di Ivan Quaroni
L’eco dei ricordi, 2024, olio su tela, 150×100 cm
Fin dall’antichità, il volto è stato considerato la manifestazione più completa della vita interiore e della spiritualità umana: il luogo in cui emozioni, pensieri e stati d’animo prendono forma visibile attraverso la morfologia anatomica. Come afferma Juan Eduardo Cirlot, “il volto di per sé simboleggia l’«apparire» dell’anima nel corpo, il manifestarsi della vita spirituale” [1]. In questo sistema simbolico, gli occhi occupano un ruolo centrale come fulcro visivo ed espressivo. Plotino sosteneva addirittura che l’occhio non potrebbe vedere il sole se non fosse, a suo modo, esso stesso un sole. Un apparente paradosso che Cirlot spiega così: “Se il sole è faro di luce, e la luce è simbolo dell’intelligenza e dello spirito, l’atto di vedere esprime una corrispondenza con l’azione spirituale e simboleggia, quindi, il comprendere” [2].
Questo valore simbolico, indagato da artisti e pensatori nel corso dei secoli, trova oggi una nuova interpretazione nella pittura di Daniela Volpi, artista che recupera l’aspetto ideale e archetipico del volto, ricollegandosi alle antiche origini della ritrattistica.
In effetti, il ritratto greco, nelle sue prime forme, si presentava come un’effigie priva di caratteri distintivi, che non aspirava a suggerire alcuna somiglianza fisiognomica tra il soggetto e la sua rappresentazione. Solo con l’epoca classica i Greci avviarono la rivoluzione della mimesis, introducendo un realismo che però conservava una tensione idealistica, rendendo i soggetti rappresentati non ascrivibili a un individuo specifico. Fu solo nella romanità che il ritratto assunse la forma di rappresentazione fisiognomica di persone reali, distinguendosi dai prototipi di bellezza ideale dei greci.
Ombre di un altro tempo, 2024, tecnica mista su tela, 100×150 cm.
Tuttavia, nelle epoche successive, l’elemento idealistico continuò a contaminare l’approccio realistico almeno fino all’Ottocento, grazie al diffondersi di modelli tradizionali codificati dalla trattatistica tecnica, formata per lo più da manuali di disegno e pittura. Dal Cinquecento fino all’alba del Romanticismo, infatti, questi modelli fungevano da base schematica per l’artista, che li integrava con le necessarie osservazioni dal vero. Il metodo realistico era, quindi, il risultato di una progressiva correzione dello schema classico. Come spiega lo storico dell’arte Ernst H. Gombrich, “La rivoluzione greca [cioè realistica] può aver cambiato la funzione e le forme dell’arte, ma non poteva cambiare la logica del fare immagine, il semplice fatto, cioè, che senza una materia e senza uno schema che possa essere abbozzato e modificato, nessun artista potrebbe imitare la realtà”[3].
La pittura di Daniela Volpi, in un certo senso, si riconnette all’idea antica di ritratto ideale, immagine che non aderisce all’identità di un singolo, ma semmai incarna quell’archetipo di bellezza che i greci compendiavano nel concetto di kosmos, un “ordine”, e insieme un “ornamento”, quasi complessione di armonia ed eleganza.
Nella pratica artistica di Daniela Volpi, il ruolo dei modelli, degli schemi riproposti dalla trattatistica, è assunto da immagini che rimandano, in parte, alla moderna comunicazione massmediatica. Sono facce e volti che sembrano sottratti alla catena della mercificazione capitalistica per essere sottoposti a una radicale revisione, a un’alterazione profonda della loro funzione d’uso. Questi “modelli” contemporanei, che non si possono confondere con quelli di altre epoche, tanto da ricordare certe fisionomie proposte dalle riviste di moda o dalla pubblicità del nostro tempo, sono opportunamente modificati e trasfigurati per essere, infine, restituiti a una dimensione simbolica e sacrale del corpo umano.
Fragilità e potenza, 2024, acrilico su tela, 100×70 cm
La loro anonimia è il risultato di un processo di sublimazione del ritratto che si oppone ai moderni meccanismi di reificazione dell’immagine femminile. In un mondo dove il volto e il corpo delle donne sono costantemente mercificati, venduti come prodotti dell’industria cosmetica – e si pensi qui a come sia stato distorto l’etimo originale di questo aggettivo – o alla peggio, di quella pornografica, l’operazione di Daniela Volpi non può che assumere un significato etico. L’artista riesce, infatti, a dissolvere l’originaria patina glamour di certi ritratti, trasmutando, quasi alchemicamente, le fisionomie in effigi che alludono alla dimensione più intima e recondita della personalità femminile. Dipinti dai titoli emblematici come Fragilità e potenza, Ombre di un altro tempoo L’eco dei ricordi sono ben lontani dalla tradizione del ritratto veristico. La pittura stessa si avvale di espedienti espressionistici, come, ad esempio, l’aggiunta di ampie campiture blu su parte del viso oppure di velature rosse che lampeggiano sull’epidermide, esplosioni cromatiche elementi astratti e antinaturalistici che stemperano l’impianto realistico di questi ritratti. Anche lo sfondo monocromo e uniforme, privo di ambientazione, contribuisce a sospendere questi volti in una dimensione immateriale, di valore puramente paradigmatico, da cui affiora, come elemento focale, lo sguardo, convenzionalmente interpretato come il riflesso più autentico dell’anima.
In dipinti come Reminiscenza, Altrove e Andréas, i volti rappresentati dall’artista hanno sguardi frontali e diretti che irretiscono l’osservatore, obbligandolo a un dialogo silente con l’effige femminile. Un dialogo che, fatalmente, si traduce in una meditazione sulla natura della bellezza che, come ha scritto il filosofo Stefano Zecchi, “è una domanda radicale di significato non riducibile in termini psicologici”[4]. La capacità dell’artista di trasmettere questa irriducibilità della bellezza attraverso lo sguardo, una “soglia” tra l’interiorità e il mondo esterno, e dunque tra il visibile e l’invisibile, è anche un modo per esprimere in immagine quello che James Hillman ha definito “il codice dell’anima”[5].
Evanescenza, 2025, acrilico su tela, 120×100 cm.
L’intensità emotiva dei volti muliebri di Daniela Volpi è in parte dovuta al fatto che ogni viso è concepito come un’entità autonoma, frutto di un processo intuitivo e creativo che si sviluppa come un corpo a corpo con l’immagine che lentamente s’imprime sulla tela. Per l’artista, infatti, il processo pittorico coinvolge qualcosa di più della semplice tecnica: è un viaggio interiore in cui l’intuizione e la riflessione giocano un ruolo fondamentale. In questo senso, la pittura di Daniela Volpi si configura come una risposta al bisogno umano di connessione e comprensione reciproca. Il gradiente affettivo che permea le sue opere rappresenta un invito a guardare oltre l’apparenza, a scoprire la verità e la complessità dell’essere umano in tutta la sua vulnerabilità e profondità. Come dimostra anche uno dei suoi ultimi dipinti, intitolato Introspezioni proiettive, dove per la prima volta non un viso, ma un corpo nudo, fragile e tormentato, diventa specchio di una condizione esistenziale dolente e, insieme, simulacro della natura imperitura e incorruttibile dell’anima.
[1] Juan Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli, 2021, Adelphi, Milano, p. 492.
[2] Ivi, p. 330.
[3] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Traduzione di Renzo Federici, 1965, Einaudi, Torino, p. 181.
[4] Stefano Zecchi, Dopo l’infinito cosa c’è, Papà? Fare il padre navigando a vista, 2012, Mondadori, Milano,
[5] James Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione e destino, 2009, Adelphi, Milano
Museo Mille Miglia, Brescia









