Nella chiesa di Santo Spirito, ai piedi della Polittico della Pentecoste dipinto da Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, l’artista contemporaneo Vanni Cuoghi ha immaginato una fioritura di foglie giganti di salvia. Le foglie, realizzate in legno sagomato e dipinte ad acrilico e olio, assolvono la funzione di quinte teatrali. L’artista mette qui letteralmente in scena la propria pittura, creando un muto dialogo con l’opera del Bergognone, pittore lombardo che lavorò con Bramante alla decorazione della chiesa di Santa Maria presso San Satiro a Milano intorno alla metà dell’ultimo decennio del XV secolo. Com’è noto, la chiesa milanese è celebre per lo sfondamento prospettivo dell’abside cieca dietro l’altare, dove il grande architetto del Rinascimento ricreò illusionisticamente, con la tecnica del basso rilievo, una volta a botte con il soffitto a cassettoni. Questo stesso motivo compare nello sfondo architettonico del Polittico della Pentecoste, che rappresenta, come recita il titolo dell’opera, la Discesa dello Spirito Santo sulla Madonna e sugli Apostoli.
Salviamoci!, 2024, acrilico e olio su tavola, dimensioni variabili
Il dipinto su tavola sagomata di Cuoghi è pensato appositamente per gli spazi della Cappella in cui è conservato il grande dipinto a otto scomparti commissionato da Domenico Tassi. L’installazione pittorica interloquisce con l’opera del Bergognone su due distinti livelli, uno spaziale e prospettico, l’altro tematico e simbolico. Da una parte, infatti, l’opera di Cuoghi amplifica la percezione tridimensionale della pala d’altare, creando una relazione con il vertiginoso scorcio prospettico della volta sovrastante la Vergine, dall’altra enfatizza, dal punto di vista narrativo, il messaggio salvifico implicito nel polittico. La salvia è una pianta della famiglia delle Laminaceae che deriva il proprio nome dal termine latino salvus, che significa “salvo”, “sicuro”, “sano”. Conosciuta fin dall’antichità per le sue proprietà salutari e comunemente usata dai Latini, che la consideravano un’erba sacra, la salvia rimanda, infatti, foneticamente al verbo “salvare”. Cuoghi crea dunque un legame tra l’allusione salvifica cui sottende l’immagine di questa pianta aromatica e l’effusione dello Spirito Santo, superbamente raffigurata dal Bergognone, che simboleggia il suggello del significato dell’opera salvifica di Cristo e della rivelazione del mistero della Divinità.
Come scrive l’artista: “Viviamo in un momento storico complesso, sorretto da fragili equilibri che potrebbero venire a mancare da un momento all’altro e siamo anche reduci da una pandemia che ha segnato le nostre vite, modificando le abitudini e rendendoci diffidenti nei confronti dell’altro. Come se non bastasse, conflitti e nuove guerre bussano alle porte di casa nostra e una grave crisi climatica minaccia l’intero pianeta. Ecco, quindi che la mia opera assume un taglio politico, diventando un’allegoria della salvezza”.
Oltre al collegamento con il tema iconografico della pala d’altare, l’opera intitolata Salviamoci! testimonia anche la particolare predilezione di Vanni Cuoghi per la creazione di una pittura espansa, capace, cioè, di dialogare con lo spazio assumendo forme di volta in volta nuove, che travalicano il perimetro fisico in cui solitamente è confinata la pittura da cavalletto. Questa attitudine dell’artista deriva dagli studi in Scenografia intrapresi all’Accademia di Brera e da successive esperienze nell’ambito della decorazione e della pittura murale, che hanno segnato in maniera inequivocabile la sua ricerca artistica, sempre attenta a considerare lo spettatore come una parte attiva nel processo di fruizione, attraverso l’interpretazione, se non addirittura, la creazione di nuovi significati.
Salviamoci, 2024, stampa digitale su carta cm 50×35
VANNI CUOGHI | SALVIAMOCI!
BERGAMO – CHIESA DI SANTO SPIRITO – 30 NOVEMBRE 2024 – 12 GENNAIO 2025
DALMINE – SPAZIO BART presso AZ CHIMICA – 23 NOVEMBRE 2024 – 12 GENNAIO 2025
Dal 30 novembre 2024 al 12 gennaio 2025, la Chiesa di Santo Spirito a Bergamo, chiesa in stile rinascimentale situata nella piazza omonima, all’incrocio tra via Pignolo e via Torquato Tasso, ospita il progetto espositivo di Vanni Cuoghi (Genova, 1966) dal titolo Salviamoci! Curata da Marco Fioretti e con un testo e un intervento critico di Ivan Quaroni, la rassegna si sviluppa in due momenti, il primo da sabato 23 novembre 2024 con la presentazione del progetto e un’esposizione di alcune opere dell’artista presso BART, spazio espositivo dell’azienda AZ Chimica a Dalmine (BG) e il secondo che inaugurerà il 30 novembre 2014, con una grande installazione, posizionata ai piedi della Polittico della Pentecoste di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, nella chiesa di Santo Spirito a Bergamo.
Lusesita, Dreaming with the Swan Trip, 2024, ceramica smaltata
Lusesita (nata a La Rioja, Spagna, nel 1979) e Daphne Christoforou (classe 1992 e originaria di Nicosia, Cipro), sono artiste che usano la ceramica per realizzare opere ispirate alle fiabe e alla mitologia classica. Entrambe usano l’immaginario fantastico tradizionale, adattandolo alle necessità espressive della modernità. Di fatto, nei loro lavori, diversi per tecnica e stile, l’Epos e il folclore diventano filtri o lenti d’ingrandimento per interpretare il presente ed il rapporto tra vissuto personale e dimensione universale.
Lusesita, Candy Mermaid, 2024, ceramica smaltata
Lusesita costruisce un universo scultoreo sognante e delicato sotto cui si celano significati più complessi e, a tratti, perturbanti. Le sue ceramiche smaltate, ricche di rimandi simbolici e fiabeschi, sono popolate da figure ibride e da animali fantastici, immersi in una lattiginosa dimensione onirica. L’artista spagnola usa, infatti, colori pastello e tinte opalescenti per creare forme morbide, che adombrano, però, tensioni latenti e turbamenti emotivi.
Le sue figure, per lo più sirene, unicorni, cigni o chimere, sono allegorie che fanno da ponte tra l’immaginario infantile e la dimensione inconscia dell’adulto. Infatti, mentre opere come Candy Mermaid e Little Unicorn attingono evidentemente a miti e leggende antichi, pezzi come Crazy Summer Vacations, Evil Spent Repelent e Dreaming with the Swan Trip, mostrano il talento inventivo e combinatorio dell’artista. Lusesita coniuga la dimensione artigianale e quella concettuale, da vita a un originale linguaggio immaginifico, in cui si fondono memorie e impressioni individuali con simboli ed archetipi collettivi.
Dal canto suo, Daphne Christoforou sviluppa una grammatica plastica che reinterpreta in modo ironico e spiazzante l’antica tradizione vascolare greca. Per l’artista, infatti, l’Epos classico non è una materia inerte, ma una continua fonte d’ispirazione che le permette di reinterpretare nuovi miti contemporanei. I suoi vasi sono allegorie di un Olimpo in crisi, dove le divinità affrontano un presente carico di contraddizioni e dubbi. In Ideal Pump, ad esempio, l’artista mostra gli dèi alle prese con i nuovi canoni estetici imposti dalla cultura del fitness. Zeus, Apollo, Hermes, Afrodite e Artemide, dèi che un tempo rappresentavano l’ideale di bellezza e armonia, soccombono alle odierne ossessioni estetiche, sempre più soggette a mode e gusti mutevoli e passeggeri. Nelle opere intitolate Narcissus e Hephaestus, l’artista evidenzia i temi della vanità e del rifiuto dell’estetica tradizionale. Se il primo vaso allude al narcisismo che domina buona parte della società attuale, il secondo – in cui Efesto rifiuta di eseguire le richieste della committenza per dedicarsi alla propria ricerca -, può essere interpretato come una impietosa critica dell’individualismo dell’arte contemporanea e della sua sottovalutazione dell’abilità tecnica. Insomma, Christoforou usa l’iconografia classica come strumento di analisi culturale, evidenziando, con intelligenza e ironia, la complessità contemporanea.
Pur muovendosi su piani paralleli, le ricerche plastiche di Lusesita e Daphne Christoforou si rivelano, per molti aspetti, complementari. Entrambe modellano la ceramica per narrare storie universali, in cui passato e presente s’incontrano sul piano di un’immaginazione fantastica e irriverente. Lusesita, con il suo surrealismo poetico, esplora la tensione tra innocenza e inquietudine nelle fiabe, mentre Daphne Christoforou, attraverso il filtro epico, svela i capricci e le manie della società dei consumi. L’una e l’altra ci dimostrano che il perpetuarsi di fiabe e miti nella società odierna si deve alla loro capacità di restare, in ogni epoca, i migliori strumenti d’interpretazione critica della realtà.
Daphne Christoforou, Saving the Mortals, 2023, ceramica smaltata
Lusesita (born in La Rioja, Spain in 1979) and Daphne Christoforou (born in 1987, a native of Nicosia, Cyprus), are artists who use ceramics to make works inspired by fables and classical mythology. Both use the fantasy imagery of the tradition, adapting it to the expressive needs of the modern world. In their creations, differing in technique and style, epos and folklore become filters or magnifiers to interpret the present and the relationship between personal experience and a universal dimension.
The Spanish artist uses pastel colors and opalescent hues to create soft forms that contain veiled latent tensions and emotional shadings. Her figures, mostly mermaids, unicorns, swans or chimeras, are allegories that bridge the gap between childhood imagination and the unconscious dimension in adults. While works like Candy Mermaid and Little Unicorn clearly draw on age-old myths and legends, pieces like Crazy Summer Vacations, Evil Spell Repellent and Dreaming with the Swan Trip demonstrate the artist’s inventive and combinatory talents. Lusesita brings together artisanal and conceptual approaches, giving rise to an original and imaginative language, which blends individual memories and impressions with collective symbols and archetypes.
Daphne Christoforou, on the other hand, develops a plastic grammar that reinterprets the ancient Greek tradition of pottery in an ironic and disorienting way. For the artist, the classic epos is not inert matter, but a continuing source of inspiration that permits her to reinterpret new contemporary myths. Her pots are allegories of an Olympus in crisis, where the divinities come to terms with a present full of contradictions and doubts. In Ideal Pump, for example, the artist shows the gods as they adapt to the new aesthetic canons imposed by the culture of fitness. Zeus, Apollo, Hermes, Aphrodite and Artemis, divinities that once represented the ideal of beauty and harmony, succumb to current aesthetic obsessions, increasingly governed by changing and passing fashions. In the works titled Narcissus and Hephaestus, the artist underlines the themes of vanity and the rejection of traditional aesthetics. While the former alludes to the narcissism that rules over a large part of today’s society, the latter – in which Hephaestus refuses to carry out the requests of the client, opting to conduct his own research – can be interpreted as a merciless critique of the individualism of contemporary art, with its underestimation of the value of technique. In short, Christoforou uses classic imagery as a tool of cultural analysis, addressing contemporary complexity with intelligence and irony.
Though moving on parallel planes, the sculptural researches of Lusesita and Daphne Christoforou prove in many ways to be complementary. Both shape clay to narrate universal stories, in which past and present meet on the plane of fantastic and irreverent imagination. Lusesita, with her poetic surrealism, explores the tension between innocence and disquiet in fables, while Daphne Christoforou, through an epic filter, reveals the whims and manias of the society of consumption. Both demonstrate that the perpetuation of fables and myths in today’s society relies on their ability to remain, in any era, the best tools for a critical interpretation of reality.
Nicola Caredda, Sauvage, 2024, acrilico su tela, 120×100 cm
La pittura in Italia è tornata d’attualità. Lo testimoniano le numerose mostre ad essa dedicate nelle gallerie d’arte e le recenti rassegne istituzionali che, però, puntano più sulla quantità che sulla qualità. Si mappano le nuove generazioni, si cercano legami con le tradizioni immediatamente precedenti, si tenta, un po’ a fatica per la verità, di individuare temi e iconografie ricorrenti, ma la pittura è un’arte difficile. “Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia)”, scriveva Giorgio De Chirico, “non si risolve a chiacchiere e facilonerie”[1]. Il magistero della pittura richiede sacrificio e duro lavoro, perciò un buon criterio di selezione dei pittori odierni non dovrebbe basarsi unicamente su presupposti anagrafici, ma qualitativi.
Silvia Paci, La Maga Armida, 2023, olio su tela, 136×205 cm
Già, ma come si definisce la qualità in pittura? E soprattutto chi può definirla? “Viviamo in un paese in cui ciascuno crede di sapere qualcosa di pittura, e quindi di poter dire la sua”, o almeno così la pensava Federico Zeri, secondo cui “è frequentissimo che, qui da noi, si parli di opere d’arte senza un’adeguata preparazione, senza cioè avere educato l’occhio alla lettura del fatto figurativo”[2]. Se a questo si aggiunge la favorevole congiuntura che ha riportato la pittura alla ribalta delle cronache e che, inevitabilmente, ha prodotto nuove schiere di accoliti – non solo tra gli artisti più giovani, ma perfino tra i galleristi (improvvisamente fulminati sulla via di Damasco) e tra i curatori à la page (che giurano di essere, fin dalla prima ora, strenui difensori di questa pratica secolare) – riuscire a compiere una selezione, a separare, come si dice, il grano dal loglio, diventa un’impresa davvero difficile. Ma se a farlo è una galleria come quella di Antonio Colombo, che dal 1998, anno della sua fondazione, ha ospitato le mostre dei migliori pittori italiani, e un curatore, come il sottoscritto, che non ha mai fatto mistero della sua marcata predilezione per quadri e pittori, potrebbe venirne fuori qualcosa di buono.
Paolo Pibi, Die inneren augen, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Sotto il magniloquente titolo di Pittori d’Italia e l’ironico sottotitolo Giovani, giovanissimi… anzi maturi – tributo all’arguzia di Ennio Flaiano e al celebre paradosso (Certo, certissimo… anzi probabile) con cui lo scrittore e giornalista abruzzese evidenziava il labile confine tra il vero e il falso – abbiamo riunito dodici giovani e meno giovani pittori italiani in un compendio minimo. Una mostra che non vuole essere la versione tridimensionale di un atlante, di un almanacco o di un regesto ambizioso della nuova pittura del Belpaese, ma semmai un laicissimo Libro d’Ore, con dodici artisti che più diversi non si può, a incarnare la devozione verso il più antico dei linguaggi visivi.
El Gato Chimney, Street Madness, 2023, gouache e acquerello su carta cotone, 70×50 cm
Sono artisti che provengono da varie regioni d’Italia, alcuni dei quali hanno vissuto o vivono ancora all’estero, a dimostrazione che se un genoma italico della pittura esiste, non può che essere spurio, contaminato, ibrido. Nessun genius loci e tantomeno nessuna definizione di una presunta “pittura sovranista” (come qualcuno ha tentato di fare) può descrivere le complesse circostanze che hanno contribuito alla loro formazione. Per fortuna, nessun pittore la cui arte sia intimamente italiana ha mai dovuto esibire un certificato di cittadinanza. Si ricorderà che Giorgio De Chirico dipingeva le sue “Piazze d’Italia” dalle sponde della Senna, senza per questo essere meno italiano, lui che in Italia non ci era nemmeno nato.
Melania Toma, Luna-Creature, 2023, pigmenti, carboncino, fibre di lana e olio su tela, 180×150 cm
108 (Guido Bisagni), Nicola Caredda, El Gato Chimney, Jacopo Ginanneschi, Agnese Guido, Dario Maglionico, Fulvia Mendini, Riccardo Nannini, Silvia Negrini, Silvia Paci, Paolo Pibi e Melania Toma sono artisti di generazioni differenti – nati tra il 1966 e il 1996 -, ognuno dei quali rappresenta un approccio, un linguaggio o uno stile singolare nell’ampio spettro espressivo della pittura. Trovare sintonie, concordanze, corrispondenze nelle opere di questi artisti richiede un complicato lavoro di cucitura, insomma un tentativo, per niente facile, di individuare affinità e analogie che aiutino a tessere un ordito leggibile o almeno probabile degli umori della pittura italiana.
Prima di cominciare, si tenga a mente che – come ricordava lo storico dell’arte francese Henri Focillon – Leon Battista Alberti considerava la pittura una realtà magica o, meglio, “un meccanismo ragionato con una parte di mistero”. Pensava, inoltre, che lo sguardo del pittore fosse privilegiato perché “come il filosofo, meglio del filosofo, il pittore costruisce un mondo”[3].
Agnese Guido, Learning, 2021, ceramica smaltata, 34x21x1 cm
Questo è evidente nell’opera di Melania Toma, basata sull’interpolazione tra pittura, scultura e arte tessile. Nei suoi dipinti astratti, le forme si coagulano in maniera ambigua e sfuggente, riflettendo l’idea di possibili ibridazioni tra l’organico e l’inorganico, l’umano e l’inumano. È il suo modo di costruire un mondo che scarta l’eredità delle politiche coloniali e azzera, nell’ottica di una nuova ecologia, ogni gerarchia tra gli enti, abolendo la distinzione tra soggetto e oggetto e tra individuo e collettività. L’artista interpreta i propri quadri, simili a feticci e realizzati con pittura a olio, carboncino, pigmenti naturali e fibre tessili, come dei dispositivi per guarire identità ferite e frammentate.
Melania Toma, Danza-Creature, 2023, pigmenti, carboncino e olio su tela, 80×80 cm
La pittura di 108 è, invece, concepita come una specie di autoritratto in divenire, che con le sue forme morbide e scorrevoli traduce nel linguaggio astratto la natura inquieta e mutevole dell’identità. Le sue figure fluide, plasmate in una palette di toni scuri interrotti da rari inserti geometrici colorati, formano diagrammi di flussi di coscienza, schemi misteriosi in precario equilibrio tra ordine e caos.
108, After the rain 2, 2023, tecnica mista su tela, 80×60 cm
Astratta, nonostante gli esiti figurativi, è la procedura pittorica di Paolo Pibi, che trasla in immagini idee e vagheggiamenti mentali, senza peraltro servirsi di alcun supporto iconografico (fotografie, disegni o altro). Il risultato è inevitabilmente somigliante a un’allucinazione ad occhi aperti, qualcosa di surreale e, allo stesso tempo, estremamente dettagliato, costruito con l’acribia di un miniaturista capace di rendere verosimile e plausibile un’illusione o una fantasticheria.
Paolo Pibi, Le lune e il falò, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Un mondo fantastico, di pura invenzione è anche quello meticolosamente dipinto da El Gato Chimney, che trasfigura in forme simboliche di uccelli e altre creature zoomorfe motivi psicologici, ma anche concetti ricavati dal folclore e dalle tradizioni esoteriche e alchemiche. Il conflitto tra i desideri dell’individuo e le convenzioni sociali, come pure quello tra materia e spirito sono sovente rappresentati con l’immagine di un animale avvolto e quasi avvinto da filamenti e fibre da cui tenta di liberarsi, mentre il tema della parata di Yōkai, mostri e fantasmi della mitologia giapponese mirabilmente dipinti sulle pagine di una Moleskine, è invece un’allegoria dell’irrompere dell’irrazionale nella dimensione quotidiana.
El Gato Chimney, That place inside you, 2024, gouache e acquerello su carta cotone, 153×100 cm
Ispirata alle fiabe e ai racconti popolari, la pittura di Silvia Paci ha un impianto fortemente narrativo, tutto giocato sull’alternanza di registri drammatici e umoristici e sulla mescolanza di iconografie sacre e profane. Per costruire le sue visioni, popolate di personaggi in preda a una febbrile agitazione, l’artista usa un linguaggio espressionistico, connotato da una gamma cromatica ridotta e riconoscibile. Talvolta, l’artista introduce all’interno delle sue tele, l’immagine di oggetti da lei stessa creati, come bambole di pezza e curiosi copricapi, che intensificano la straniante sensazione di assistere a un misterioso rituale o a una sorta di possessione collettiva.
Silvia Paci, Il martirio di S.Eutropio, 2023, olio su tela, 170×150 cm
I dipinti di Agnese Guido hanno sempre un’atmosfera surreale, risultato di un particolare modo di interpretare la realtà ordinaria che indaga soprattutto gli aspetti più curiosi, poetici, buffi o imprevisti. Il carattere sognante delle immagini, la sospensione tra incanto e stupefazione e la tendenza ad animare oggetti o paesaggi inanimati, sono elementi caratteristici di tutta la sua pittura, che dialoga tanto con la tradizione simbolista ed espressionista, quanto con la cultura popolare dei fumetti e dei cartoni animati.
Agnese Guido, Allegoria del relax, 2023, olio su lino, 192x145cm
Riccardo Nannini usa una grammatica pop e surreale, in parte derivata dai fumetti, per dipingere tele in cui i simboli del consumismo odierno compaiono, come un’interferenza, all’interno di narrazioni oniriche e fantastiche. Nei suoi lavori più recenti, l’artista riflette sul rapporto tra singolo e collettività, rappresentando piccoli gruppi di individui distribuiti in un arcipelago di minuti isolotti. L’atmosfera feriale di queste Isole felici non riesce a occultare, però, il senso di solitudine che serpeggia nella calca di personaggi impegnati in attività ludiche o di svago. La presenza sporadica di alieni dalla pelle verde allude, inoltre, al tema diversità, sia essa sociale, culturale o sessuale.
Nannini Riccardo, El Reencuentro, 2023, acrilico su tela, 114×195 cm
Sintetico, piatto, ma elegantissimo è l’alfabeto visivo di Fulvia Mendini, che nei suoi dipinti compie una concisa schematizzazione formale. Il limpido tratto lineare, la ricercata bidimensionalità e i raffinati accostamenti cromatici sono segni distintivi di una maniera pittorica che l’artista declina in una gamma di ritratti ieratici e di succinte nature morte, dove all’impianto geometrico si affianca il gusto per la descrizione di dettagli come gioielli, decori e ornamenti che impreziosiscono le sue composizioni.
Fulvia Mendini, Luce, 2024, acrilico su tela, 60×50 cm
Di stretta osservanza cartesiana è la pittura di Silvia Negrini, dominata dal lucidus ordo della geometria, arma logica e calcolata che l’artista applica a un’economia di gesti minimi con i quali si propone di cogliere l’essenza imperturbabile delle cose. Così, ad esempio, riduce in efficaci diagrammi le morfologie dei paesaggi o tramuta in poligoni le architetture e gli oggetti, riuscendo a produrre immagini semplici e perfettamente leggibili. La sua grammatica formale, fatta di contorni netti e tinte piatte, può essere interpretata come un adattamento dei principi del Modernismo alle mutate esigenze espressive della pittura concettuale contemporanea.
Silvia Negrini, Land, 2020, smalto su tavola, 30X40 cm
Di segno opposto è, invece, l’attitudine di Nicola Caredda, che dipinge meticolose visioni di un futuro distopico, somigliante a una grande e desolata periferia urbana. L’artista attinge alla memoria di posti visti in passato, scorci di luoghi e angoli di città ricombinati in un paesaggio inventato ma plausibile, che mostra i resti di un mondo trascorso attraverso detriti e rifiuti della civiltà consumistica. Sono visioni notturne di spazi disabitati, disseminati di indizi e segni che rimandano alla cultura italiana, e che compendiano atmosfere e stati d’animo vissuti dall’artista in immagini di perturbante bellezza, che suscitano un immediato piacere retinico.
Nicola Caredda, (call me baby!), 2024, acrilico su tela, 50×40 cm
Dalla memoria di luoghi e persone reali ha origine il processo creativo di Dario Maglionico, che ricostruisce i ricordi, inevitabilmente alterandoli con l’ausilio dei programmi di modellazione 3D e della fotogrammetria, usati come strumenti per generare immagini che servono allo studio compositivo dei suoi soggetti. La pittura è, dunque, la fase finale di un iter operativo che si conclude con le Reificazioni, un ciclo di dipinti in continua evoluzione che rappresentano uno studio sulla percezione dello spazio e del tempo. Nelle sue opere, i personaggi compaiono simultaneamente in diversi punti dello spazio, come forme fantasma persistenti, che marcano i luoghi lasciando una sorta di residuo esperienziale.
Dario Maglionico, Reificazione #91, 2024, olio su tela, 140 x 90 cm
L’arte di Jacopo Ginanneschi nasce da un’attenta osservazione della Natura e dal recupero dei valori tecnici e compositivi degli antichi maestri, da cui deriva anche l’idea di un’adesione verso l’essenza, più che l’apparenza, delle cose. Nei suoi olii su tavola, infatti, si possono notare alcune piccole incongruenze, discrepanze generate dall’adozione della prospettiva multipla o dal fatto che le immagini sono sovente costruite combinando visioni di luoghi diversi. Il risultato è una pittura insieme realistica e straniata, veridica e surreale, che coglie l’incanto nelle forme fenomeniche e la magia nel quotidiano.
Jacopo Ginanneschi, Sant’Antonio Abate trova il rifugio di San Paolo Eremita, olio su tavola, 90×90 cm, 2024
[1] Giorgio De Chirico, Impressionismo, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole de Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 51.
[2] Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di Ludovica Ripa di Meana, 1999, Neri Pozza, Milano, p. 7.
[3] Henri Focillon, Piero della Francesca, trad. italiana di Fabrizia Lanza Pietromarchi, Abscondita, Milano, p. 38.
Cominciamo dalla fine, o quasi. Cominciamo dal 2010, l’anno in cui Ronnie Cutrone ha presenziato alla sua ultima mostra in Italia alla galleria Lorenzelli arte di Milano, intitolata Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match. Sono passati dieci anni, ma sembra ieri. Ronnie vestiva un panciotto su una t-shirt e portava al polso dei braccialetti colorati che lo facevano sembrare una via di mezzo tra un vecchio hippie e un rocker duro a morire. Aveva l’aria comprensibilmente stanca per il viaggio da New York a Milano e l’espressione colpevole di chi sapeva di dover ancora finire di dipingere alcuni quadri per mostra che sarebbe stata inaugurata di lì a qualche giorno.
Nella galleria milanese c’era aria di tensione. Matteo Lorenzelli era in trepidante attesa che Ronnie finisse quello che aveva iniziato e a me, con tempismo perfetto, era venuta l’idea di realizzare un’intervista per una famosa rivista d’arte che fornisse un identikit dell’artista ironico e graffiante che aveva reinventato la Pop Art. Mentre tutti si adoperavano per finire i lavori di preparazione della mostra, io accompagnai Ronnie Cutrone a realizzare il servizio fotografico per l’intervista d’imminente pubblicazione.
Nello studio di un fotografo milanese, durante lo shooting, vidi compiersi un’incredibile trasformazione: Ronnie posava come un attore consumato, mentre brandiva come una pistola una banana gialla di warholiana memoria o mentre beveva una Coca Cola fingendo di discutere con i protagonisti delle sue opere, da Felix the Cat a Woody Woodpeker, da Mickey Mouse a Donald Duck. Ronnie sapeva divertirsi e soprattutto sapeva divertire. Elargiva un sacco di aneddoti sui personaggi più improbabili e sulle situazioni più assurde che aveva vissuto e aveva un modo particolare di raccontare che includeva l’imitazione delle voci e una serie di buffe smorfie. Con lui non ci si annoiava mai… Fu un pomeriggio spassoso, l’ultimo raggio di sole, prima della definitiva eclissi.
A bad, bad news!
Milano, martedi 23 luglio 2013, ore 6.19 di mattina. Sulla segreteria telefonica la voce rotta di Matteo Lorenzelli mi comunica il decesso di Ronnie. Buio. È un momento assolutamente surreale. Le circostanze della sua morte sembrano uscite da un bollettino di C.S.I.: il corpo viene ritrovato dal suo assistente nella casa di Lake Peeskskill, vicino a New York. Qualche tempo dopo si viene a sapere che alcuni suoi dipinti sono stati trafugati e che il suo assistente trentacinquenne, accusato del furto, è stato tradotto nel carcere della Contea di Putnam, nell’area metropolitana di New York. La stampa nazionale americana dedica al fatto pochi e succinti trafiletti, ricordando Ronnie Cutrone come il principale assistente di Andy Warhol e dimenticando completamente che alcune sue opere sono nelle collezioni d’importanti musei come il Whitney, il MoMA e il Brooklyn Museum di New York, il Los Angeles County Museum, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, il Groningen Museum e il Ludwig di Colonia. Maledetti giornalisti!
Rewind and start again.
Ripartiamo d’accapo.Ronald Curtis Cutrone – questo il suo nome per intero – è nato a New York il 10 luglio 1948. Il suo cognome tradisce un’evidente origine italoamericana, ma lui, cresciuto a Brooklyn, non ha mai parlato italiano. C’è una vecchia fotografia di Ronnie bambino con un vestito da cowboy, seduto in poltrona mentre legge un fumetto. La foto è del 1953 e Ronnie ha appena cinque anni. In quell’immagine sbiadita c’è molto del futuro Cutrone: l’innocenza, l’ironia, la voglia di divertirsi, la passione per i comics. Come tutti i bambini, Ronnie amava disegnare… soprattutto indiani e cowboy, auto da corsa e copertine di riviste. Non è strano, quindi, che, dopo aver frequentato la Brooklyn High School, si sia iscritto alla School of Visual Arts di Manhattan, dove ha studiato tra il 1966 e il 1970, anni cruciali e turbolenti della sua formazione d’artista. Ronnie non dipingeva ancora. All’epoca – come raccontò in quella mia ultima e unica intervista – eseguiva delle performance in cui legava degli oggetti al proprio corpo. Siccome gli ci voleva un’ora per prepararsi e un’altra per svestirsi, il professore e gli studenti del corso di pittura trovarono più comodo trasferirsi a casa sua per le lezioni. Le qualità performative di Ronnie, però, si esprimevano soprattutto al di fuori della scuola, attraverso altri incontri e altre frequentazioni.
Andy Warhol Superstar
Ronnie incontra per la prima volta Andy Warhol a una festa. Lui sta uscendo, Ronnie sta entrando: fatalmente si scontrano. Un comune amico li presenta e il gioco è fatto. Ronnie non lo sa ancora, ma la sua vita sta cambiando per sempre. In quel lontano 1966, il vivace teenager di Brooklyn si divide tra le lezioni alla School of Visual Arts e i weekend alla Factory. Diventa persino uno dei performer dell’Exploding Plastic Inevitable Show dei Velvet Underground. Mentre il gruppo suona, Ronnie e altri ragazzi si esibiscono sul palco. Lui è il ballerino che fa schioccare la frusta sul suono ipnotico e alieno della band di Lou Reed.
L’Exploding Plastic Inevitable sarebbe stato ricordato come uno dei più importanti e rappresentativi spettacoli multimediali degli anni Sessanta. Ronnie non sa nemmeno questo. Come potrebbe, tra l’altro, immaginare che quel cantante sarebbe diventato uno dei suoi più cari amici? Tre anni dopo, Warhol fonda la rivista Interview dichiaratamente per essere invitato, come editore, alle proiezioni dei film e per conoscere le star del cinema. A Ronnie è affidato il compito di recensire le mostre e i concerti più cool. Per quattro anni incontra artisti e musicisti di ogni sorta, diventando la longa manus di Warhol in città. Quando nel 1972 decide di lasciare Interview, Warhol gli chiede di diventare suo assistente. Per una decade Ronnie sarà il braccio destro di Warhol, non solo l’uomo che prepara le tele, mischia i colori, dipinge le opere e si occupa delle spedizioni.
Andy e Ronnie erano due stakanovisti: di giorno lavoravano sodo e la sera uscivano a divertirsi. La Weltanshauung di Warhol (ma anche di Ronnie), come raccontava Tommaso Labranca nel fenomenale saggio Andy Warhol era un coatto (Castelvecchi, 1995), era riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso. Negli anni Settanta, relativamente più quieti rispetto agli anni d’oro della Factory, Ronnie lavora principalmente ai ritratti su commissione di celebrità e personalità facoltose, che costituiscono l’ossatura commerciale della bottega di Warhol. Nello scorcio finale del decennio si fa festa alla discoteca Studio 54 e al nightclub Max’s Kansas City, crocevia di artisti, intellettuali, attori e rockstar. In un altro locale, il celebre CBGB’s, New York preannuncia, con l’esplosione al fulmicotone del punk, l’avvento di una nuova era.
Living Sculptures in a Cage
Il rapporto di Ronnie Cutrone con la pittura era sempre stato episodico, se non addirittura sporadico. Alla School of Visual Arts aveva eseguito qualche dipinto in stile neoespressionista e durante i primi anni alla Factory si era interessato soprattutto alla fotografia. Negli anni Settanta, mentre lavorava per Warhol, Ronnie realizzò una serie di sculture che rappresentavano le paure della gente. Tra queste c’erano delle gabbie in cui le eventuali reazioni tra due persone all’interno di uno spazio ristretto potevano essere osservate dagli spettatori. Alcune delle cosiddette The Getting To Know You Cage furono esposte al Mudd Club, un locale fondato nel 1978 da Steve Mass, Anya Phillips e Diego Cortez e gestito dallo stesso Cutrone tra il 1979 e il 1982. Al piano superiore del Mudd Club, dietro le sbarre delle sue sculture, si potevano vedere personaggi come David Bowie e Grace Jones.
The Eighties
Il 1980 è l’anno che segna il distacco formale da Andy Warhol e l’inizio della sua carriera di artista. Cutrone stava pensando di fare una serie di dipinti sugli stessi temi affrontati nelle sculture, ma non si era ancora deciso a realizzarne uno. Fu Lucio Amelio, il gallerista napoletano di Warhol, a chiedergli di dipingere il primo quadro in occasione della sua partecipazione ad Art Basel. Ronnie non dipingeva da dodici anni ed era comprensibilmente preoccupato, tuttavia comprò una grande tela e si mise al lavoro. Il primo tentativo, a suo dire, fu una vera schifezza, ma non si lasciò scoraggiare: girò la tela e si rimise a dipingere. Il risultato fu Red Eating Cannibals (1981), un dipinto ricavato da uno schizzo, fatto su un autobus mentre attraversava New York, che intendeva illustrare la violenza latente delle persone, un tema ricorrente in molti suoi dipinti successivi.
L’arte di Ronnie Cutrone, così come la conosciamo, nasce nel 1982, quando per la prima volta dipinge Picchiarello (Woody Woodpecker), il celebre personaggio inventato da Walter Lantz nel 1940, protagonista di molti cartoni animati della Universal Picture. Per trovare se stesso come pittore, Ronnie doveva capire che cosa amasse veramente:
“Amavo le donne, ma non volevo dipingerle, amavo Dio in quel periodo, ma non volevo dipingere Dio, perché, tra l’altro, Dio è senza volto. Fu un vero problema perché non sapevo che cosa amassi, ma ogni notte dormivo con il mio peluche di Picchiarello, così una mattina mi svegliai e capii che… amavo Picchiarello. È li che credo di avere amato Woody. E pensai… come posso fare… e lo dipinsi su una bandiera.”[1]
New York, New Pop
Nei primi anni Ottanta New York è la culla di un Rinascimento che coinvolge la musica, le arti, la cultura urbana. Il punk si è trasformato in New Wave, o meglio in No Wave, proprio nelle sale scalcinate del CBGBs. Andy Warhol è tornato sulla cresta dell’onda e la Factory è di nuovo un polo d’attrazione per star e celebrità di ogni genere. Per le strade impazza l’arte dei graffiti, un fenomeno virale che parte dalle comunità latine e afroamericane del South Bronx e si diffonde a macchia d’olio sui muri, sui vagoni della metropolitana e in ogni angolo della città, tappezzando ogni superficie disponibile d’immagini intrecciate a grandi lettere gommose. In seno alla cultura Hip Hop si sviluppano nuove pratiche di resistenza urbana, come la Breakdance, il Rap, il Writing. C’è fermento in città. Le gallerie d’arte si aprono ai nuovi linguaggi, mentre l’Europa è dominata dal neoespressionismo di Transavanguardia, Neue Wilden, Figuration Libre, Haftige Malerei. La febbre della pittura contagia il vecchio continente e trova il modo di sbarcare sulle coste statunitensi dell’Atlantico con la complicità di Leo Castelli e Ileana Sonnabend. Si chiude l’epoca dei concettualismi e dei minimalismi e si apre la gioiosa (ma irresponsabile) stagione dell’Edonismo Reganiano (Roberto D’Agostino).
Ronnie è nel posto giusto e al momento giusto per rivitalizzare, anzi per reinventare la Pop Art. Dipinge i personaggi dei cartoni animati sulle stelle e strisce della bandiera americana con un’attitudine completamente diversa rispetto agli artisti pop degli anni Sessanta. Avrebbe potuto seguire la scia della moda neoespressionista, accodarsi agli epigoni della Bad Painting e dei Neoprimitivi americani (da James Brown a Donald Beachler), seguire la neonata scuola dei graffitisti, ma preferisce ripartire dalla propria esperienza e infondere un nuovo spirito nella grammatica, fino ad allora fredda e intellettuale, della Pop Art. Espone i dipinti con Woody Woodpecker prima da Lucio Amelio, a Napoli (1982), poi da Tony Shafrazi, a New York (1982 e 1983).
Tony Shafrazi è un tipo curioso, salito alla ribalta della cronaca nel 1974 per aver vandalizzato con una bomboletta spray la Guernica di Picasso esposta al MoMA. Pensava che quel dipinto avesse perso la sua carica politica e rivoluzionaria e che bisognasse fare qualcosa perché tornasse a far riflettere la gente sul dramma della guerra. La sua galleria newyorchese, aperta nel 1979, si fa una reputazione esponendo nuovi talenti come Ronnie Cutrone, Keith Haring, James Brown, Jean-Michel Basquiat, Kenny Sharf, Jonathan Lasker e Futura 2000.
Cartoons and TV Generation
Woody Woodpecker è il primo di una lunga serie di personaggi dei cartoni animati dipinti su bandiere americane. Ci sono, tra gli altri, Mickey Mouse, Donald Duck, Pink Panther, Krazy Kat, Felix the Cat e Blaze, l’unico inventato dall’artista. Ronnie non è il primo a dipingere gli eroi dei comics. Lo avevano già fatto Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Mel Ramos, ma il suo modo è completamente nuovo: partecipe, caldo, innocente.
Ronnie appartiene alla prima generazione cresciuta completamente con la televisione. Fumetti e cartoni animati sono parte del suo patrimonio culturale e sentimentale e possono essere usati per raccontare il mondo in cui viviamo, come se fossero lettere di un alfabeto universale che tutti possono comprendere. Se gli artisti pop degli anni Sessanta avevano un atteggiamento più distaccato, più freddo, gli artisti New Pop, come Cutrone, Keith Haring e Kenny Scharf, vogliono arrivare al cuore della gente. I personaggi di Cutrone esprimono tutta la gamma dei sentimenti umani: la gioia, la rabbia, l’allegria, la tristezza, il dubbio e lo stupore che proviamo davanti alle assurde vicende della vita.
The Politics of Painting
Ronnie è sempre stato apolitico. Non votava. Credeva fondamentalmente che Dio gli avesse dato sufficiente autostima per non mettere il proprio destino nelle mani dei governanti, di qualsiasi partito politico fossero. Si definiva un liberale e se avesse un giorno deciso di votare avrebbe scelto i democratici perché non gli dispiaceva l’idea di pagare più tasse per migliorare la vita degli altri. Nonostante odiasse qualsiasi tipo di connotazione politica, culturale, religiosa o di genere, si rendeva conto che dipingere su una bandiera rendeva automaticamente i suoi dipinti politici.
“La politica”, mi disse, “fa parte della vita e io dipingo la vita”. Sono convinto che a lui piacessero le bandiere, non solo quelle americane, per i meravigliosi colori, così come gli piacevano i simboli della cultura di massa, i supereroi con le loro calzamaglie sgargianti, le copertine dei dischi pop e i loghi delle multinazionali. Le bandiere erano state un modo per portare i suoi personaggi nel mondo reale, per calarli sul palcoscenico dell’esistenza in modo che potessero scardinare, come ammetteva lui, “i nazionalismi, i razzismi e tutti gli ismi, per arrivare fino al cuore”. Il suo New Pop dava anche un altro messaggio, semplice e chiaro: “questo è il mondo, questo è ciò che siamo, nel bene e nel male”.
Matteo
Il rapporto di Ronnie Cutrone con l’Italia, iniziato nel 1982 con Lucio Amelio – per il quale in seguito realizzò anche il grande acrilico su bandiera napoletana intitolato You run to the sea, the sea wilI be boiling – You run to the rocks, the rocks wiII be melting, parte della celebre collezione Terrae Motus – è proseguito negli anni successivi con due mostre alla galleria Salvatore Ala di Milano nel 1984 e 1987 e poi con altre due mostre di disegni e acquarelli organizzate dallo Studio d’Arte Raffaelli (1991 e 1994), che si è occupato soprattutto della sua produzione grafica. C’è stata anche una mostra alla Galleria Il Capricorno di Venezia nel 1992, ma si può tranquillamente affermare che, dopo il primo periodo con Tony Shafrazi, il gallerista di fiducia di Ronnie Cutrone divenne Matteo Lorenzelli.
Ronnie e Matteo si conoscono a Milano nel 1984, quando Keith Haring, insieme a LA II (Angel Ortiz), realizza il negozio di Elio Fiorucci in San Babila. Si rivedranno a New York nell’aprile del 1986, poco dopo il disastro di Chernobyl, e continueranno ad avere contatti periodici fino alla fine degli anni Ottanta, periodo in cui la loro conoscenza si trasforma in rapporto professionale e, soprattutto, anche in una lunga e duratura amicizia. Quello tra gallerista e artista è da sempre un rapporto controverso, spesso costellato di incomprensioni, ma nel loro caso le cose sono sempre filate lisce. Mai una discussione su questioni veniali, mai uno screzio. Il loro è stato un legame solido, come se ne vedono pochi nel mondo dell’arte. Prova ne sono i nomignoli con cui erano soliti chiamarsi e che facevano parte di un lessico privato e affettuoso, incomprensibile a tutti gli altri.
Dopo il 1987, Lorenzelli rileva parte dei lavori in deposito alla galleria Salvatore Ala di Miano. Tra quei dipinti ci sono, oltre a My Future is None of my Business (1985) Happy Valley (1985-86), Mister Kilowatt (1985-86) e Living Water (1985-86), due grandi bandiere americane di soggetto italiano. La prima, Saint George and the Appropriation (1987), è una ripresa del classico tema di San Giorgio e il drago con Picchiarello nelle vesti del santo e, al posto del drago, il celebre cane a sei zampe dell’AGIP, disegnato nel 1952 dallo scultore varesino Luigi Broggini. Intorno alle due figure, sulle strisce orizzontali della bandiera, campeggiano il biscione araldico, simbolo della municipalità milanese, e i loghi di Fiorucci, Olivetti, Campari e Alitalia. Gli stessi marchi, con l’aggiunta di un grande monogramma di McDonald, compaiono in David and the Corporate Structure (1987), una bandiera verticale dominata dalla figura del David di Michelangelo.
Nell’opera di Cutrone, accanto all’immaginario pop americano, di tanto in tanto compaiono riferimenti al mondo italiano, che dal 1982 diventa una delle più frequenti mete espositive, grazie anche alla collaborazione con la galleria di Lucio Amelio per il quale, l’anno successivo, realizza un dittico su bandiera napoletana intitolato Corri verso il mare, il mare ribollirà – Corri verso le rocce, le rocce si scioglieranno (1983), poi entrato a far parte della famosa Collezione Terrae Motus. La prima tela “italiana” è, però, Birden (1982), in cui sono raffigurati Picchiarello e un mitologico Atlante che si stagliano per la prima volta sullo sfondo della bandiera Tricolore. In seguito, in occasione delle diverse mostre alla galleria Lorenzelli arte di Milano, compaiono, tra gli altri, i dipinti Lira (1993) e Shopping (1993), che recano sul fondo, rispettivamente, delle immagini serigrafate delle banconote da centomila lire (quelle con il ritratto di Caravaggio) e una piantina del centro di Milano, e Diabolik Creamsicle (2003), realizzato grazie alla scoperta del famoso personaggio dei fumetti creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani.
Here Come the 90’s
Gli anni Novanta si aprono all’insegna della novità. Ronnie inizia a dipingere anche su nuovi supporti come i quilt, le tradizionali trapunte decorate con motivi a patchwork che fanno parte del patrimonio dell’arte folk americana. Quilt n.1, n. 2 e n. 3 (tutti del 1990), Big Star (1991), Crazy Quilt (1990-91), Star Stepping (1991) e Black and White Mickey (1993) sono lavori di altissima qualità formale, in cui i tradizionali personaggi di Cutrone dialogano con raffinatissimi pattern di tessuto, raggiungendo una dimensione inedita di eleganza e raffinatezza. I Quilt sono la perfetta sintesi di Pop e Folk, il confine in cui s’incontrano la cultura consumista della civiltà urbana e quella agricola e provinciale dell’America rurale, la stessa evocata nei sacchi di mangime Beacon, che l’artista usa come supporti su cui trasferire il proprio armamentario iconografico. Un serbatoio d’immagini che rimane sostanzialmente inalterato fino all’ultimo scorcio del decennio, quando fanno capolino nuovi soggetti che, a posteriori, sembrano preavvertire la tregenda di quel fatale 11 settembre del 2001.
Sex, sex, sex!
All’inizio dei Novanta, la proverbiale joie de vivre del decennio precedente, prematuramente soffocata dall’incubo dell’Aids, trova un prolungamento in Love-Spit-Love (1991), una performance alla Simon Watson Gallery di New York organizzata da Ronnie insieme alla moglie Kelly Cutrone, una PR, poi divenuta una celebre autrice di programmi televisivi. Durante la performance – da cui prese il nome la nuova band dell’amico Richard Butler, i Love Spit Love[2] – tre coppie nude e di diverso orientamento sessuale (una gay, una lesbica e una etero) amoreggiavano su una bandiera americana. Love-Spit-Love era una protesta esplicita contro la censura del Governo nei confronti dell’arte e della musica ritenute oscene, ma il sesso era sempre stato al centro degli interessi di Ronnie fin dai tempi della Factory. Nel 1994, al Club U.S.A. di New York, Cutrone organizza un’altra performance, intitolata Birdbath, ancora più spinta della precedente: “[…] ho realizzato un evento di donne e pipì, facevano pipì semplicemente su ogni cosa: sulla bandiera, sui mappamondi, nelle cassette dei gatti […] Si, la mia nuova arte è tutta sul sesso.”[3]
La performance Birdbath, divenuta poi un video, è un’ennesima protesta contro l’America puritana e le sue contraddizioni:
“[…] in America facciamo di tutto ma la gente religiosa è veramente pazza. Sono pazzi riguardo al sesso. […] Quindi in America io faccio il sesso. Voglio dire, dipingo anche ma faccio sesso su videotape e nelle performances. Nelle performances delle donne che fanno pipì, per via dell’AIDS non possiamo avere scambi di fluidi corporali così le donne pisciavano lustrini dorati sulla gente, ma nel video era reale. Lo abbiamo fatto nel mio studio, tutto il pavimento coperto di fluidi e noi ci sguazzavamo.”[4]
L’anno seguente, in occasione della prima mostra alla Galleria Lorenzelli Arte, Ronnie organizza un’altra performance, più castigata rispetto alle precedenti, ma, nondimeno, ricca di allusioni sessuali. Inter-view, questo il titolo, è un’azione ripresa da Fabio Ilacqua, che mostra una donna nuda distesa su un tavolo, mentre viene toccata e massaggiata da Cutrone. Durante la performance, artista e modella si parlano, ognuno nella propria lingua, generando una sorta di conversazione dadaista, completamente priva di senso logico. Nelle performance e nei video di Ronnie Cutrone, molto più che nei dipinti, l’elemento libertario diventa dominante: il sesso e la nudità servono a denunciare l’ambiguità del moralismo occidentale. E d’altra parte, per uno che ha vissuto la stagione della liberazione sessuale degli anni Sessanta a stretto contatto con gli adepti della Factory di Warhol e con personaggi come Lou Reed, Jim Morrison e Jimi Hendrix, il puritanesimo degli anni Novanta doveva sembrare una cosa assolutamente intollerabile.
Before and After 9/11
Alla fine degli anni Novanta, il disastro delle Due Torri era ancora un incubo inimmaginabile. Ronnie, però, aveva già iniziato a sentire puzza di bruciato. Qualcosa stava cambiando. E in peggio. L’Occidente, dominato dalle multinazionali e ossessionato dal dio-denaro, aveva completamente smarrito la propria identità in una sorta di nuovo colonialismo finanziario ed economico. Nelle tele di Cutrone, accanto ai personaggi dei cartoon e ai brand delle multinazionali, compaiono nuove entità: Apostoli, Santi e Supereroi. Insomma, figure di redentori, salvatori e perfino vendicatori che, in fondo, sono la cartina di tornasole di un diffuso senso d’allarme e di pericolo. Ci rivolgiamo ai santi (o ai supereroi) solo quando le cose non vanno per il verso giusto.
Tutta la serie degli Apostles (2000) rivela un inedito carattere drammatico, inconsueto per l’artista. La croce, intesa nelle sue varie accezioni simboliche – religiosa, funerea o di soccorso – diventa un’iconografia ricorrente sia prima che dopo l’11 settembre (Purple Cross, 2000; Apostle #5, 2000; Red Cross, 2001; Polka Dot Cross, 2002; Cross Rose, 2002; Cross Hendrix, 2002).
Per Ronnie i supereroi della Marvel e della DC rappresentavano l’ennesimo espediente per dare voce a tutta la gamma delle speranze, delle aspirazioni e delle emozioni umane, ma avevano un carattere molto più incisivo nel delicato passaggio verso il Terzo Millennio. Tra il 1999 e il 2001, diventano protagonisti di una serie di quadri anti-pop, che denunciano l’avidità consumistica e la decadenza spirituale degli Stati Uniti, ma dopo l’11 settembre incarnano lo shock collettivo del popolo americano di fronte al crollo delle Twin Towers e le differenti reazioni della massa. Una tela emblematica, Sunshine Superman (Green Lantern) del 2001, mostra due opposte reazioni, i due volti dell’America: quello forte, placido, apollineo di Superman e quello viscerale, emotivo, dionisiaco di Green Lantern. Ronnie riusciva sempre a interpretare i fatti con incredibile oggettività, usando un abbecedario iconico semplice ed efficace. Il serbatoio d’immagini della Pop Art lo aiutava a focalizzare il messaggio: un gelato che si squaglia era la fine del sogno americano, una croce rossa era una richiesta di aiuto, un’esplosione era un simbolo di guerra.
The Age of Terror
“Dopo l’11 settembre il mondo cambiò, almeno a New York, e le esplosioni sembravano più cocenti che mai. Vedevo anche il simbolo della Croce Rossa dappertutto, in televisione, per la strada, compresi i vecchi film che guardavo. Tutto iniziava a confluire nel lavoro che stavo preparando. Supereroi, esplosioni e gelati sono temi tradizionali nell’iconografia Pop, ma l’inserimento della croce rossa aggiungeva il margine di contemporaneità a questo corpo di lavoro, e sembrava avere senso, date le mie influenze, la mia storia Pop personale, lo stato del mondo. Abbiamo tutti bisogno di aiuto”[5] Almeno fino al 2005 i segni dell’avvenuta tragedia continuano a manifestarsi nei dipinti di Ronnie Cutrone. La faticosa gestazione di quel trauma irrisolto influenza la sua opera artistica in modo evidente. In Boom, Oom, Ka Blam, Ka Blam – Handgun, tutti dipinti del 2005, riecheggiano gli assordanti rimbombi delle esplosioni, in un clima di “scontro tra civiltà” che non promette nulla di buono. Il volto dell’America che i falchi Neocon dell’amministrazione di Bush Jr. propugnano è abilmente sintetizzato in una delle opere più iconiche del periodo: Crusade (2005), dove tra un proiettile e un rossetto, sorge il simbolo sanguinante di Superman sormontato da una Croce Rossa. È una moderna pala d’altare, la cruda metafora di una nazione ferita, emotivamente sospesa tra l’odio e il perdono, tra l’amore e la morte. In questa temperie drammatica, appena rischiarata dall’ironia dei suoi Pop Shots, dove ancora sopravvive un’eco del suo spirito ludico, Ronnie Cutrone concepisce la più inquietante delle sue serie pittoriche: le Cell Girls (2004).
Sono undici piccole tele (50×50 cm.) che rappresentano volti di donne mediorientali col tradizionale Jibab e la bocca coperta dalle bandiere delle nazioni nemiche del fondamentalismo islamico. Sono cellule dormienti insediate nei paesi che hanno preso parte alle guerre in Iraq e in Afghanistan o che hanno fornito supporto logistico durante le operazioni militari e che, dunque, sono considerate dei bersagli del terrorismo islamico. A queste si aggiungono due grandi tele con le bandiere degli Stati Uniti (2005) e dell’Afghanistan (2006), che simboleggiano il principale target di Al Qaeda, e il paese che ospita l’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden.
Sorprende, di questa serie di ritratti muliebri, la conturbante e intimidatoria bellezza, capace di dispensare uno strisciante senso d’inquietudine e d’incarnare, al massimo grado, le più profonde paure dell’occidente. Le Cell Girls chiudono un ciclo e, di fatto, rappresentano dopo gli Apostles, i Superheroes, gli Ice-Cream, le Crosses e le Explosions, il capitolo conclusivo di una fase cruciale della sua produzione, peraltro emblematica di uno dei periodi più critici della recente storia americana.
Look Better.
C’è un quadro che inequivocabilmente registra un mutamento di temperatura. Si chiama Look Better (2006), un polittico su tela. È un quadro pop alla vecchia maniera: pulito, privo di sbavature, rasserenante. Rappresenta cinque sorrisi di donna e un riquadro con la scritta bianca “Look Better” in campo giallo. Potrebbe sembrare un dipinto di Alex Katz, se non fosse per la figura di Flash, il velocissimo supereroe DC che sfreccia al centro dell’opera. Qualche volta le cose cambiano alla velocità della luce, ma nell’opera di Cutrone i cicli non si susseguono mai, meccanicamente, l’uno dopo l’altro, ma s’intrecciano e si sovrappongono, esattamente come il registro comico e drammatico della sua pittura. Non si direbbe, ma la serie dei Trasformer, dedicata alle copertine dei dischi più amati dall’artista, nasce nello stesso periodo delle Cell Girls e dei Pop Shots.
Trasformers
Trasformer non è solo il titolo del secondo album solista di Lou Reed, uscito nel 1972, ma è anche il nome di una serie di dipinti di Ronnie, dedicati alle copertine dei suoi dischi preferiti, o di quelli degli amici più stretti. Sketches of Spain di Miles Davis, ad esempio, è uno dei preferiti di Matteo Lorenzelli ed è anche il primo dei Trasformer. Un disco per appassionati di Jazz, non certo un disco pop. Ronnie preferiva dischi più ballabili ed era ossessionato da tendenze e fenomeni culturali capaci di cambiare la società. Definiva “trasformatori” tutti i dischi che avevano creato nuove tendenze e nuovi fenomeni culturali, come The Paragons Meet The Jesters (1959), che aveva lanciato il genere del Doo-Wop, una fusione di Rhytm & Blues e Rock & Roll inventata dai Greaser italoamericani.
Nella lunga serie dei Trasformer ci sono album come Are You Experienced? di Jimi Hendrix, Meet The Beatles, Erotica di Madonna, What’s Going On di Marvin Gaye, Blond on Blond di Bob Dylan, Thriller di Michael Jackson e naturalmente i dischi con le copertine di Warhol di Rolling Stone (Sticky Fingers) e Velvet Undergrond & Nico, ma ci sono anche tributi a singole canzoni, come Don’t Be Cruel di Elvis Presley o Rapper’s Delight di Sugarhill Gang, che ha contribuito a diffondere la cultura dell’Hip Hop. Ronnie aveva un gusto onnivoro, che spaziava dal vecchio rock & roll dei Teddy Boys alla New Wave o al Kraut Rock più raffinati. Sapeva quanto fossero importanti quei dischi perché ne aveva vissuto personalmente l’impatto sulla società ed erano parte della sua storia.
Il critico d’arte Michael McKenzie lo aveva definito un “collagista nel cuore” perché aveva capito che Ronnie era un collezionista di esperienze disparate e che la sua vita era una sorta di patchwork incredibilmente ricco. I quadri della serie Trasformer e quelli di Mix & Match esposti alla Lorenzelli Arte nel 2010, erano la perfetta incarnazione di questa sua attitudine verso il melange, il crossover e tutto il promiscuo meticciato della cultura suburbana. La sua pittura includeva tutte le espressioni popolari in una rappresentazione fedele e agrodolce della contemporaneità, peraltro senza mai ricorrere ai tipici artifici snob e intellettualistici tanto abusati dai maitre à penser dell’arte contemporanea. Era schietta, diretta, autentica, come le copertine dei dischi che la gente ballava nelle discoteche e nei club di New York.
What a… Krazy Life in Naples
Perché What a… Krazy Life? Perché un titolo come questo? C’è un quadro molto grande dipinto tra il 1990 e il 1991 che si chiama Crazy Quilt, dove compare, accanto a un personaggio da cartoon, la scritta “Life” con i caratteri tipografici del celebre mensile americano, per il quale Ronnie avrebbe forse dovuto fare una copertina. Se poi sia stata fatta o meno non importa. Quel che conta è che quella di Ronnie è stata senza dubbio una “Crazy Life”, piena di saliscendi come le montagne russe. Quindi quel dipinto è in qualche modo iconico, oltre che assolutamente veritiero.
Ronnie sarebbe stato contento di fare una mostra come questa e di chiamarla così, What a… Krazy Life, come un commento a freddo, fatto col senno di poi, come si dice, alla fine di una carriera e di una vita a dir poco interessante. Soprattutto, sarebbe stato felice di ritornare là dove era iniziata la sua carriera di pittore, nella città di Lucio Amelio, in quella Napoli che è ancora oggi uno strano mix di tradizione e innovazione, insieme antica e moderna, ibrida e ambigua, ma soprattutto misteriosa. Di questa Napoli velata, lui sarebbe stato il discepolo devoto, l’apprendista stregone che, come il Mickey Mouse di quei suoi dipinti ispirati a Fantasia di Walt Disney… avrebbe fatto per noi un’ultima magia.
[1] Ronnie Cutrone, in AA.VV., hey ronnie, hey paloma, Lorenzelli Arte, Milano, 3 ottobre – 21 dicembre 2013, p. 164.
[2] I Love Spit Love sono stati un gruppo di rock alternativo attivo tra il 1992 e il 2000. Hanno prodotto due album: l’omonimo Love Spit Love(1994) e Trysome Eatone (1997).
[3] Maurzio Turchet, Ronnie Cutrone. Talkin’ about golden shower, in AA.VV., hey ronnie, hey paloma, Lorenzelli Arte, Milano, 3 ottobre – 21 dicembre 2013, p. 65.
[5] Ronnie Cutrone, Tataboo. Apostoli, Supereroi, Gelati, Croci ed Esplosioni, in AA.VV., Ronnie Cutrone. Tataboo. Apostles, Superheroes, Ice-Cream, Crosses and Explosions, Lorenzelli Arte, Milano, 2 ottobre – 22 novembre 2003, p. 7.
Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), 2023, oil on canvas, 120x150cm
It could be an extraterrestrial civilization or an alternative, parallel reality. More simply, it could be the survivalist version of our planet after a climate crisis, or a technological mishap of massive proportions. It doesn’t really matter which. What counts is that the universe described by Ryan Heshka is one of fantasy, a mad, wild world inhabited by masked pin-up girls, fearsome femmes fatales, bizarre chimeras and space monsters, superheroes and sub-humans, but above all genetic variations of all kinds, crossed, grafted hybrids of mutant humanity, of fauna and flora adapting to new conditions of life. This – in short – is the daily imaginary of an original Canadian artist, who in his canvases “projects” the carousel of a multicolored range of organic forms, a catalogue of promiscuous and spurious species that embody the Darwinist dream of evolution run amok.
Cult-ivation, 2023, oil on canvas, 60x45cm
The idea is to represent, as Ryan Heshka says, “the first generation of new life forms after the end of the world.” And in fact his paintings pullulate with freak show creatures, eccentric and rather outlandish entities that seem to have leapt off the pages of a DC comic – something like Doom Patrol by Grant Morrison, for example – but also anomalous morphologies worthy of the Southern Reach Trilogy by Jeff VanderMeer, or – if you will – Stalker by Andrei Tarkovsky. Nevertheless, unlike the leaden atmospheres of sci-fi dystopias, Heshka’s painting is packed with bright colors, blaring yellows, blazing reds and intense greens that curiously remind us of the palette of the leader of the Neue Leipziger Schule, Neo Rauch. Moreover, his whimsical characters, though unusual, even seem to be normal within his prophetic vision of a planet rising from the ashes of a human-built civilization, where life can survive only by inventing new and unforeseen genetic combinations.
Putting aside the dark tones of the previous exhibition Midnight Movie[1](2018), this time Ryan Heshka lets himself be guided by the idea of a rebirth, of form and creativity, that turns around concepts of germination, blossoming and proliferation, not only of unprecedented beings but also of natural landscapes halfway between a post-apocalyptic Eden and an alien Garden of Earthly Delights. “My new works portray the coming of spring after a long winter,” the artist says, “and perhaps this is why the botanical species that set the tone of these landscapes seem so lively and luminous.”
Hortus Renatus, 2024, gouache and mixed media on paper, 51x40cm
The theme of landscape has already been a recurring presence in the paintings of Romance of Canada[2] (2015), but it that case it was a sidereal nature made of snowy conifer woods and frozen grottos. Here, on the other hand, the artist shapes a new Jurassic geography, alternating uncertain morphologies such as those depicted in the painting Winter Swamp Oasis, a sort of geo-climatic oxymoron, or like the forest of modified cacti of Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), which seems to have been borrowed from the set of a classic episode of Star Trek.
Moreover, the theme of the Eden-like garden, which spontaneously arose during the preparation of the works, perhaps in relation to the impression of cloistered isolation during the pandemic, is accompanied by one of the most typical motifs of Heshka’s imagery, that of the man-animal hybrid, addressed through a singular gathering of figures ranging from the iridescent bug-woman seen in The Art of the Blind Beetle to the gallant couple composed of a muscular mermaid and an amphibious girl, in Frog Wife’s Paradise (also the protagonist of a comic book made by the artist), all the way to the advancing group of unnamable genetic oddities of Cult-ivation.
Sketches and studies
In short, the savage lands of Heshka host a plentiful assortment of weird creatures that elude any attempt at classification. There are not only crossings between identifiable species – like the women-octopi, for example, of The Blossoming Pond and Post Reign Fall – but also indeterminate, anatomically abnormal entities, like those that appear in Voice of Bloom and Sinister Grove, a lineage of prodigious and fatal monsters that unleash an almost enchanting power with their wings of changing colors, their skins striped with arterial branchings, their plumed raiment and petal-shaped pelts to cover feverish and toxic pudenda.
Frog Wife’s Paradise, 2023, oil on canvas, 60x45cm
The monster has a special place in the artist’s imagination, because it represents the frequentation of an overturned universe, the normality of an alternative dimension that can be seen as an allegory of the collective unconscious in the era of the downfall of civilization, and at the same time the foreshadowing of a future dominated by otherness, and the non-conformity with everything that is familiar to us.
Though with its usual irony and lightness, Heshka’s painting, feeding on the pop culture of science-fiction comics and B-movies, addresses a very timely subject, namely the hypothesis of a world without human beings (or, at lease “beings that are fully human”), in the wake of a dramatic biotic transition of mass extinction. Paradoxically, Ryan Heshka takes a non-anthropocentric perspective – curiously close to that of the contemporary philosophers of Speculative Realism[3] or the so-called Dark Ecology of Timothy Morton[4] – to describe a reality dominated by antediluvian creatures and Lovecraftian entities, like those that emerge from the depths of the earth in Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals).
Rosetta, 2023, pastels on paper, 18x13cm
But in this dimension of vintage science fiction, seething with trans-human figures that seem to reset the laws of genetic inheritance, what counts is the vision of an unstoppable proliferation of life forms, a joyful and springtime dissemination of organisms, some of which are partially anthropomorphic (and furthermore sheathed in bizarre “camp” garb), that reassure us about the fact that no end of the world will ever be quite definitive. If anything, there will be the end of an obsolete species like homo sapiens, the last of a long series of now-extinct hominids.
[1] Ryan Heshka, Midnight Movie, curated by Michela D’Acquisto, 2018, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milan.
[2] Ryan Heshka, Romance of Canada, curated by Ivan Quaroni, 2015, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milan.
[3] Speculative Realism is a philosophical current that began in 2007, involving various authors sharing the idea that unlike what has been sustained over the last two centuries, man can have access to the “thing itself,” not just to the phenomenon, the appearance, but to the essence of the real. Behind the various tenets of Speculative Realism there is an attempt to go beyond the anthropocentric approach.
[4] Dark Ecology is a radical revision of the concept of ecology, which seeks to surpass the anthropocentric approach by establishing a bond with non-human beings, and by acknowledging the dark, destructive side of nature. See Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016.
Ryan Heshka. Springs to come
di Ivan Quaroni
The Blossoming Pond, 2023, oil on canvas, 60x45cm
Potrebbe essere una civiltà extraterrestre oppure una realtà parallela alternativa o, semplicemente, la versione survivalista del nostro pianeta dopo una crisi climatica o una singolarità tecnologica di proporzioni epiche, poco importa. Quel che conta è che quello descritto da Ryan Heshka è un universo fantastico, un mondo folle e selvaggio popolato da pin-up mascherate e temibili femme fatale, bizzarre chimere e mostri spaziali, supereroi e subumani, ma soprattutto variazioni genetiche di ogni sorta, incroci, innesti e ibridi di un’umanità mutata e di una fauna e flora riadattate a nuove condizioni di vita. Questo è, in distillato, l’odierno immaginario di un originale artista canadese, che nelle sue tele “proietta” il carosello di una variopinta gamma di forme organiche, un catalogo di specie promiscue e spurie che incarnano il sogno darwinista di un’evoluzione fuori controllo.
L’idea è quella di rappresentare, come dice Ryan Heshka, “la prima generazione di nuove forme di vita, dopo un’ipotetica fine del mondo”. E infatti, nelle sue tele pullulano creature da freak show, entità eccentriche e un po’ bislacche che paiono uscite dalle pagine di un fumetto DC – qualcosa come il Doom Patrol di Grant Morrison, per esempio -, ma anche morfologie anomale degne della Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer o, se preferite, dello Stalker di Andrej Tarkovskij. Però, a differenza delle atmosfere plumbee tipiche delle distopie fantascientifiche, la pittura di Heshka è dominata da una felice gamma di colori brillanti, fatta di gialli squillanti, rossi accesi e verdi intensi che curiosamente richiamano la palette cromatica del capofila della Neue Leipziger Schule, Neo Rauch. Inoltre, i suoi estrosi personaggi, benché insoliti, appaiono addirittura normali nella sua visione profetica di un pianeta risorto dalle ceneri della civiltà antropica, dove la vita sopravvive inventando nuove e imprevedibili combinazioni genetiche.
Randy, 2023, pastels on paper, 18x13cm
Accantonati i toni dark della precedente mostra Midnight Movie[1], questa volta Ryan Heshka si lascia guidare dall’idea di una rinascita, insieme formale e creativa, che ruota attorno ai concetti di germinazione, fioritura e proliferazione, non solo di personaggi inediti, ma anche di paesaggi naturali che stanno a metà tra un eden post-apocalittico e un Giardino delle delizie alieno. “I miei nuovi lavori rappresentano l’avvento della primavera dopo un lungo inverno”, dice l’artista, “forse per questo, le specie vegetali che caratterizzano questi paesaggi appaiono così vivaci e luminose”.
Il tema del paesaggio era già stato uno degli elementi ricorsivi dei dipinti di Romance of Canada[2] (2015), ma in quel caso, si trattava di una natura siderale, fatta di boschi innevati di conifere e grotte ghiacciate. Qui, invece, l’artista plasma una nuova geografia giurassica, in cui si alternano morfologie incerte come quella raffigurata nel dipinto Winter Swamp Oasis, una specie di ossimoro geoclimatico, o come la foresta di cactacee modificate di Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), che sembra rubata alla scenografia di un episodio classico di Star Trek.
Sketches and studies
Inoltre, il tema del giardino edenico, emerso spontaneamente durante la preparazione dei lavori, forse in reazione al clima di isolamento claustrale vissuto durante la pandemia, si accompagna a uno dei motivi più tipici dell’iconografia di Heshka, quello dell’ibridazione tra uomo e animale, trattato attraverso una singolare raccolta di figure che vanno dall’iridata donna-bacherozzo ritratta in The Art of the Blind Beetle, alla galante coppia composta dal muscoloso sirenetto e dalla ragazza anfibia di Frog’s Wife Paradise (peraltro protagonista anche di un comic book disegnato dall’artista), fino all’avanzante gruppo di innominabili anomalie genetiche di Cult-ivation.
Insomma, le lande selvagge di Heshka ospitano un nutrito campionario di creature weird che sfuggono a qualsiasi tentativo di classificazione. Non ci sono, infatti, solo incroci tra specie identificabili – come, ad esempio, le donne-polpo di The Blossoming Pond e Post-Reign Fall – ma anche entità indeterminate, anatomicamente eteroclite, come quelle che compaiono in Voice of Bloom e Sinister Grove, una teoria di mostri prodigiosi e fatali, che sprigionano un potere quasi incantatorio con quelle loro ali dai colori cangianti e le epidermidi striate di ramificazioni arteriose, quei loro abiti pennuti e le pellicce petaliformi a coprire le febbrili e venefiche pudende.
Melveena with Shrubs, 2023, oil on panel, 40x30cm
Il mostro occupa un posto privilegiato nella fantasia dell’artista, perché rappresenta la consuetudine di un universo capovolto, la normalità di una dimensione alternativa che può essere considerata come un’allegoria dell’inconscio collettivo nell’epoca del tramonto della civiltà e, insieme, l’anticipazione di un futuro dominato dall’alterità e dalla difformità con tutto ciò che ci è familiare. Pur con l’ironia e la levità che la caratterizzano, la pittura di Heshka, alimentata dalla cultura pop dei fumetti di fantascienza e dei B-Movie, contempla un soggetto quanto mai attuale, ossia l’ipotesi di un mondo privo di esseri umani (o, perlomeno, di “esseri del tutto umani”), quello che seguirebbe alla drammatica transizione biotica di un’estinzione di massa. Paradossalmente, Ryan Heshka adotta una prospettiva non antropocentrica – curiosamente vicina a quella dei filosofi contemporanei del Realismo Speculativo[3] o alla cosiddetta Ecologia oscura di Timothy Morton[4] – per descrivere una realtà dominata da creature antidiluviane e entità lovecraftiane, come quelle che fuoriescono dalle profondità terrestri in Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals). Ma in questa dimensione da fantascienza vintage, brulicante di figure transumane che sembrano ridefinire le leggi dell’ereditarietà genetica, quel che conta è la visione di un’inarrestabile proliferazione di forme di vita, una gioiosa e primaverile disseminazione di organismi, alcuni dei quali parzialmente antropomorfi (e per di più inguainati in bizzarri abiti camp), che ci rassicurano sul fatto che nessuna fine del mondo sarà mai definitiva. Semmai solo quella di una specie obsoleta come l’homo sapiens, l’ultimo di una lunga serie di ominidi ormai estinti.
Gilbert, 2023, pastels on paper, 18x13cm
[1] Ryan Heshka, Midnight Movie, a cura di Michela D’Acquisto, 2018, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano.
[2] Ryan Heshka, Romance of Canada, a cura di Ivan Quaroni, 2015, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano.
[3] Il Realismo speculativo è una corrente filosofica nata nel 2007 e rappresentata da autori diversi, accomunati dall’idea che, diversamente da quanto si è sostenuto negli ultimi due secoli, l’uomo può avere accesso alla “cosa in sé”, non solo al fenomeno, all’apparenza, ma all’essenza del reale. Alla base delle varie anime del Realismo speculativo c’è il tentativo di superare l’approccio antropocentrico.
[4] L’Ecologia oscura è una radicale revisione del concetto di ecologia, che cerca di superare l’approccio antropocentrico stabilendo un legame con gli esseri non-umani è accogliendo il lato oscuro e distruttivo della natura. Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016.
Quella della Corea è stata una storia particolarmente travagliata, segnata dalle continue ingerenze delle potenze straniere. Nel XIX secolo, il Paese del calmo mattino è stato oggetto di aggressioni da parte di Russia e Giappone e di potenze occidentali come la Francia e gli Stati Uniti che, pretestuosamente, intendevano liberarla dall’influenza del confinante impero cinese. Agli inizi del XX secolo, la penisola era diventata prima un protettorato del Giappone (1905), poi una sua colonia (1910). Lo sfruttamento economico e le repressioni politiche e culturali messi in atto dal governo nipponico, particolarmente oppressivo, cessarono solo con la sconfitta del Sol Levante nella Seconda Guerra mondiale. Dopo il conflitto, la Corea venne suddivisa in due zone d’occupazione. La linea di demarcazione del 38° parallelo separava, infatti, il territorio settentrionale, presidiato dalle truppe sovietiche, da quello meridionale, sottoposto all’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti. Una situazione per certi versi simile a quella europea, dove gli ex territori del Terzo Reich vennero separati dalle potenze vincitrici in due blocchi ideologicamente antitetici, quello orientale, controllato dall’Unione Sovietica e quello occidentale, protetto dalle forze alleate.
La proclamazione nel 1948 di due stati distinti, la Repubblica di Corea e la Repubblica Democratica Popolare di Corea, ognuna delle quali reclamava la sovranità giuridica sull’intero territorio, è all’origine delle tensioni che contrapposero le due diverse entità politiche. Tensioni che esplosero nel 1950, quando le truppe nordcoreane sconfinarono a sud del 38° parallelo provocando l’immediato intervento a fianco dell’esercito sudcoreano delle forze armate statunitensi stanziate nel Pacifico e di quelle dell’ONU. Fu l’inizio della Guerra di Corea, che durerò fino al 1953 provocando due milioni e ottocentomila vittime, tra morti, feriti e dispersi. Ma fu anche uno dei momenti di maggior tensione della Guerra Fredda, dato che al cosiddetto Korean Conflict – come lo chiamano gli americani per sottolineare il fatto che si tratta piuttosto di una guerra di posizione – parteciparono anche le truppe della Repubblica Popolare Cinese a fianco di quelle nordcoreane, esacerbando, così, la contrapposizione ideologica tra il modello capitalista e quello comunista. Alla fine delle ostilità, le trattative tra i rappresentanti dei diversi schieramenti fissò ancora una volta la linea di demarcazione tra gli eserciti delle due Coree al 38° parallelo, lasciando sostanzialmente invariata la situazione prebellica.
Minhee-Kim, Sue, 2023, oil on canvas, 130×130 cm.
Influsso occidentale
Dalla metà del XX secolo, le divergenze politiche, sociali ed economiche che separavano le due Coree si riflettevano anche sul piano delle identità culturali e artistiche. Mentre in Corea del Nord si affermava lo stile del Realismo Socialista, nella Corea del Sud cominciava a farsi sentire l’influenza delle correnti dell’arte europea e statunitense.
Soprattutto i principi dell’Arte Informale e dell’Espressionismo Astratto offrivano ai giovani artisti sudcoreani l’opportunità di esprimere l’angoscia e il turbamento generati dalla guerra civile. Centrale, in tal senso, fu l’esperienza dell’Associazione Hyun-Dae fondata a Seoul nel 1957, di cui fecero parte artisti come Park Seo-Bo e Chung Chang Sup, futuri pionieri di Dansaekhwa, il movimento di pittura monocromatica degli anni Settanta che oggi fa tendenza nel mondo del collezionismo internazionale.
Dansaekhwa, che letteralmente significa appunto “pittura monocromatica”, è un termine introdotto recentemente per designare il gruppo di artisti che, a distanza di vent’anni dalla fine della guerra civile, rompeva definitivamente con i linguaggi dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto. Spesso accostato alla pittura minimalista, questo movimento combinava lo spirito tradizionale coreano con l’astrazione occidentale in una congerie di ricerche originali, dove la predilezione per le tinte monocolore e per i moduli geometrici si fondeva con la sperimentazione di nuove tecniche ed il recupero di materiali tradizionali.
Il successo occidentale di Dansaekhwa è dovuto, in parte, a una serie di mostre collettive organizzate da Alexander Gray Associates (Overcoming the Modern. Dansaekhwa: The Korean Monochrome Movement, 2014, New York), Blum & Poe (From All Sides: Tansaekhwa on Abstraction, 2014, Los Angeles), Boghossian Foundation (When Process Becomes Form: Dansaekhwa and Korean Abstraction, 2016, Bruxelles) e ancora Blum & Poe (Dansaekhwa and Minimalism, 2016, Los Angeles e New York) e anche a una pletora di esposizioni personali dedicate ai suoi principali esponenti da importanti gallerie come Perrotin (Park Seo Bo, Chung Chang-sup), Pace (Lee Ufan), Tina Kim (Ha Chong-Hyun) e White Cube (Park Seo Bo).
Tuttavia, il relativamente recente interessamento dei player occidentali per Dansaekhwa e per gli artisti di generazioni successive come Haegue Yang, Lee Bul, Liu Wei e Anicka Yi, non è stato il risultato di un improvviso innamoramento euro-americano per gli esponenti dell’arte di questa lontana penisola asiatica, ma piuttosto è dovuto alla politica culturale adottata dai governi filocapitalisti e strenuamente anticomunisti succedutisi alla guida della Corea del Sud fin dal dopoguerra. Una politica che, naturalmente, ha beneficiato del pieno sostegno degli interlocutori occidentali. Prova ne è il fatto che un movimento come Minjung, una corrente artistica e sociopolitica nata tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta in seno al movimento democratico durante la dittatura militare del presidente Chun Doo-Hwan e in reazione al Massacro di Gwangju (1980), non sia stato oggetto di alcuna riscoperta da parte del collezionismo occidentale. Eppure, l’arte Minjung, per lo più realizzata da collettivi artistici che mettevano in dubbio i concetti di autorialità individuale e criticavano il formalismo di Dansaekhwa e il suo disinteresse verso le questioni sociali e politiche, ha avuto un ruolo importante ha segnato l’evoluzione dell’identità culturale e democratica del paese.
Seong Jin Jeong, Relief, 2022, Polystyrene, Digital print gypsum, Epoxy, 163x34x20 cm
Soft Power
L’immagine cool e attrattiva della Corea del Sud negli ultimi anni si deve, infatti, a decisioni governative strategiche come l’adozione, fin dagli anni Ottanta, dunque in un momento di grande sviluppo economico e industriale, di una politica di national branding che ha puntato sulla cultura come strumento di promozione degli interessi della nazione, formalmente in un’ottica di “dialogo e collaborazione multilaterale” con altri paesi asiatici e occidentali. Risultato di questo soft power, che è il segno dell’ammodernamento dell’immagine del paese all’apice della sua ascesa capitalista, è stata la travolgente onda di prodotti d’intrattenimento e spettacolo che ha invaso prima i paesi asiatici limitrofi, poi il resto del mondo. L’hanno chiamata Hallyu (Korean Wave), un fenomeno che proietta il carattere dinamico, pop e ipertecnologico con cui la Corea del Sud si presenta sul palcoscenico internazionale attraverso la musica, il cinema, le serie TV e, infine, anche l’arte contemporanea.
L’Hallyu esplode intorno al Duemila, quando le soap opera coreane fanno breccia a Taiwan e nella Cina continentale, rendendo celebri attori e attrici coreani. Poi si estende anche ad altre nazioni come Thailandia e Malesia, dove si diffondono non solo le serie televisive, ma anche la musica K-Pop di gruppi come Sechs Kies, Diva, GOD e Baby VOX. Persino in Giappone, lo storico nemico insieme al quale la Corea del Sud haospitato il Campionato Mondiale di Calcio del 2002, il boom dell’Hallyu si diffonde grazie all’enorme successo del drama televisivo Winter Sonata, che racconta la travagliata ricerca del padre perduto da parte del figlio Joon-sang. Una telenovela dai risvolti inquietanti, che può essere letta anche come una dura critica al ruolo parentale nella società contemporanea.
In Europa e negli Stati Uniti la Korean Wave si presenta, invece, come una Nouvelle Vague che conquista le giurie dei principali Festival cinematografici con autori come Park Chan-wook, regista di Old Boy, il compianto Kim Ki-duk, conosciuto per capolavori come Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (Bom-yeoleumga-eulgyeoulgeuligobom) e Ferro 3 – La casa vuota (Bin-jip); Im Kwon-taek, autore di Ebbro di donne e di pittura (Chihwaseon); Lee Chang-dong, regista di pellicole come Oasis (Oasiseu) e Poetry (Si); e soprattutto Bong Joon-ho, vincitore con Parasite di tre Premi Oscar e della Palma d’Oro a Cannes.
Goyoson x Sungermone, Goblin (indefinable), 2023, mixed media dimensions variable
Il Dark Side della Korean Wave
Nonostante le tattiche geopolitiche di Soft Power, esercitate a colpi di finanziamenti, sgravi, fiscali e facilitazioni destinate all’industria culturale per potenziare l’economia interna ed estera e che proiettano l’ologramma di una nazione prospera e avanzata, con colossi tech come Samsung, LG e Daewoo a fare da capofila, le produzioni cinematografiche e seriali della Corea del Sud trasmettono anche l’immagine di una realtà contraddittoria, stretta nella morsa delle diseguaglianze economiche generate dal capitalismo avanzato.
Film come Parasite e serie tv come Squid Game svelano, infatti, il profondo malessere di una nazione in cui il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo e dove la crisi del welfare ha prodotto fenomeni allarmanti di autolesionismo non solo tra i giovani, ma perfino tra gli anziani. Oltre ai vecchi che si tolgono la vita per non pesare sul reddito delle famiglie, ci sono ragazzi e giovani adulti che, per ragioni principalmente economiche e sociali (debito studentesco che non riescono a pagare, frustrazione generata da una scarsa mobilità sociale, fallimento finanziario e disoccupazione), cadono in depressione e decidono di farla finita. Un recente articolo pubblicato lo scorso 14 aprile 2023 dalla CNN sottolinea il dramma degli Hikikkomori coreani che ha messo in allarme anche l’attuale governo, obbligandolo a varare una misura volta al loro reinserimento sociale attraverso l’erogazione di una pensione di 650 mila won al mese che servirebbero a supportarne la stabilità emotiva e psicologica e a promuoverne la crescita e la salute. Attualmente il 3,1% dei giovani sudcoreani tra i 19 e i 39 anni, circa 338 mila persone, sono classificati come “giovani solitari con tendenze alla reclusione”. Nato in Giappone, il fenomeno degli Hikikkomori, evoluzione deteriore fenomeno degli Otaku degli anni Novanta, è divenuto la spia di un disagio che riguarda le fasce più giovani e deboli delle società capitalistiche avanzate dell’Asia. In particolare, in Corea del Sud, come spiega Dario Ronzoni in un articolo su Linkiesta pubblicato il 16 ottobre 2021, “Le disuguaglianze sociali, al centro di quasi tutti i film e le serie tv prodotte in Corea, provocano rabbia e [un] risentimento che, sostiene Byung-Chul han, viene sfogato su di sé”. Infatti, secondo il filosofo, uno dei massimi pensatori sudcoreani e docente di Teoria della Cultura all’Universität der Künste di Berlino, la depressione sarebbe il risultato delle pressanti richieste di una società ultraliberista caratterizzata dall’imperativo della prestazione. Pressioni che, però, sfociano in una sofferenza che l’individuo si auto-impone in termini masochistici.
Gimsapi, Loading.. (2), oil on canvas, 323×130 cm
L’entusiastica risposta occidentale
Il carattere pessimistico e perfino distopico di molti prodotti culturali sudcoreani non ha, però, scoraggiato l’occidente, che ha entusiasticamente accolto la Korean Wave non solo favorendo le strategie governative di Soft Power ed elargendo i massimi riconoscimenti a film, serie tv e produzioni musicali, ma anche rendendo la Corea Del Sud meta di una serie d’ingenti investimenti.
Nel solo campo dell’arte contemporanea, oltre alle numerose mostre dedicate a Dansaekhwa e a esponenti di generazioni successive – a cui vanno aggiunte le importanti esposizioni Korean Eye 2020: Creativity and Daydream (Saatchi Gallery di Londra e Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, 2020) e Hallyu! The Korean Wave, (Victoria & Albert Museum di Londra, 2022) –, estremamente significative sono le aperture di nuove sedi a Seoul di gallerie come Perrotin (la prima nel 2016, la seconda nel 2022), Various Small Fires (2019), Pace (2021), König (2021), Thaddaeus Ropac (la prima nel 2021, la seconda inaugurerà il prossimo settembre), Lehmann Maupin (2022), Gladstone (2022), Peres Projects (2023) e White Cube (2024). A fare da acceleratore c’è anche lo sbarco nel 2022 a Seoul di Frieze Art Fair al COEX Convention Art Exhibition Center nel distretto di Gangnam, in stretta collaborazione con il Kiaf, la fiera dell’associazione delle gallerie coreane. Ma non basta, perché a confermare il ruolo di nuova capitale dell’arte contemporanea assunto da Seoul contribuiscono sia la presenza in città del National Museum of Modern and Contemporary Art, del Leeum Samsung Museum of Art e del vicino dello Ho-Am Art Museum di Yongin, sia la notizia dell’apertura nel 2025 del Centre Pompidou presso la Tower 63 della Hanwha Culture Foundation, nel cuore del distretto finanziario.
Lee Sung Min, Hit hit!, acrylic, ink and color on korean traditional paper, 90×140 cm
Generazioni
Nonostante il successo di Dansaekhwa e di alcuni artisti più giovani, la conoscenza della storia e delle evoluzioni dell’arte contemporanea coreana in occidente è ancora agli inizi. Le maggiori difficoltà di comprensione riguardano le differenze espressive e linguistiche generatesi nelle diverse generazioni di artisti che si sono avvicendate dal dopoguerra in avanti. Differenze che rispecchiano le vicende politiche e sociali del paese, di cui spesso gli occidentali non conoscono la storia.
Chi ha visto la serie tv Squid Game, sa che il conflitto generazionale è una delle chiavi per comprendere la recente evoluzione di questo paese, spesso riflessa anche nelle sue vicende artistiche. Dopo Dansaekhwa e il movimento politico e artistico Minjung durante la dittatura di Chun Doo-Hwan, la generazione degli artisti nati negli anni ’70 e ’80 è quella che ha sperimentato gli effetti del boom economico. Questa “generazione di mezzo”, rappresentata da artisti comeLee Jinju, Jwa Haesun, Baek Heaven,Jang Jongwan, Sim Raejung,Lee Eunsil e molti altri, a cui la Arario Gallery di Seoul ha dedicato l’esposizione The 13th Heistation nel 2021, è stata la prima a poter viaggiare e studiare all’estero, ma ha dovuto, però, fare i conti con la mentalità tradizionalista dei loro padri, vivendo quindi il conflitto e la transizione tra due diversi mondi e modi di vivere.
Chi ha beneficiato in pieno degli effetti del boom economico, della rivoluzione digitale e dell’apertura internazionale generata dall’Hallyu è stata, invece, la generazione degli anni Novanta, oggetto di questa esposizione in quattro tempi intitolata K90-99.
Minhee-Kim, Twins, 2023, oil on canvas 130×130 cm
K90-99
La mostra, che raccoglie le opere di ventuno artisti nati tra il 1990 e il 1999, è frutto di una attenta ricognizione sul campo compiuta dalla galleria L.U.P.O. nell’estate del 2022, una sorta di inedita indagine periscopica tra gallerie, istituzioni e scuole d’arte, alla ricerca di temi, motivi e procedure che caratterizzano le produzioni pittoriche e plastiche della prima generazione davvero cosmopolita e globalista dell’arte coreana. A convincere il gallerista Massimiliano Lorenzelli e il suo staff sono stati i racconti dei protagonisti dell’esposizione, che hanno messo in luce non solo il persistere del conflitto generazionale, con tutte le difficoltà che questo comporta in termini di emancipazione e affermazione personale, ma anche il vantaggio offerto dalla facilità di relazione con la rete delle gallerie e delle istituzioni pubbliche.
La curatrice Hyun Jeoung Moon, chiamata a tirare le fila delle complesse e variegate tendenze che innervano la scena emergente dell’arte coreana, ha individuato quattro temi per altrettanti rounds espositivi.
Il primo round, Beyond Human: Exploring Cyborg Body and Technology affronta il tema dell’influsso del cyberpunk e dell’estetica post-human nei lavori di Minhee Kim, Ahyeon Ryu, Jihyoung Han, Jio Yoo e Seon Jin Jeong, che testimoniano la metabolizzazione di linguaggi visivi di matrice globale.
Miryu Yoon, Wondering How Things Change, 2023, oil on canvas, 41×27 cm each
Il secondo round, Visual Narrative: Experimenting Images Through Painting and Sculpture, fa il punto sulla natura ambigua e ubiqua delle immagini nella società contemporanea e sul loro rapporto con la realtà materiale e oggettuale attraverso lo sguardo di Miryu Yoon, Goyson, Sang So Kim, Seo YoonYi e Sungermone.
Se Eun Yu, Like a ghost on a finite space, 2023, Oil and acrylic on canvas
All’impatto della tecnologia e di internet è dedicato, invece, il terzo round, Hybrid Visions: Searching for Digital Era, in cui gli artisti Kai Oh, Gimsapi, Alex Inomuseki, Eun Yu e Seong Min Li contaminano media tradizionali come pittura, collage e fotomontaggio con i linguaggi che dominano dell’immaginario digitale, come anime, meme, emoji e glitch.
Jihyoung Han, Little Ice Age, 2022, oil and acrylic on canvas, 53×80 cm
L’ultimo round, Transcultural Fusion: K-Art as a Convergence of Multi-culture, attraverso le opere di Suyon Huh, Ji Won Han, Lee Seoung Hee, Chung Kook Lee, Eun Shil Hwang e Lee Eun, è forse quello che meglio riassume e circoscrive la specificità della giovane arte coreana. Cioè, quella di essere l’espressione plurale e multimediale dei sentimenti contradditori che animano una società consumistica dove la cultura pop si intreccia alle angosce e alle sofferenze della generazione che più ha patito le conseguenze della pandemia ed ha ancora indelebilmente impresse nella memoria le drammatiche immagini della strage di Halloween del 2022, quando nel quartiere di Itaewon, trasformato in una calca infernale, perdono la vita, calpestate a morte, 156 persone.
K90-99 è la prima mostra italiana dedicata alle tendenze della giovane arte coreana, un’arte ambigua, contaminata, bizzarra, ma anche complessa, curiosa, inattesa e terribilmente seducente.
Nel suo famoso studio intitolato Arte e illusione, Ernst Gombrich ricordava che già nell’antichità classica Plinio aveva compendiato la distinzione tra realismo e illusionismo sostenendo che «la mente è il vero strumento della vista e dell’osservazione, [mentre] gli occhi agiscono come una sorta di vaso che riceve e trasmette la parte visibile della coscienza»[1]. Si tratta di una precisazione che si attaglia perfettamente alla pittura di Nicola Nannini, il cui realismo schietto, maturo, otticamente appagante non scade mai nella categoria dell’illusionismo e della pura mimesi. Tant’è che perfino uno dei suoi maggiori estensori critici, Roberto Cresti, qualche anno fa ribadiva che, nel suo caso «non si tratta più di dimostrare d’essere capace di rendere un particolare o un contesto tratto dal mondo esterno, ma di costruire l’esterno attraverso la realtà dell’interno, affinché i ruoli si scambino»[2].
Certo, la pittura di Nannini evoca la realtà con sguardo acuto, nitido, restituendoci il sapore di paesaggi, edifici e persone come quella di pochi altri pittori italiani contemporanei. Eppure, non bisogna scambiare il suo modo di “vedere” la realtà con una mera registrazione ottica. Ancora Gombrich ammoniva il lettore a non confondere il “vedere” con la “sensazione visiva” e ricordava l’importante ruolo della memoria nella pratica pittorica. A tal proposito citava, infatti, il grande paesaggista inglese John Constable, il quale sosteneva che «l’arte dà piacere con il ricordo non con l’inganno»[3].
Della pittura di Nannini – apprezzata anche per la capacità di restituire il sapore, quasi allucinato, di certi squarci realistici – è importante rilevare l’aspetto squisitamente “mentale”. Infatti, se la sua tecnica, che alcuni hanno accostato alla grande tradizione fiamminga e olandese ed altri alla Metafisica ferrarese, può corroborare l’impressione di una pittura veristica – più vera del vero -, la presenza nei suoi lavori di alcuni espedienti reiterati nel tempo – come, ad esempio, l’abitudine di lasciare abbozzati il margine inferiore e talvolta i bordi della tela, quasi per mostrare la natura fittizia della visione, oppure l’inserzione di personaggi nel paesaggio come se si trattasse di pezzi di un collage -, ci dicono che l’artista, più che al problema della mimesi illusionistica, è interessato alla rappresentazione di quel che non si può rilevare coi sensi. Non deve sorprendere, a tal proposito, se a commento del convincimento leonardesco secondo cui la pittura è un procedimento tutto mentale, qualche anno fa il compianto Alberto Agazzani notava che «non esiste e non esisterà mai un pittore che desidera fermarsi all’apparenza delle cose, soprattutto un pittore figurativo»[4].
Da pittore figurativo, Nicola Nannini ha esplorato principalmente i generi del paesaggio e del ritratto, cercando spesso di farli coincidere o, meglio, di far apparire sulla morfologia del primo, le fisionomie del secondo. I suoi dipinti più celebri sono quelli che ritraggono le piatte e silenti geografie della Padania – toponimo che non ha qui nessuna accezione politica, dato che deriva da Padus, il nome latino del fiume Po’. Sono luoghi che l’artista conosce fin dall’infanzia e che ha continuato a frequentare con gli occhi e con la memoria, fino a trasformarli in metafore di una condizione interiore di incantata sospensione.
Accadde tutto una domenica mattina, 2023, olio su tela, cm 72×102
Una presenza constante in questi paesaggi piani, fatti di distese d’erba attraversate da viottoli costeggiati da rogge, tagliati da fossi o intersecati da strade appena asfaltate, sono edifici isolati, abitazioni monofamiliari dai luccicanti infissi in alluminio anodizzato, che non emanano il fascino pittoresco delle antiche cascine, delle vecchie masserie o delle case coloniche ma che, tuttavia, mostrano la brutale schiettezza di certa architetturada geometri, insomma di quel tipo di edilizia residenziale che caratterizza gran parte dei sobborghi e delle provincie italiane. Eppure, con questo stesso materiale iconografico Nannini riesce a fare quel che David Lynch e Tim Burton hanno fatto con la visione stereotipata del sobborgo americano. E, cioè, creare una geografia simbolica dell’isolamento esistenziale che è, al tempo stesso, una topografia di memorie, ovvero di tutte quelle cose aleatorie, impalpabili e invisibili, appunto, che un vero pittore figurativo ha l’ambizione di rappresentare.
Venendo ai ritratti, presenti fin dagli esordi nei paesaggi di Nannini, non si può, ignorare come sovente essi abbiano una qualità fantasmatica, una consistenza, per così dire, evanescente. Soprattutto in alcune opere dei primi anni Duemila, dove la presenza umana si aggrega in spettrali cortei funebri che attraversano nottetempo silenziose piazze italiane o planano, da un cupo cielo parigino, sulle sponde dell’Île de la Cité. Ritratti di abitanti associati a villette a schiera e case unifamiliari caratterizzano, invece, le opere successive, ad esempio quelle della serie Houses, dove all’evanescenza si sostituisce l’effetto collage, ottenuto dipingendo i personaggi come fossero elementi isolati, che fanno da corredo al paesaggio sub o extra urbano.
Nella pittura di Nannini il genere del ritratto sembra raggiungere una completa autonomia dal paesaggio solo nella serie intitolata Type, composta di grandi figure intere a grandezza naturale che formano un analitico regesto di caratteri tipologici, ognuno dei quali è corredato da una gamma di accessori, oggetti o feticci che aiutano l’osservatore a sceverare la natura di ciascun soggetto. Eredi dei ritratti della serie Type sono le minute carte Senza titolo che costituiscono quasi una versione portatile di quel regesto, qualcosa che potrebbe stare comodamente nei comparti della duchampiana Boîte-en-Valise.
Un nuovo tipo di interpolazione tra paesaggio e ritratto è quello che caratterizza la recente produzione di Nicola Nannini, che approfondisce il dialogo tra i due generi pur continuando a riconoscere a ciascuno di essi una sorta di indipendenza. Quel che troviamo nei suoi ultimi racconti visivi sono, da una parte, soggetti già noti come cascine, caseggiati e abitazioni, immersi in una pianura che potremmo definire – per usare un’espressione di Giovanni Lindo Ferretti – “densamente spopolata”, quel genere di edifici che, insomma, sono divenuti oramai simbolo di una condizione di provincialità quasi archetipica e universale, dall’altra, una pletora di personaggi spiazzanti, geograficamente incongrui. Ci sono, infatti, accanto alle figure dei “locali”, una schiera di figure letteralmente catapultate da un altro contesto culturale, quello dell’America degli anni Cinquanta o meglio delle sue molteplici rappresentazioni cinematografiche.
Questo sorprendente accostamento all’interno delle opere di Nannini produce un effetto di alterazione della continuità spaziotemporale che, oltre ad essere il segno di una felice libertà espressiva, serve a rimarcare il carattere universale delle sue immagini, non più riferite a una precisa cultura o area geografica. Poco importa, infatti, se alle origini delle osservazioni dell’artista ci sono scorci e vedute della piana ferrarese. Quel che conta è, piuttosto, l’atmosfera stupefatta e sospesa, che potremmo trovare anche in un ipotetico altrove, sia esso collocato nelle campagne dell’Iowa o dell’Europa centrale o in una qualunque «pianura uguale a mille altre da intendersi», come dice l’artista, “come una sorta di foglio bianco su cui scrivere qualsiasi cosa reale o immaginata»[5].
Bonjour Monsieur Gauguin, 2023,olio su tela, cm 72×102
Il senso di queste anomalie è, infatti, di produrre uno spaesamento, cioè quel senso di disagio e perdita d’orientamento di chi si trova fuori del proprio ambiente abituale. Un sentimento che viene, se possibile, acuito dalla presenza di immagini “fuori posto”, ma riconoscibili come lemmi di una lingua diffusa, di una koinè occidentale che passa attraverso pellicole classiche come The Wizard of Oz – nel dipinto intitolato Bonjour Monsieur Gauguin (2023), dove i personaggi del film di Victor Fleming sono impaginati in uno spazio simile a quello di un omonimo olio su tela di Paul Gauguin – , oppure molteplici riferimenti alla fantascienza classica – con dischi volanti, invasori alieni e astronauti che invadono la bassa padana in opere come Accadde tutto una domenica mattina (2023), Defcon 2 (2023) e Lo strano caso del ragazzo che sapeva volare (2023) – usati come metafore della Guerra fredda, peraltro evocata anche nelle figure collocate nel margine destro di Nota zona di avvistamenti (2023), che fanno il verso all’estetica da Realismo socialista del primo Neo Rauch.
Le neveu aviateur, 2023, olio su tela, cm 72×102
In questo territorio, che Nannini interpreta come un foglio bianco da riempire, non ci sono solo i fantasmi del cinema, ma tutti i segnali dell’immaginario sociale e consumistico dell’American Graffiti, con le pin up e le caramelline gommose (Una rissa finita male, 2023), le automobili e le insegne al neon (Nota zona di avvistamenti) e perfino i rockabilly (Sotto bianchi cieli e Sala prove, 2023), superstiti cultori di un rock & roll che nell’Emilia degli anni Ottanta vantava ancora molti seguaci. Ma se la Padania è un foglio bianco, appunto, perché limitarsi a evocare l’America felix degli anni Cinquanta e Sessanta? Nannini introduce nella rappresentazione l’espediente dell’anomalia spazio-temporale per muoversi a piacere tra epoche e luoghi disparati. Al periodo tra le due guerre alludono sia la figura di Le Neveu aviateur (2023), asso dell’aeronautica che pare uscito dalla penna di Hugo Pratt, sia quella di Lawrence d’Arabia (Lettera al governatore della Libia, 2023), l’avventuriero che affinò il Grande gioco[6], l’attività di spionaggio dei servizi segreti e delle diplomazie occidentali in Medio Oriente e Asia Centrale. Cita, invece, la pittura veneziana del Settecento e l’Orientalismo romantico il dipinto La memoria dell’acqua (2023), un incredibile capriccio che, da un lato, confonde la morfologia fluviale della pianura lombardo-emiliana con una veduta lagunare popolata di figurine degne di Bernardo Bellotto e, dall’altro, fantastica attorno al fascino di una villa eclettica (o Liberty) che rimanda agli sfondi esotici della pittura di Alberto Pasini. Nannini concepisce evidentemente la pittura come un campo dalle infinite possibilità combinatorie e, così, dissemina le sue nuove opere di segnali e codici esogeni che hanno forme di oggetti e figure inconseguenti rispetto ai luoghi delle sue memorie. Sono apparizioni che provengono da un altrove che non è necessariamente “vissuto”, “esperito”, ma può essere anche solo pensato o immaginato. D’altronde, se c’è un segnale – come ricordava lo storico dell’arte George Kubler – il messaggio è necessariamente nel passato, anche se la sua ricezione avviene nel presente. L’altrove da cui partono questi segnali non è altro che l’attività mentale e associativa, quel coacervo di idee, impressioni, segni, tracce e visioni che l’artista dispone sempre più liberamente sulla solida impalcatura dei suoi paesaggi padani. Perfino in quei notturni, cui da lungo tempo ci ha abituati, che ora sembrano scorci di territori artici.
[1] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965, p. 17.
[2] Roberto Cresti, Attraverso la notte, in Nicola Nannini.Attraverso la notte, a cura di Roberto Cresti, catalogo mostra Centro Culturale Le Muse, Andria, 12 novembre 2017 – 31 gennaio 2018, p.19.
[4] Alberto Agazzani, La scelta di Nicola, in AA.VV., Nicola Nannini.Divertissement, a cura di Graziano Campanini, catalogo mostra Associazione Artistico Culturale Il Ponte, Pieve di Cento, Bologna, dicembre 2004 – gennaio 2005, Skira editore, Milano, 2004, p. 13.
[6] Gli storici chiamarono “Grande gioco” la contrapposizione strategica tra Impero Britannico e Russia zarista nel XIX secolo nella lotta al controllo coloniale dell’Asia centrale e del subcontinente indiano. A rendere popolare il termine fu lo scrittore britannico Ruyard Kipling nel romanzo Kim, che introduce il tema della rivalità e dell’intrigo spionistico tra potenze rivali.
Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider.
Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive.
Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative.
Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson.
Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti.
Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010).
Genoma italiano
La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale.
A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].
Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo.
Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione.
Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC.
Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale.
Eccentrici, apocalittici, pop
Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani.
La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.
Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.
L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason.
Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù.
Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue operesi possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd.
Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.
Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione.
L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.
Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.
Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop Surrealism, Nicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.
Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro.
Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.
Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore. El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso.
Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.
Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.
Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità.
Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.
[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.
[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.
[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.
[4]Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.
Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)
Nonostante le origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno inizialmente favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso fa riferimento non solo alla corrente storica fondata da André Breton, ma a tutte le forme di arte fantastica. Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti provenienti dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è diffuso anche in Italia, influenzando numerosi artisti, tra i quali anche Nicola Caredda.
Nato a Cagliari (Italia) nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è prima di tutto un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi fantastici e suggestioni distopiche. Nel passaggio dalla pittura agli NFT – presenti marketplace di SuperRare -, l’artista è riuscito a trasferire l’atmosfera sospesa e rarefatta dei suoi dipinti, dominati da macerie e detriti dell’età post-moderna, in una serie di animazioni distorte e allucinate, che danno corpo e solidità alle sue creazioni.
I suoi paesaggi, realizzati con la precisione di un miniaturista, mostrano i resti di una società trascorsa, i reperti di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo un’ipotetica quanto plausibile catastrofe nucleare oppure in seguito a un’apocalisse ecologica, è un globo disabitato e silente, una sorta di grande natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, scheletri architettonici e malinconici residui della società dei consumi.
Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)
Influenzato tanto dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e dagli artisti del Realismo Magico italiano e tedesco tra le due guerre, quanto dal contemporaneo Pop Surrealismo americano, l’artista ha costruito un linguaggio visivo che trasferisce il gusto decadente per le rovine e la passione per il mistero nel vocabolario iconografico della Modernità Liquida raccontata da Zygmunt Bauman.
Le sue visioni notturne, disseminate di angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati o elettrodomestici abbandonati, sommersi da una proliferante vegetazione, sembrano la perfetta rappresentazione della fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoermer, sarebbero la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.
Un altro modo di interpretare le opere di Caredda è, però, quello di considerarle come la raffigurazione dello stato di degrado delle moderne periferie urbane, che nella loro atmosfera di malinconico abbandono prefigurano la futura morfologia di un mondo post-apocalittico. È il caso di Everyone at Rolling Loud (si può vedere qui: OpenSea), in cui l’artista rappresenta ciò che resta alla fine di un rito collettivo come il Rollling Loud – il più importante festival di musica Rap e Trap -, quando, finita la musica, echi e vibrazioni sonore riverberano ancora nell’atmosfera satura di un luogo desolato e fatiscente, divenuto stranamente intimo e familiare.
Everyone at Rolling Loud, 2021, acrilico su tela, 120×100 cm
Hauntology è un vocabolo originariamente coniato dal filosofo Jaques Derrida nel libro Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova internazionale (1993). Si tratta di un gioco di parole composto dalla crasi del verbo to haunt (infestare, ossessionare) e del sostantivo ontology, che designa la disciplina filosofica che si occupa dello studio dell’essere in quanto tale, vale a dire di tutto ciò che ha le qualità dell’esistere, i cosiddetti enti. Secondo Mark Fisher, l’hauntologia, che eredita concetti usati in precedenza da Derrida come quelli di traccia e di différance, si riferisce al fatto che nulla gode di un’esistenza puramente positiva perché “tutto ciò che esiste è possibile soltanto sulla base di una serie di assenze che lo precedono e lo circondano, permettendogli così di acquisire la coerenza e l’intellegibilità che possiede”[1]. Con l’hauntologia, Derrida si oppone al concetto tradizionale di ontologia, che definisce l’essere come una presenza sempre identica a sé stessa, introducendo la figura dello spettro.
Lo spettro è un’entità che non è mai pienamente presente, che non possiede l’essere in sé ma che, come sosteneva Martin Hägglund in Radical Atheism: Derrida and the Time of life (2008), segna una relazione con ciò che non è più e con ciò che non è ancora. Per Mark Fisher, i fantasmi esercitano sul presente una “causalità spettrale”, proprio perché non possono essere pienamente presenti, essendo residui del passato o frammenti di un futuro mai esistito. Perciò, può essere definito hauntologico quel che, non essendo pienamente presente, gode di una sorta di ubiquità ed esercita sul presente un potere infestante e spettrale.
La pittura possiede una natura intimamente hauntologica. La sua propensione spettrale s’invera nel persistente rimando a qualcosa che non è mai del tutto presente, a un altrove verso il quale ogni significato slitta inevitabilmente. L’infestazione può provenire dal passato, dal futuro o da una dimensione temporale distorta. Si può dire che l’immagine pittorica non abita mai l’attuale, se non sotto forma di traccia o di ectoplasma di un tempo disallineato.
“Una delle espressioni che si ripetono negli Spettri di Marx”, spiega Fisher, “è una frase proveniente dall’Amleto, «il tempo è fuori di sesto»”[2]. Significa che il tempo è lussato, disarticolato e che spetta ad Amleto, per destino o fatalità, di rimetterlo sui giusti binari ripristinando la giustizia. A chiederlo è il fantasma del padre assassinato, che reclama vendetta, lamentando la crudeltà di un tempo che non lascia requie nemmeno ai morti. Tempo fuor di sesto è anche il titolo di un romanzo di Philip K. Dick, pubblicato nel 1959, in cui il personaggio di Ragle Gumm, come Amleto, è ossessionato dallo spettro paterno. In entrambi i casi, la percezione dei protagonisti di vivere in un tempo fuori di sesto implica un senso di turbamento rispetto alla natura anomala e traviata del presente. Ma tale turbamento non si traduce in una critica della realtà, ma piuttosto in un’interrogazione sulla natura stessa della realtà. “Che cosa è reale? Che cosa è vero?”, si chiedono ontologicamente i due personaggi. Ed è qui che entra in campo lo spettro, il fantasma, la sostanza ectoplasmatica, che non è tanto un’essere soprannaturale, ma un’entità virtuale che agisce senza essere presente.
L’hauntologia derridiana (e fisheriana) non è, tuttavia, un concetto sostitutivo della nostalgia. Lo spettro con cui l’hauntologia fa i conti non è solo quello del passato, avvertito come un tempo migliore rispetto al presente, ma è soprattutto quello del futuro che non si manifesta. Un “futuro forcluso”, come lo definisce Fisher, la promessa di un passato che non si realizzerà. Quindi, non solo l’hauntologia costituisce il volto fantasmatico dell’ontologia, ma ne è anche la variante temporalmente ubiqua, che marca l’esistenza delle cose con “una serie di assenze”: il non più e il non ancora che esercitano sulla realtà un’influenza spettrale, virtuale.
La pittura, ogni forma di pittura, reitera il potere infestante degli spettri attraverso persistenze, ripetizioni e prefigurazioni che impediscono ogni forma di equazione col presente. Essa, infatti, si sottrae sistematicamente al potere bloccante della realtà, così come viene intesa dall’ontologia tradizionale. Si può dire che tutta la pittura è “fuor di sesto” in quanto non corrisponde mai pienamente alla realtà di cui è, piuttosto, parvenza, rappresentazione esteriore, simulacro e fantasmagoria. Di più, la pittura, similmente a quanto scrive Baudrillard a proposito dell’arte tutta, “costringe la realtà a sparire e introduce dunque, contro il naturale corso del mondo, le condizioni del Giudizio finale”[3]. Ed è qui curioso che l’espressione “contro il naturale corso del mondo”, in cui avvertiamo l’eco dello shakespeariano “tempo fuori di sesto”, sia connessa, come nell’Amleto, all’idea di ristabilire una giustizia, quella di un apocalittico giudizio finale.
Persistenze, ripetizioni, prefigurazioni sono rilevate anche da Baudrillard quando afferma che “Noi viviamo nella riproduzione indefinita di ideali, di fantasmi, di immagini, di segni, che sono ormai dietro di noi e che dobbiamo tuttavia riprodurre in una specie di indifferenza fatale”[4]. È il risultato di un processo dissolutivo di deterrenza del simbolico che ha sostituito il simbolo, tipico delle espressioni artistiche del passato, con l’immaginario (imagery) che caratterizza i linguaggi post-moderni. “Noi stiamo vivendo la trasformazione dei simboli in immagini”, spiega Fulvio Carmagnola, “ovvero la dissoluzione dello spazio o del dominio del simbolico, come già da tempo ha affermato Baudrillard: «non c’è più scambio simbolico a livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice»”[5]. Secondo Carmagnola, “L’imagery implica […] sia la presenza di un insieme di figure che precedono l’uso individuale, che appartengono al patrimonio della cultura e del linguaggio – o secondo un’altra lettura al regno degli archetipi sovratemporali – sia l’attività individuale, poietica, di creazione e ricombinazione”[6]. In entrambe le accezioni, l’imagery si contrappone alla realtà in quanto costrutto formato da immagini mentali di cui, peraltro, la pittura fa largo uso, perfino quando impiega linguaggi iper-mimetici per ricalcare fedelmente la realtà.
Potremmo dire, parafrasando Fisher, che in pittura l’hauntologia non rappresenta un caso raro, anzi essa è già presente in Baudrillard quando parla di “simulacri” e “immagini sintetiche” e quando introduce i concetti di “tecno-tele-discorsività” e “tecno-tele-iconicità” per rilevare la crisi di spazio e tempo prodotta dall’avvento delle nuove tecnologie, grazie alle quali “eventi spazialmente remoti divengono disponibili al pubblico nello stesso istante”[7].
Emblematici, in tal senso, sono gli Internet Paintings di Miltos Manetas, pensati inizialmente come opere work-in-progress che riproducono temporaneamente sulla tela schermate di siti web destinati a modificarsi o scomparire nel tempo. Nel suo tentativo di forzare la pittura a fondersi con la natura impalpabile ed effimera delle immagini del cyberspazio, Manetas concepisce quadri che cambiano continuamente per effetto di progressive sovrascritture pittoriche che ricalcano il perpetuo mutamento dei contenuti virtuali di internet. Internet Painting (Off) è un grande olio su tela del 2002 che testimonia l’interruzione (o la momentanea messa in pausa) di un processo virtualmente infinito. Così, le immagini impresse sulla tela diventano la traccia (ectoplasmatica) di una pletora di iconografie provvisorie, che la rete consegna all’implacabile flusso degli aggiornamenti periodici.
In una dimensione antitetica si allignano le rovine architettoniche della civiltà industriale che ossessionano Andrea Chiesi, il quale trascrive su tela il sogno (o l’incubo) di una modernità solida che resiste alle trasformazioni della società liquida profetizzata da Zygmunt Bauman. Siamo lontani, però, dalle tassonomiche indagini dei coniugi Bernd e Hilla Becker, con le loro fotografie di edifici industriali dal taglio obbiettivo e documentaristico. Quelli di Chiesi sono, invece, paesaggi lividi, plumbei, dove sembra che gli spettri di un’epoca trascorsa si siano solidificati nelle ossature di acciaio e cemento di fabbriche e infrastrutture abbandonate. Qui, più che l’anonimia dei non-luoghi di Marc Augé, si avverte la presenza infestante delle memorie materiali, oggetti tragici, quanto inutili, che resistono all’usura del tempo. Come le lunghe file di schedari di un vecchio archivio di stato che nessuno consulta più.
È una pittura abitata dai fantasmi dell’arte del passato quella di Pablo Candiloro, che materializza schegge di memoria visiva nelle sue pennellate di malte sintetiche, bruciate con una pistola termica. La qualità materiale dei suoi dipinti è quasi un antidoto visivo contro l’invadenza delle immagini “tele-tecnologiche” di cui parlava Baudrillard, che oggi cannibalizzano il dominio della visione. Perfino l’evocazione (quasi spiritica) dei maestri del passato, attraverso il tema del ritratto sul balcone, già trattato da una pletora di pittori – da Goya a Manet, da Caillebotte a Segantini, fino a Boccioni e Magritte -, si costituisce come una forma di resistenza contro la montante marea dell’immaginario mediatico. La riflessione di Candiloro si svolge, dunque, attorno al tema del ruolo della pittura in quello che lui stesso definisce “un tempo disarticolato e frastornato” o, per meglio dire, “fuori di sesto”. “Che cosa resta della capacità di visione della pittura oggi?”, sembra chiedersi l’artista. La risposta si trova, forse, nel piccolo, prezioso dipinto che raffigura un paio di occhiali rotti. Come a dire che, per l’artista, le sorti della pittura si giocano più che sul piano della seduzione ottica e retinica, già presidiato dall’imagery massmediatica, sul terreno delle qualità evocative (ed elusive) delle immagini.
Al contrario, la pittura di Maurizio Cannavacciuolo irretisce lo sguardo dell’osservatore in una griglia visiva squisitamente ottica e bidimensionale, dove vocaboli figurativi e astratti si affastellano a formare un’ipnotica tessitura iconografica. La superficie è il luogo in cui, per effetto dell’annullamento di corpo e spazio, le immagini possono assumere un valore puramente segnaletico, esornativo, ma anche indicativo. Come frammenti indiziari di un enigma irrisolvibile, i lemmi figurativi di Cannavacciuolo costituiscono gli ingranaggi di quella che è stata spesso definita una sorta di machine à penser, o meglio, un dispositivo di pattern recognition (per dirla con William Gibson), che sfida l’osservatore a pensare e riconoscere differenti modelli e codici visivi. Il dipinto intitolato Lazy Ceramist Violet Sunflower VS Green (2021) è il perfetto esempio di questa strategia fatale, una trappola che conduce, attraverso la deterrenza del simbolico, a quella che Baudrillard chiama “la vertigine tattile dell’immagine”[8].
Una vertigine spirituale è invece quella prodotta dalla pittura di Alberto Di Fabio che indaga, a cavallo tra arte e scienza, relazioni e corrispondenze tra gli universi microcosmico e macrocosmico della natura, intesi come riflessi di un ordine che opera similmente su scale di grandezza differenti. Con quella che è stata definita una grammatica “realisticamente astratta”, Di Fabio indaga, solitamente, oggetti che esuberano le possibilità percettive dell’occhio umano, come fenomeni subatomici, forme microbiologiche, eventi elettromagnetici, reti neurali o siderali geografie stellari, mostrando, così, le analogie che accomunano le diverse manifestazioni dell’esistenza. I lavori su carta degli inizi degli anni ’90 possono essere letti come un primo tentativo di ristrutturazione del tessuto simbolico della pittura. Le montagne di Di Fabio, dove si avverte la spettrale relazione con i soggetti dipinti da Mario Sironi negli anni Cinquanta, sono, infatti, morfologie naturali che rimandano ai temi “tradizionali” della montagna cosmica e dell’arboreo axis mundi, entrambi raffigurazioni delle possibilità di elevazione spirituale dell’uomo.
Una pittura concisa, stringata, distillata è quella di Marco Neri, che trasforma memorie e impressioni del vissuto in paesaggi architettonicamente strutturati, dominati da linee e volumi geometrici. La trascrizione del tempo in spazio nei suoi dipinti corrisponde alla formulazione d’immagini essenziali, simili a segnali. “La natura del segnale”, scriveva George Kubler, “è tale che il messaggio convenuto non è «qui» né «ora», ma «là» e «allora»”[9]. Ciò significa che se c’è un segnale, il messaggio è nel passato, ma la sua percezione avviene nel presente. Dipinti come Monologo (2013) o i due acquarelli della serie Passanteincrociato (2011), mostrano la distanza che intercorre tra l’impulso iniziale del messaggio, cioè impressioni ed esperienze ricavate dall’osservazione della realtà, e la sua codificazione in immagine. Questa codificazione della ridondanza esperienziale in immagini elegantemente scarne, quasi diagrammatiche, ricorda il processo di riduzione husserliana, un metodo filosofico che, attraverso lo scarto del dato empirico e psicologico, conduce all’essenza dei fenomeni.
Curioso come la pittura di Daniele Galliano intrattenga un rapporto ambiguo con la realtà. Infatti, se da una parte l’artista ricorre a fonti fotografiche per catturare schegge di vita quotidiana, dall’altra traduce tali spunti in un linguaggio pittorico “low-fi” che Mario Perniola ha definito “iporealistico”, nel senso che opera un downgrade della definizione ottica attraverso la sfocatura delle immagini. Tra l’altro, come asserisce proprio Perniola, “nessuna operazione artistica può più battere l’effetto traumatico o immondo di un reportage fotografico”[10]. Di conseguenza, l’estetica “fuzzy” di Galliano è il risultato di una rimediazione della sorgente fotografica attraverso lo strumento caldo della pittura. Un processo che porta non solo a sostanziare il fantasma dell’immagine mediale nella materia organica e oleosa, ma che, di fatto, produce un radicale stravolgimento del senso dell’immagine stessa. Infatti, alla sottrazione di fedeltà retinica corrisponde un potenziamento del gradiente emotivo e seduttivo che ritroviamo tanto nelle scene collettive con gruppi di bagnanti, quanto nei ritratti di donne colte in momenti d’intimità erotica (o auto-erotica).
La rappresentazione anatomica nella pittura di Nicola Verlato è una forma di possessione dello spirito “classico”, che l’artista adatta a un campionario di nuove iconografie, come uno schema flessibile, infinitamente modulabile. Come avverte Salvatore Settis, “molte apparizioni e riapparizioni del ‘classico’ hanno preso e prendono la forma non tanto della riscoperta, quanto della rinascita o del ritorno, quasi si trattasse di un fantasma dotato di propria volontà e personalità, capace di tornare allo scoperto quando meglio creda”[11]. Ma tale iterazione del classico, che nella produzione di Verlato si avvale dell’interpolazione tra vecchie tecniche artigianali e moderne tecnologie digitali di elaborazione 3D delle immagini, assume anche un valore programmatico. La costruzione anatomica diventa, infatti, il segnale di una concezione che non relega l’arte alla mera produzione di idee, ma reintegra quell’insieme di abilità, perizia professionale e padronanza delle regole del mestiere che gli antichi chiamavano techné. Singolare è, invece, il modo in cui – per esempio in opere come Mishima Seppuku 2 (2021) e Study for “The Settler 2” (2020) – la persistenza del “classico” passi attraverso un immaginario weird, come lo definirebbe Fisher, in cui elementi dell’iconografia pagana e cristiana vengono calati in circostanze e ambientazioni a loro estranee. Si tratta di una dislocazione destabilizzante, che catapulta i tropi classici all’interno di inedite congiunture spazio-temporali.
Nell’arte di Danilo Bucchi lo iato che esiste tra gesto e segno è evidente. Sulla tela, infatti, possiamo leggere solo la traccia, quasi una registrazione di un complesso di azioni. Una traccia è qualsiasi segno lasciato dal passaggio di un corpo su una superficie e un disegno è, indubbiamente una traccia. Ciò significa che l’energia meccanica che l’ha generata (la traccia) è nel passato, nel non più, mentre davanti ai nostri occhi si dipana la sua scia, la cui natura è, ancora una volta, quella di un segnale. Henri Focillon sosteneva che “Quale che sia la forza di ricezione e di invenzione della mente, senza il concorso della mano essa non darebbe vita che ad un tumulto interiore”[12]. Danilo Bucchi ha trovato il modo di trasformare il tumulto in una pittura che è soprattutto una forma di “appropriazione” del mondo. Non si tratta, naturalmente, di una conoscenza razionale, sorvegliata, ma di una esperienza in cui la mano non è la “docile serva della mente”. Un dipinto come Butterfly (2016) si mostra, allora, come il prodotto di due intelligenze, quella contemplativa e quella tattile, che operano congiuntamente. Tutto parte, rubando le parole di Focillon, con “Una linea, un segno sull’aridità del foglio bianco, divorato dalla luce [dove] senza compiacersi in artifici tecnici, senza attardarsi in alchimie complesse, si direbbe che lo spirito parli allo spirito”[13].
Lo spazio cavo del bianco è il locus su cui si dirime l’impronta pittorica di Gianluca Di Pasquale, che in molti dipinti si dà attraverso una micro-gestualità che organizza la presenza antropica sulla superficie di una tela che, stando a quel che dice Gilles Deleuze, è, fin dall’inizio, interamente ingombra di cliché. “Il lavoro del pittore”, sostiene, infatti, il filosofo francese, “consiste nel distruggerli: il pittore deve passare attraverso un momento in cui non vede più nulla, attraverso uno sprofondamento delle coordinate visuali”[14]. Questo momento è, per Gianluca Di Pasquale l’incipit di un processo simile a una disciplina meditativa. Certo, i suoi quadri mostrano letteralmente gli scorci innevati di un paesaggio alpino (L’ultima discesa, 2023), appena segnato dall’esigua presenza di alberi e sciatori, ma possono essere letti anche alla luce di una “dialettica di pieno e di vuoto”[15], dove il vuoto è inteso come uno spazio generativo di epifanie discrete e sommesse apparizioni. La sensazione di silenzio, che molti hanno notato nei candidi landscape di Di Pasquale – e che in qualche modo corrobora l’idea di una pittura misurata, discreta appunto – emana anche dai suoi ritratti, lavori come Felce e fiori (2023) e La cuffia verde (2023) dove la dialettica tra vuoti e pieni appare più bilanciata e dove la figura umana si sostituisce al paesaggio nel divenire ricettacolo di forme ritmiche, pattern che scandiscono, con minuzie esornative, il campo della visione (e del pensiero).
Vanni Cuoghi intende la pittura come una mise-en-scène, un palcoscenico che ospita una pletora di finzioni, allestite scenograficamente per costruire un mondo che non c’è, un mondo altro, dove le abituali coordinate spazio-temporali sono sospese. In questa serie di lavori, l’atto pittorico è preceduto da un momento costruttivo, in cui l’artista edifica piccole maquette servendosi di materiali di scarto, oggetti, strumenti, periferiche che fanno da sfondo al lavoro di studio. Questi teatri miniaturizzati sono microcosmi metafisici tangibili in cui, come notavo in altre occasioni, si avverte l’irrompere di una dimensione weird, perturbante, che manifesta un’alterità irriducibile di marca quasi lovecraftiana. Proprio Mark Fisher scriveva che “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[16]. Questi surreali assemblaggi sono come cartamodelli dai quali Vanni Cuoghi muove per elaborare una pittura teatralizzata e sfacciatamente artificiale, che smaterializza la dimensione oggettuale del prototipo nella sostanza virtuale dell’immagine. Lo slittamento dall’oggetto alla tela è, però, foriero di conseguenze, perché il dipinto non è mai una mera trasposizione. Opere del ciclo “La messa in scena della pittura”, come ad esempio Night Fever (2021) e Judith (2022), mostrano il carattere pretestuoso del prototipo, rivelando, invece, la natura radicalmente trasformativa del gesto pittorico, che appare come il veicolo più adeguato all’esplorazione di una realtà “fuori di sesto”.
La potenza metamorfica dell’immagine infesta tutta la pittura di Fulvio Di Piazza, che traduce inquiete morfologie geografiche in perturbanti fisionomie, adattando, così, la lezione di Arcimboldo all’atmosfera apocalittica della fine dell’antropocene, l’attuale era geologica caratterizzata dalle conseguenze ambientali prodotte dall’attività dell’uomo. Potrebbe essere, come già pensava Jurgis Baltrušaitis a proposito dei cicli di corruzione delle forme classiche, che anche la pittura di Di Piazza sia la conseguenza di una stabilità alterata delle grammatiche artistiche, in cui “quando le metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l’immaginazione, ecco che ritroviamo il mostro e la bestia”[17]. I dipinti King of Klan (2017) e Spettro del Reef (2023) non solo mostrano la qualità allucinata delle sue portentose personificazioni, creature mutanti formate da miriadi di concrezioni fossili e agglomerati di organismi viventi, ma offrono anche uno spaccato delle proprietà incantatorie di una pittura rigogliosa, eccedente, dove l’eredità della sensibilità barocca s’innesta sul disturbante immaginario surrealista e, insieme, sulle distopiche visioni della fantascienza popolare.
I dipinti di Elisa Filomena sembrano superfici dilavate dal tempo, abitate da personaggi spettrali, dalla consistenza incerta. Queste figure sottili, quasi di filigrana, sono forse la migliore trascrizione visiva della natura frammentaria delle memorie. Come le memorie, esse hanno, infatti, una forma incompleta, corrotta e un carattere arbitrario che deriva dal desiderio dell’artista di cogliere la qualità impalpabile, essenziale delle immagini. Lo spunto iconografico deriva talvolta da vecchie fotografie dell’Ottocento o degli inizi del Novecento, ma viene poi filtrato da un lungo processo di gestazione pittorica che libera le immagini da ogni scoria accidentale, asciugandole e assottigliandole fino a renderle quasi trasparenti come flebili ectoplasmi. Alla radice di questa prassi hauntologica, c’è l’ambizione di visualizzare la sostanza rarefatta dei ricordi, evanescente come l’eco di una voce registrata su un vecchio nastro magnetico. Figure (2019) e Le muse (2020) sono il prodotto esemplare di una pittura intesa come pratica medianica, capace di evocare in immagini lo spirito di un tempo trascorso e i fantasmi di vite mai vissute.
La pittura di Giuditta Branconi è come una tessitura iconografica organizzata intorno all’armatura della tela. Le immagini, sono, infatti, dipinte su entrambi i lati del supporto, a formare una compatta struttura di trame e orditi visuali che occupano l’intera superficie senza soluzione di continuità. Il risultato di questo procedimento è la creazione di una grammatica esuberante, eccedente, costruita anche attraverso l’affastellamento di disparati codici linguistici, dal tatuaggio alla serigrafia, dall’illustrazione all’ornamento. Si tratta di un approccio cumulativo, che scarta ogni tradizionale gerarchia stilistica per far confluire elementi antitetici in un unico continuum narrativo. In dipinti come Dillo al vento (per Vladimir) e Ancora cieca, la superficie, saturata da una pletora di tropi iconici ed esornativi, si offre allo sguardo dell’osservatore come un vertiginoso sbarramento visivo. Ma è proprio questa plenitudine retinica, questa compattezza ottica dal ritmo ossessivo e incantatorio a rendere la pittura di Giuditta Branconi una sorta di formulario di giaculatorie visive o di moderno grimorio figurato.
Per Giampiero Bodino la costruzione della pittura passa attraverso l’interpolazione e l’alterazione di immagini fotografiche, considerate come parte della moderna dotazione strumentale dell’artista. La trasformazione del lemma fotografico in sintagma pittorico è un atto di fagocitazione mediatica che denuncia la natura onnivora, ma non per questo meno selettiva, della sua prassi artistica. Per Bodino il frammento fotografico, sia esso stampato o dipinto, è parte integrante di una complessa architettura iconografica, che si propone anche come un’interrogazione sul valore delle immagini in quest’epoca di esuberanza mediatica. Per questo, un elemento decisivo della sua pittura concerne la post-produzione, attraverso cui l’artista snatura la fonte fotografica enfatizzando, quasi espressionisticamente, i contrasti luministici. L’immaginario che ne deriva non può che ruotare attorno al tema della memoria, intesa come serbatoio d’immagini alterate, fabbricate e, in un certo senso, “post-prodotte” in forma di ricordi che, come il drammatico ritratto in bianco e nero di Bob Kennedy nel piccolo dittico Presunzione d’innocenza (2023), non corrispondono mai alla realtà.
Un ritratto pittorico non è mai una mera restituzione dei tratti somatici di un volto, ma piuttosto una sintesi degli elementi sia tangibili che aleatori di una personalità. Lo sapeva bene Fulvia Zambon, che catturava l’anima dei suoi soggetti non solo ritraendoli dal vivo, ma soprattutto costruendosi di loro una precisa immagine mentale, quasi la vista, da sola, fosse uno strumento inadeguato. “Dipingo per me stessa”, diceva, “e per coloro che sanno che la realtà che vediamo non è sufficiente”. Torinese di nascita, ma americana d’adozione, Zambon era stata allieva di Ronald Sherr, celebre ritrattista di entrambi i presidenti Bush e di altri personaggi di spicco della società americana, ma il suo stile si discosta notevolmente da quello paludato e celebrativo del maestro, per la sua capacità di cogliere, in un certo senso, il carattere sovratemporale di certe personalità. L’artista sapeva, infatti, che stare davanti a un quadro non significa solo interrogare l’oggetto dei nostri sguardi ma, come sosteneva Georges Didi-Huberman, “Vuol dire anche fermarsi di fronte al tempo”[18]. Quelli di Monica Lynch(2016) e Sara Schoofs (2017) sono ritratti “fuori flusso”, nel senso che non abitano la realtà del divenire fenomenico, ma piuttosto una dimensione contemplativa, atarassica, non turbata dalle passioni esistenziali. Ed è questa una cosa che solo una pittura autenticamente hauntologica può fare.
[1] Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, traduzione di Vincenzo Perna, 2019, Minimum Fax, Roma, p. 32.
[9] George Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, 2001, traduzione di Giuseppe Casatello, Einaudi, Torino, p. 25.
[10] Mario Perniola, L’arte espansa, 2019, Einaudi, Torino, p. 29.
[11] Salvatore Settis, Futuro del “classico”, 2020, Einaudi, Torino, p. 9.
[12] Henri Focillon, Elogio della mano, traduzione di Elena De Angeli, in Vita delle forme seguito da Elogio della mano, 2018, Einaudi, Torino, p. 114.
[14] Gilles Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di Ubaldo Fadini, 2002, Ombre corte, Verona, p. 106.
[15] Alberto Mugnaini, Gianluca Di Pasquale. Respirare la pittura, in «Flash Art», marzo/aprile 2015, p. 53.
[16] Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, traduzione di Vincenzo Perna, 2022, Minimum Fax, Roma, p. 10.
[17]Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, traduzione di Fulvio Zuliani e F. Bovoli, 1997, Adelphi, Milano, p. 43.
[18] Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, 2007, Bollati Boringhieri, Torino, p. 16.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.