolande delle Crociate, ma anche delle imprese garibaldine, dei Vespri siciliani e di altri innumerevoli episodi storici. Più tardi la scoperta delle metope di Selinunte, le formelle scolpite (e in origine anche dipinte) che decoravano i templi dell’acropoli con le vicende e i personaggi della mitologia greca, avrebbe confermato l’origine strettamente siciliana della sua attitudine narrativa. Veneziano è spesso considerato un artista pop, ma è chiaro che il suo immaginario pittorico è figlio dell’arte antica e popolare della sua terra, più di quanto lo sia della pittura americana degli anni Sessanta. Nonostante i molti riferimenti alla cultura di massa statunitense (dalla Disney ai supereroi, dai simboli del consumismo a personaggi della politica a stelle e strisce come Trump e Obama), la sua pittura si regge su una solida impalcatura italiana, sulle radici di una tradizione figurativa che spazia dalla Magna Grecia a Guttuso, passando per le fondamentali lezioni del Rinascimento e del Barocco. I suoi temi iconografici sono gli stessi della mitologia pagana e della religione cristiana, ma i contenuti e le figure sono rivisitati e adattati alle esigenze narrative del presente. Veneziano, più e meglio di altri artisti, ha capito che i modelli antichi sono ancora funzionali e si adattano, ora come allora, a descrivere il dramma e la commedia, il sublime e il prosaico, l’eroico e il ridicolo delle nostre esistenze. Insomma le eterne vicende che accompagnano l’uomo dall’alba dei tempi fino a questa nostra, inafferrabile, modernità liquida.


NOTE

[1] Jean Clair, Critica della modernità, 1994, Allemandi, Torino, p. 83.


INFO:

Giuseppe Veneziano. Storytelling
A cura di Ivan Quaroni
Palazzo Ducale
Piazza Degli Aranci 35, Massa (MS)
2-24 febbraio 2019
Inaugurazione: sabato 2 febbraio, ore 18.00
Orari: da martedì a domenica ore 10.30-12.30 e 16.30-18.30
Ingresso libero
Con il patrocinio del Comune di Massa
Catalogo con testo di Ivan Quaroni disponibile in mostra

URP Comune di Massa
Tel. 800 013846
www.comune.massa.ms.it
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