Tag Archives: Giovanni Motta

Crypto Series: The Future is Unwritten

5 Lug

Questo testo è stato scritto in occasione dell’omonima mostra, curata dal sottoscritto insieme a Linda Tommasi, a Villa Ciani, a Lugano, dal 15 al 21 novembre 2021, e dunque riflette il clima di entusiasmo di quel particolare periodo. The Future is Unwritten, che io sappia, è stata la prima esposizione pubblica di opere di Crypto Art in Svizzera, realizzata dal comune di Lugano grazie al fondamentale contributo di un importante collezionista, Poseidon NFT Fund (oggi Poseidon DAO).

Introduzione

Di Ivan Quaroni

Se ne è parlato e scritto molto. Il nuovo hype è la Crypto art, l’arte digitale che si acquista con le cripto valute (Ethereum soprattutto) su piattaforme come SuperRare, Nifty Gateway, Rarible, Opensea o Foundation, tanto per citarne alcune. Un’arte che, a dire il vero, esisteva già, ma era completamente, o quasi, ignorata dal sistema mercantile tradizionale in ragione della sua immaterialità e quindi invendibilità. Si tratta, infatti, di opere fatte solo di immagini, animazioni, Gif o brevi video che i collezionisti non usano (almeno non tutti) per arredare il proprio salotto, ma che possono comunque essere esposte in gallerie virtuali o attraverso monitor nei musei e nelle gallerie d’arte. Nella stragrande maggioranza dei casi è un’arte nativa digitale, realizzata con software e strumenti di elaborazione delle immagini come Photoshop o Cinema 4D, ma può essere anche il prodotto della digitalizzazione di opere tradizionali, come quadri, fotografie o sculture trasformati in NFT.

L’NFT (Non Fungible Token) è un sistema crittografico che consente di fornire prove di autenticità e proprietà dell’arte digitale. La portata innovativa di questo sistema consiste nel prevenire falsificazioni di ogni tipo. L’immagine di un’opera crypto potrà anche essere copiata, ma non il suo certificato di proprietà, le cui informazioni sono fissate nella blockchain – una sorta di registro digitale delle transazioni in cripto valuta – e quindi non possono in alcun modo essere alterate. A far emergere il fenomeno hanno contribuito i numerosi articoli sull’argomento che, però, si limitavano a sottolineare la rilevanza economica di questo nuovo mercato, snocciolando cifre e record d’asta come nel caso dei 69 milioni di dollari totalizzati da Christie’s per la vendita di Everydays: The First 5000 Days di Beeple, e trascuravano invece gli aspetti culturali della crypto arte e i motivi che ne hanno favorito l’emersione.

Il grande merito della rivoluzione Crypto, per molti versi assimilabile all’esplosione del Punk alla fine degli anni Settanta (tanto da contenere elementi di filiazione fin troppo evidenti, dal fenomeno dei CryptoPunks alla collaborazione di Hackatao con i Blondie, fino all’estetica DIY di XCOPY), è stato quello di aver liberato un potenziale creativo abnorme, fornendo una dimensione mercantile a linguaggi, espressioni e grammatiche artistiche fino a quel momento marginalizzate dal sistema dell’arte tradizionale. Tra le centinaia, anzi migliaia, di artisti che si sono avventurati nel mondo degli NFT, oltre quelli che provengono da precedenti esperienze artistiche e che possono vantare un curriculum di tutto rispetto, ve ne sono molti che, invece, si sono fatti le ossa nell’industria cinematografica o in quella dei videogame, nella pubblicità o nella televisione, lavorando come graphic designerconceptual artistcharacter designerart directormatte painter3D artistvisual designer game designer, ed altri che, semplicemente, si dilettavano a produrre arte per se stessi. Per molti, soprattutto per quelli che rientrano nella categoria dei commercial artists, la scoperta degli NFT è stato un modo per ritornare a una dimensione artistica e autoriale, finalmente libera dagli obblighi imposti dalla committenza. Sono emerse, così, nuove personalità che altrimenti non avrebbero trovato posto in un settore, come quello artistico, viziato da storture sistemiche ormai note a tutti.

Un altro elemento rivoluzionario dell’ondata di Crypto Art riguarda l’accorciamento della filiera tradizionale dell’arte, che ha portato gli artisti a diretto contatto con i collezionisti, cancellando, di fatto, la mediazione economica delle gallerie e, in un primo momento, anche quella culturale dei curatori e dei critici d’arte, che sono stati poi reintegrati come elemento indispensabile di divulgazione e storytelling. Si può, infatti, affermare che la mediazione economica sia passata alle succitate piattaforme di vendita, le quali, però, si accontentano di percentuali assai minori su ogni transazione rispetto a quelle applicate nel vecchio mercato. In molti credono che questa rivoluzione stia tagliando fuori gli elementi ingiustamente considerati parassitari e che costituivano la “catena del valore” attraverso le strategie di posizionamento e l’elaborazione critica e documentaria, e che abbia finalmente restituito centralità alla figura dell’artista (e forse anche a quella del collezionista e mecenate). Ma è un’impostazione che alcune piattaforme hanno subito abbandonato, dotandosi di board interni, formati da curatori, collezionisti, artisti e membri della community che garantiscono la presenza di procedure che vagliano la qualità delle proposte artistiche.

Il problema, tuttavia, resta quello di orientarsi nella sterminata galassia della Crypto Art. Per trovare la bussola bisogna prima familiarizzare col gergo strettamente tecnico di questo nuovo mondo, imparando a distinguere, nella pletora dei neologismi, quelli che possono aiutarci a capire meglio il fenomeno. Per prima cosa bisogna capire che il cosiddetto “NFT”, il Non Fungible Token, non è l’opera, ma il dispositivo che rende possibile la sua presenza sulla blockchain. Capita spesso di riferirsi al lavoro di un artista con questo termine, ma è solo un’approssimazione comoda per distinguere questo tipo di opere da altre opere digitali. Anche “crypto arte” è una definizione di comodo per indicare – come spiega Domenico Quaranta in Surfing with Satoshi (2021, postmedia books, Milano) – “un’arte digitale oppure digitalizzata resa rara dalla sua registrazione su blockchain”. Questo significa che la Crypto Art non è un fenomeno artistico alla stregua dell’Impressionismo, del Futurismo o del Dadaismo, caratterizzato da uno stile, da una tecnica o da contenuti programmatici coerenti, ma qualcosa di estremamente variegato, tentacolare, multiforme e, dunque, molto difficile da definire. Quel che si può e si deve fare per esplorare questo nuovo territorio è ricostruire la catena del valore. Manca, infatti, una letteratura che sappia interpretare in termini artistici, critici, estetici, stilistici (ma anche politici e sociologici) il valore di opere che sembrano ricollegarsi più all’immaginario fantascientifico del cyberpunk o a quello delle subculture della rete come la Vaporwave e la Retrowave, o a quello popolare di fumetti e cartoni animati, piuttosto che non alle evoluzioni della storia dell’arte. L’unico modo per costruire una documentazione valida è iniziare ad occuparsi non del fenomeno, ma dei singoli artisti, delle loro genealogie culturali, delle ricorrenze e iterazioni che caratterizzano le loro ricerche. Solo così diventa possibile tracciare una mappa e costruire una geografia di questo universo che – ho la netta impressione – sia tutto, fuorché una moda passeggera o una temporanea tendenza della stagione pandemica.

La mostra The Future is Unwritten nasce come una selezione di opere tra le centinaia di NFT che costituiscono la collezione del Gruppo Poseidon, una delle più grandi e cospicue in Europa. I criteri di scelta hanno tenuto conto prima di tutto del principio di autorialità, che ci hanno condotto a scartare tutte le produzioni NFT non specificamente artistiche, come ad esempio i collectible, e le card. Secondariamente abbiamo valutato la rilevanza dei nomi e il loro contributo alla nascita e allo sviluppo della Crypto Art. Accanto ad artisti di caratura internazionale, come Beeple, XCOPY, Hackatao, Dangiuz, Federico Clapis, Skygolpe, Fabio Giampietro, Raphael Lacoste, Giovanni Motta, Andre Chiampo, che hanno giocato, con pesi e misure differenti, un ruolo di anticipatori, pionieri o attivisti nella definizione di questa nuova compagine, abbiamo selezionato un nucleo di artisti esordienti nell’universo NFT, come Niro Perrone, Nicola Caredda, Giuseppe Veneziano, Adriana Glaviano e Giò Roman, per la qualità e l’originalità delle loro opere. Unica eccezione al principio di autorialità, ma non a quello dell’innovazione pionieristica, è rappresentato dall’inclusione in questa mostra collectible come i due CryptoPunks del Larva Labs e l’esemplare di Bored Ape Yacht Club dello Yuga Labs, scelti per il loro valore iconico e per tutto ciò che hanno rappresentato e continuano a rappresentare per la comunità crypto, insieme dei brand, degli status symbol e, soprattutto, dei codici e dei segnali di riconoscimento e di appartenenza. La mostra ci fornisce una visione inevitabilmente parziale, ma significativa dei linguaggi che caratterizzano questo nuovo comparto dell’arte digitale, un mondo che è appena nato, ma che crediamo, come suggerisce il titolo, sarà foriero, nei prossimi anni, di ulteriori e forse imprevedibili sviluppi.

Beeple

di Ivan Quaroni

È il più importante artista della scena crypto, divenuto l’emblema di una rivoluzione che, come lui stesso ha affermato, ha aperto “un nuovo capitolo della storia dell’arte”. Il suo nome è rimbalzato su tutti i principali canali d’informazione come l’autore di Everydays: The First 5000 Days, la terza più costosa opera d’arte al mondo, dopo Rabbit di Jeff Koons e Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) di David Hockney, battuta lo scorso 11 marzo da Christie’s per l’incredibile cifra di 69,3 milioni di dollari, cosa che lo ha reso anche il più celebre artista digitale di tutti i tempi e il primo a raggiungere il record per la vendita di un’opera immateriale. Il suo gigantesco collage, composto da 5000 immagini, ognuna delle quali è stata realizzata in uno dei 5000 giorni richiesti per completare l’intero lavoro, non solo ha sorpassato in valore Old Masters come Raffaello e Tiziano, ma ha anche segnato il passo del lungo percorso di riconoscimento delle opere digitali, che, grazie a lui, sono ora trattate sul mercato dell’arte alla stregua delle opere tradizionali. La persona che sta dietro lo pseudonimo di Beeple è Mike Winkelmann. Classe 1981, nato e cresciuto a North Fond du Lac, una piccola cittadina del Wisconsin, Beeple ha cominciato la sua carriera d’artista nel 2007, quando ha creato il ritratto di suo zio Jim, la prima delle immagini di Everydays: The First 5000 Days. Il suo immaginario è influenzato dalla cultura di massa, dal fumetto, dai cartoni animati, dalla fantascienza, ma anche dai videogame e dalla cronaca. Dopo una laurea in informatica e un’esperienza come web designer, Beeple – un nome preso in prestito da un peluche degli anni Ottanta -, si è dedicato all’arte con una disciplina esemplare, realizzando un’opera al giorno per 13 anni, usando programmi come Photoshop e Cinema 4D. Il risultato di tanta dedizione, aldilà dei suoi successi personali, è stato di aver aperto la strada a migliaia di artisti digitali snobbati dal vecchio sistema dell’arte, che li considerava poco più di semplici illustratori. 

L’opera esposta in questa mostra è GIGACHAD, un video in cento esemplari che raffigura Elon Musk a passeggio con un cane. Il Ceo di Tesla è rappresentato col corpo muscoloso di Gigachad, un personaggio meme simile all’Incredibile Hulk, accompagnato da un cane della razza giapponese Shiba Inu, simbolo della dogecoin, una criptovauta nata per scherzo nel 2013, che si sviluppò rapidamente grazie al sostegno di una community e che nel gennaio 2014 ha raggiunto una capitalizzazione di mercato di 60 milioni di dollari. Quest’opera dimostra come il mondo della crypto arte, tanto nelle immagini quanto nei contenuti, sia spesso autoreferenziale.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/GIGACHAD_NFT_20100-1.mp4

Nicola Caredda

di Ivan Quaroni

Nato a Cagliari nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi pop surrealisti e suggestioni distopiche. Il salto dalla pittura agli NFT avviene, dunque, sotto il segno di un immaginario post-apocalittico che trasferisce l’atmosfera di metafisica sospensione degli Enigmi dechirichiani in un Pianeta Terra devastato dalle macerie e dai detriti dell’era post-moderna. I suoi paesaggi mostrano ciò che rimane dopo l’ecatombe ecologica, un globo disabitato e silente, costellato di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Sono visioni notturne che raccontano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la principale causa delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema. Caredda ce ne fornisce un’immagine oleografica, la convincente prefigurazione della fine del mondo dove, però, sopravvivono tracce e segni dell’identità italiana nei reperti dell’iconografia cattolica o nei graffiti dipinti sui muri di cemento di una sterminata periferia urbana.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Nicola-Caredda-1.mp4

Andrea Chiampo

di Ivan Quaroni

Andrea Chiampo è nato a Vicenza nel 1991. Ha studiato Disegno Industriale presso lo IAAD di Torino e dopo aver lavorato come Product designer è passato all’Entertainment Design con produzioni in ambito cinematografico, come quelle con 20th Century Fox, Netflix, MPC e The Mill. Attualmente lavora a Londra come Concept Artist presso la Disney – Industrial Light and Magic. 

Cresciuto in una famiglia di antiquari, circondato da stampe antiche, sculture e opere d’arte, Chiampo ha sviluppato una spiccata sensibilità estetica che traspare non solo nei lavori commerciali, ma soprattutto nelle opere NFT. Sono, infatti, opere che esplorano l’inconscio, attraverso la creazione di ambienti surreali, costruiti come complessi di caverne e cunicoli formati da rocce millenarie. Sparsi in questi landscape mineralizzati, che sembrano quasi fatti di grafite, compaiono scheletri, teschi e detriti ossei che rimandano a una sorta di gigantesco memento mori. Lo stile digitale di Chiampo richiama quello delle incisioni, ma con i temi tradizionali della Vanitas e della Melancholia trasferiti in una dimensione aliena e post-apocalittica. Abilissimo nella resa degli effetti di traslucenza, texturing e illuminazione, Chiampo è riuscito a costruire un linguaggio visivo capace di indagare il lato oscuro dell’uomo. I suoi lavori, soprattutto quelli della serie intitolata Futured Past, danno corpo e immagine a una gamma di ossessioni, paure, allucinazioni che abitano lo spirito umano fin dai tempi più remoti.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Andrea-Chiampo-LIMBUS-Futured-Past-2021-744×1024.jpg

Federico Clapis

di Ivan Quaroni

La sua arte è il risultato di un’epifania spirituale, di un’illuminazione che l’ha condotto ad abbandonare nel 2015, al culmine della sua popolarità, una carriera di youtuber, attore e performer con un vasto seguito per dedicarsi unicamente alla creazione dei suoi lavori. 

Nato a Milano nel 1987, Federico Clapis è uno dei più noti artisti della scena crypto, ma le sue opere esistono da prima che nascessero gli NFT. Realizzate in bronzo, resina e cemento, le sue sculture sono state create mescolando progettazione digitale e raffinate tecniche di lavorazione artigianale. La sua ricerca ruota attorno a due polarità, una interiore, basata sull’introspezione individuale attraverso l’esercizio di pratiche meditative come l’Out of Body Experience, l’altra esteriore, incentrata sull’osservazione della società e sulle sue traiettorie possibile. Il tema principale dei suoi lavori è, infatti, il rapporto tra l’uomo e la tecnologia. O, meglio, il ruolo pervasivo che essa avrà nella vita quotidiana delle prossime generazioni, plasmando le abitudini e costumi di una civiltà che l’artista immagina da un punto di vista retrospettivo, come se si trattasse di una scoperta archeologica avvenuta in un remoto futuro. Anche i suoi NFT conservano queste qualità iperstizionali. Sono cioè, in riferimento al termine iperstizione inventato dal filosofo accelerazionista Nick Land, delle profezie che si auto-avverano per il semplice motivo di essere riuscite a penetrare nell’immaginario collettivo. Come nel caso delle opere, oramai diventate iconiche, Babydrone in Space e Connection in Space, che raccontano, e insieme plasmano, l’idea di un futuro plausibile, dove perfino l’esperienza della maternità potrà assumere inediti sviluppi e nuovi significati. 

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Secondary-space-Connection-1.mp4

Dangiuz

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Nato a Torino nel 1995, Leopoldo D’Angelo, meglio conosciuto col nome di Dangiuz, appartiene a una generazione che si è nutrita delle subculture della rete ed è stata influenzata dalla diffusione online di generi estetici e musicali, come ad esempio la Synthwave e l’Outrun. Questi elementi hanno, infatti, contribuito alla definizione del suo stile, soprattutto nei riferimenti visivi alla fantascienza degli anni Ottanta e Novanta. Le sue visioni sono ambientate in una notturna congerie urbana, illuminata da ologrammi e scariche incandescenti di neon, scenario di un futuro prossimo più che plausibile. Dangiuz ci catapulta, infatti, nella dura realtà del Conglomerato, lo Sprawl del William Gibson di Count Zero (1986) o la Neo-Tokyo immaginata da Katsuhiro Otomo in Akira (1988), un agghiacciante incubo verticale di sopraelevate e grattacieli collegati da ponti sospesi, affacciati su un’abissale giungla di livelli stradali. È, infatti, in una megalopoli che ricorda la Los Angeles di Rick Dekard che si ambientano le sue storie. I suoi personaggi, buie silhouette stagliate sui lampi intermittenti della metastasi urbana, abitano una realtà che incarna tutti gli squilibri del tardo-capitalismo: dalle feroci disuguaglianze sociali dell’economia globale all’immane catastrofe ecologica, dalla polverizzazione del patto sociale al controllo delle multinazionali, dalla connettività post-umana dei servo-meccanismi alla claustrale solitudine dell’individuo isolato nella propria cellula abitativa. È un mondo che cade a pezzi, un universo cyberpunk che recentemente si è evoluto in una nuova dimensione estetica, iniziata con l’opera Wasteland, la descrizione di un mondo di carcasse in rovina.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Dangiuz-Future-Foundry-2021-1638×2048.jpg

Fabio Giampietro

di Ivan Quaroni

È considerato uno dei pionieri italiani della crypto art, ma viene, come altri artisti NFT, dalla pittura tradizionale. Fabio Giampietro, nato a Milano nel 1974, ha dipinto per anni immense megalopoli viste dall’alto, organismi urbani proliferanti, che sembrano usciti dalle fantasie distopiche di un romanzo di Neal Stephenson, l’inventore del termine mataverso. I suoi quadri affondano le radici nella tradizione del Futurismo e dell’Aeropittura italiana del primo dopoguerra e nelle ricerche spazialiste, ma la passione per la tecnologia caratterizza da oltre un decennio la sua indagine artistica. La maggior parte dei suoi dipinti è ispirata a New York, il primo modello di città futuribile che più tardi sarebbe stato soppiantato dalle nuove megalopoli asiatiche. La sua è una metropoli vista dall’alto, quasi a volo d’uccello, su cui si spalanca il vertiginoso scorcio del reticolo urbano. Non a caso Giampietro chiama questi lavori Vertigini, riferendosi allo spaventoso disorientamento generato dall’altezza dei grattacieli. Una sensazione che, tra i primi in Italia, è riuscito trasferire in VR con l’installazione Hyperplanes of Simultaneity, che ha vinto il prestigioso Lumen Prize, il più importante riconoscimento nell’ambito delle opere d’arte create con mezzi tecnologici. Le opere crypto di Giampietro sono tutte ricavate da dipinti ad olio di grandi dimensioni e dunque conservano intenzionalmente intatta l’originale grana pittorica dell’immagine.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Fabio-Giampietro-SummerMute-2021.mp4

Adriana Glaviano

di Ivan Quaroni

Nata a Palermo, ma diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, Adriana Glaviano ha lavorato come grafica e illustratrice per numerose riviste di moda, diventando prima Fashion Editor di “Vogue Italia”, poi collaborando come vicedirettore moda a riviste del gruppo Rcs come “Amica”, “Io Donna” e “Anna” e, infine, assmendo l’incarico di Fashion Director di “Vogue Gioiello” e “Vogue Pelle”. Oggi lavora sia nel campo dell’editoria e della moda, sia come artista, autrice di sontuosi wallpaper ispirati alla pittura e al genere dei trompe-l’oeil. L’influenza dell’arte barocca è visibile anche nelle sue opere digitali, popolate di animali esotici e disseminate di rovine architettoniche immerse in un lussureggiante paesaggio naturale. L’opera Jungle Palace, realizzata in esclusiva per la galleria d’arte NFTART.CH di Lugano, è un monumento alla natura selvaggia, ma anche all’arte e all’architettura del passato, una perfetta combinazione tra un bestiario esotico e un paesaggio arcadico rivisitato alla luce dell’incombente catastrofe climatica. Con quest’opera, Adriana Glaviano oppone agli effetti distruttivi della società consumista e tardo-capitalista, gli eterni valori della bellezza e dell’arte.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/adriana-glaviano-scaled-e1637268456113.jpg

Hackatao

di Ivan Quaroni

Punta di diamante della frangia italiana della crypto arte, gli Hackatao sono un duo di artisti riconosciuto a livello internazionale tra i pionieri della rivoluzione NFT. Il loro nome è formato dalla crasi delle parole hacker e tao, indicazioni di un retroterra culturale che mescola antagonismo cyberpunk e spiritualità nel segno di un’arte di immediata riconoscibilità, che combina elementi pop surrealisti ed immaginario manga. Gli “Hacker del Tao” sono due artisti che combinano i loro talenti in una grammatica che fonde l’impulso disegnativo dell’uno con la sensibilità cromatica e strutturale dell’altra. Il loro sodalizio nasce a Milano nel 2007 e si concretizza prima nella creazione dei Podmork, sculture in resina e ceramica che formano un campionario di figure a metà tra l’estetica kawaii giapponese e la moda lowbrow dei vinyl toys, poi nel passaggio a una pittura pop, in cui le forme dei loro bizzarri personaggi sono riempite da una fitta trama di disegni, una sorta di ipertesto visivo in cui si annidano frasi, immagini e riferimenti che formano un ininterrotto flusso di coscienza e, allo stesso tempo, una trappola ottica per l’osservatore. Il cortocircuito generato dalla combinazione tra linearismo grafico e pittura flat – una polarizzazione che ricorda la diade taoista di Yin e Yang -, è, infatti, la caratteristica principale della ricerca degli Hackatao, mantenuta intatta anche nel formato digitale. Il loro contributo alla definizione della crypto arte è fondamentale e passa attraverso una serie di sperimentazioni che combinano la pittura su quadro a elementi di animazione digitale. Nel 2018, quando vivono già da sette anni in uno sperduto borgo medievale sulle Alpi Carnie, arriva la svolta con l’ingresso nell’ancora misconosciuto mondo degli NFT. In reazione alle vecchie logiche elitarie del sistema dell’arte, cominciano a realizzare lavori digitali ricevendo l’apprezzamento di una community ancora esoterica, ma in procinto di espandersi a macchia d’olio. Solo dopo giungono l’attenzione rapace delle case d’asta e le vendite milionarie che li fanno balzare agli onori della cronaca. Il loro lavoro resta però fedele alla loro estetica binaria anche nel nuovo formato digitale, come dimostrano le opere esposte in questa mostra. La prima è Beyond the Void, un lavoro finito sulla copertina di “NFT Mag”, prima rivista dedicata alla crypto arte pubblicata su OpenSea, ma è soprattutto un tributo a Lucio Fontana, l’artista che con i suoi tagli, ha gettato luce su ciò che sta oltre la superficie del quadro, aprendo le porte della percezione alla comprensione di uno spazio ulteriore. L’NFT Beyond the Void nasce, infatti, da una esperienza espositiva degli Hackatao al Museo di Cà la Ghironda di Ponte Ronca, nei pressi di Bologna, dove hanno proiettato un proprio lavoro sull’opera Concetto Spaziale-Attese, sette tagli, creando, così, un intimo dialogo con la tridimensionalità di Fontana. Le altre due sono opere nate dalla collaborazione con la band punk americana dei Blondie in occasione del 93° anniversario della nascita di Andy Warhol. Rappresentano, con il tipico stile degli Hackatao, la cantante del gruppo Debbie Harry, oggetto, già nel 1985, di una delle sue prime opere digitali realizzate da Warhol con un Commodore Amiga 2000. I lavori della serie Hack the Borders rappresentano quindi un collegamento non solo tra le rivoluzioni della crypto art e del movimento punk, ma anche tra il mondo degli NFT e le prime seminali sperimentazioni digitali del padre della Pop Art.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Hackatao-Hack-The-Borders-4_3-1.mp4

Raphaël Lacoste

di Ivan Quaroni

Nato in Francia nel 1971, ma residente a Montreal dal 2002, Raphaël Lacoste ha lavorato nel mondo dei videogame come art director dei franchise Prince of PersiaAssassin’s Creed, e poi nell’industria cinematografica in qualità di Concept Artist, Production Designer e Matt Painter in film come Terminator Salvation (2009), Journey to the Center of the Earth (2008), Death Race (2008), Repo Men (2010), Immortals (2011) e Jupiter Ascending (2015). Nel suo universo visivo il paesaggio ha un ruolo centrale. Influenzato dalla fantascienza e dal cyberpunk, ma anche da pittori romantici come Caspar David Friedrich e Albert Bierstadt e da fotografi contemporanei come Greg Girard e Gregory Crewdson, Lacoste ha creato l’immaginario di un futuro ipertecnologico dove immensi edifici verticali, simili a nuove cattedrali gotiche, sorgono accanto a scenari naturalistici incontaminati. Come nella serie AI Metropolis, che rappresenta le vicende di un gruppo di esploratori al confine tra i territori selvaggi e gli immensi conglomerati urbani. In questo connubio tra mondo naturale e civiltà avanzata, Lacoste ha scoperto un nuovo senso del sublime. Non più il sentimento kantiano di sgomento generato dalla visione delle forze distruttive della natura, quello delle tempeste di William Turner o del Wanderer above the Sea of Fog di Friedrich, ma quello che proviamo davanti allo smisurato sviluppo della tecnologia umana e dei suoi artefatti: un sublime per l’era dell’Antropocene.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Raphael-Lacoste-The-Wall-Part2-2021-3DS-Max-and-Photoshop-scaled-e1637268559182.jpg

Larva Labs

di Ivan Quaroni

Quando nel giugno 2017 viene lanciato il progetto CryptoPunks, lo standard di token ERC-721 di Ethereum non era ancora qualcosa di reale. A creare quelle che più tardi sarebbero diventate le più popolari icone nel mondo NFT è stato Larva Labs, uno studio di New York composto dagli ingegneri creativi Matt Hall e John Watkinson che hanno tokenizzato 10.000 ritratti in grafica 8bit di personaggi unici per tipologia e caratteristiche estetiche. Dell’intero lotto, 9000 di questi esemplari unici sono stati lanciati sul mercato, mentre i restanti 1000 sono rimasti di proprietà dello studio che li ha creati. Di fatto, i CryptoPunks sono un insieme di avatar generati casualmente, alcuni dei quali sono più rari, come ad esempio la serie Zombie o quella degli alieni. Il loro valore è più simbolico che estetico, perché non solo rappresentano uno dei più antichi esempi di Non Fungible Token, ma hanno anche saputo avviare una florida economia. Un mercato che ha attirato l’attenzione di case d’asta come Christie’s che lo scorso maggio ha venduto una raccolta di 9 esemplari a quasi 17 milioni di dollari.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/cryptopunk2632.png

Giovanni Motta

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Giovanni Motta è uno dei crypto artisti italiani che meglio incarna l’epocale transizione dall’arte fisica al mondo immateriale degli NFT. Nato a Verona nel 1971, arriva all’arte dopo un passato da pubblicitario. Il disegno, però, è una sua passione fin dall’infanzia. Dal 2000 inizia ad esporre in gallerie e spazi pubblici le proprie opere, disegni, dipinti e sculture 3D che rivelano la sua passione per i manga e gli anime, ma anche per i cartoni animati americani. Al centro del suo lavoro c’è Jonny Boy, personaggio che incarna l’innocenza dell’infanzia, ma che è anche metafora del bambino interiore che abita la coscienza di ogni uomo. La sua pittura quasi iperrealista, ma contaminata dalla cultura pop, ha un messaggio tanto semplice quanto potente: la ricoperta della creatività infantile come energia vitale che risiede nella memoria degli individui e che può essere riscoperta attraverso un lavoro di scavo psicologico e spirituale. Tutte le sue opere nascono dalla quotidiana pratica della meditazione regressiva, una tecnica che gli permette di far riaffiorare dalle profondità sepolte dell’inconscio ricordi vividi del passato, che poi traduce in immagini che catturano il senso di stupore ed eccitazione delle esperienze infantili. Questo sentimento di entusiasmo è codificato nella forma della metafora videoludica. Le fluttuazioni di Jonny, infatti, richiamano la condizione del player immerso nel flusso del gioco, in una dimensione di dilatazione sinestetica che altera la percezione del tempo. Jonny è, dunque, il simbolo di tutte le qualità del bambino, non ancora corrotto dal cinismo della vita adulta.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Giovanni-Motta-Afternoon-Garage-2021-1.mp4

Niro Perrone

di Ivan Quaroni

Aretino, classe 1985, Niro Perrone ha scoperto il mondo degli NFT nel 2020, in piena crisi pandemica, quando ha iniziato a disegnare storie per i suoi figli. Prima lavorava in ambito musicale come Producer e Dj, pubblicando singoli ed EP con etichette indipendenti. I suoi disegni nascono come flash narrativi ispirati alle vicende della sua vita quotidiana, ma diventano presto opere quando passa dalla matita alla tavoletta grafica. Diventate un’occupazione a tempo pieno, le opere di Niro Perrone, pubblicate su Instagram, iniziano a circolare in rete. Poi, con l’esplosione dell’arte crypto, crea i suoi primi NFT, caratterizzati da uno stile che ricorda quello della cosiddetta Linea Chiara del fumetto francese degli anni Ottanta. Vengono in mente autori come Moebius e Jacques Tardi, soprattutto per la pulizia e la chiarezza di contorni con cui Perrone da forma alle sue narrazioni.  Sono storie fantastiche popolate di personaggi ibridi, chimere e mostri caratterizzati, però, da una vivacissima gamma cromatica, che stempera i contenuti, talvolta drammatici, delle sue creazioni.  All’interno di questo caleidoscopico affollamento di figure, proiezione di un universo insieme allegro e nevrotico, si trovano talvolta personaggi iconici, come nel caso di Vicious Murphy, in cui riconosciamo un lubrico RoboCop intento a masturbare un device elettronico della Omni Consumer Product, l’immaginaria multinazionale costruttrice del cyborg nel popolare film di Paul Verhoven.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Niro-Perrone-1.mp4

Giò Roman

di Ivan Quaroni

Nato nel 1987 a Galatina, Giovanni Romano aka Gio’ Roman, è laureato in Economia e Marketing. All’arte è arrivato più tardi, da autodidatta, nel 2017, realizzando una serie di opere che raccontano storie d’amore proiettate in futuribili scenari urbani, che rimandano, quasi classicamente, alle notturne ambientazioni di Blade Runner. La sua opera, intitolata Forever, dedicata a Koby Bryant e a sua figlia, ha fatto il giro del mondo. Condivisa sui social da Alicia Keys e riprodotta su una t-shirt vestita dalla popolare comica americana Leasly Jones durante il Late Night Set, l’opera rappresenta la stella del basket americano mentre accompagna la figlia in un’aerea schiacciata sullo sfondo di un romantico cielo al tramonto. Non tutti i suoi lavori, però, rivelano una vena lirica. L’opera Provocation, ad esempio, ci introduce nei meandri di un’utopia negativa, in cui alla rovina dell’arte tradizionale, rappresentata dai capolavori di Leonardo, Vermeer, Van Gogh, Picasso e Munch sparsi sul pavimento nel caveau, corrisponde il collasso della blockchain e degli NFT, simbolizzati dalle crytovalute Bitcoin ed Ethereum e dalle icone dei Cryptopunk.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Gio_-Roman-Provocation-2021_web-819×1024.png

Skygolpe

di Ivan Quaroni

“Skygolpe è l’identità. Skygolpe è il vuoto. Il suo lavoro esplora la loro giustapposizione, insieme all’esistenza fisica e digitale del corpo”. Questo è il succinto ed enigmatico statement con cui si presenta uno dei più famosi crypto artisti italiani su Artifex, uno dei molti marketplace che ospitano le sue opere. Appassionato di filosofia e con alle spalle un’esperienza di collaborazione con Stix, un celebre street artist inglese, dopo il suo ritorno in Italia dopo sei anni di permanenza a Londra, Skygolpe ha realizzato dipinti, fotografie, installazioni e lavori digitali. Prima dell’esplosione degli NFT, il suo lavoro era caratterizzato da una matrice concettuale, un elemento che contraddistingue anche le sue opere cypto, sebbene con un’attitudine nuova, che lo spinge a indagare i contrasti e le polarità che caratterizzano la società contemporanea. Il nome che si è scelto, Skygolpe, è il riflesso di questo interesse verso elementi eterocliti, come la bizzarra crasi tra il concetto di golpe (colpo di stato) e l’immagine del cielo. Il ritratto, o meglio la forma del volto umano, costituisce il motivo iconografico di tutta la sua ricerca, un perimetro cognitivo ed estetico entro il quale dipana la sua indagine sui rapporti tra identità e alienazione, ma anche tra dimensione fisica e virtuale. Questa sagoma anonima, ossessivamente reiterata, diventa così il contenitore di una pletora di frizioni, incontri, collisioni stilistiche tra le più variegate, che polverizzano l’idea, tanto cara all’arte tradizionale, dello sviluppo di un linguaggio coerente. Il lavoro di Skygolpe accoglie infatti, una moltitudine di grammatiche visive, una babele di vocabolari grafici che si declinano, anche attraverso le sue numerose collaborazioni con artisti di ogni genere e provenienza, in un regesto enciclopedico di stili, che ruota attorno all’immagine simbolo di un’umanità fragile, alla continua ricerca del proprio centro di gravità permanente.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Skygolpe-Core-Craving-2021-1.mp4

Giuseppe Veneziano

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Nato a Mazzarino, in Sicilia, nel 1971, con una formazione di architetto e un passato da vignettista satirico, Giuseppe Veneziano è oggi uno dei principali artisti italiani della corrente New Pop. Con il suo linguaggio pittorico, insieme originale e riconoscibile, l’artista affronta temi sensibili come la politica, il sesso e la religione, attraverso cui ci fornisce un’immagine oggettiva e disincantata della società odierna. Le sue tele sono popolate da personalità storiche e celebrità del presente, icone del cinema e personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. Per Veneziano non c’è differenza tra fiction e realtà, elementi che tendono a mescolarsi e confondersi nell’odierna società mediatica. L’artista lavora sull’impatto iconico dei suoi soggetti, siano essi estrapolati da un’opera del passato, da una striscia a fumetti o da una foto di cronaca. Quel che conta, è la capacità comunicativa delle immagini, che diventano come i vocaboli di un linguaggio universale e comprensibile, proprio perché radicato nella cultura di massa globale. Il suo esordio negli NFT trae spunto dalla Madonna Northbrook, dipinta da Raffaello attorno al 1507. Elemento tipico dell’arte di Veneziano è, infatti, l’appropriazione iconografica di fonti del passato (soprattutto opere del Rinascimento italiano), in cui l’artista opera una sostituzione delle figure originali con personalità storiche, celebrità contemporanee o personaggi provenienti da cinema, cartoni animati e fumetti. Nella sua Madonna of the Sacred Heart, che contiene un omaggio al Jonny Boy di Giovanni Motta, Veneziano riesce a trovare un perfetto equilibrio espressivo, che gli consente di riattualizzare, vivificandola con una grammatica adeguata ai tempi correnti, il miracolo della pittura antica. 

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/Giuseppe-Veneziano-Madonna-of-the-Sacred-Heart-2021-2.mp4

XCOPY

di Ivan Quaroni

Figura leggendaria di artista crypto tra i più influenti, XCOPY è un personaggio misterioso, di cui si sa poco o nulla, se non che opera a Londra e che è stato uno dei pionieri della rivoluzione NFT, attivo, addirittura prima dello sviluppo della blockchain Ethereum sull’effimera piattaforma di Ascribe e poi su marketplace d’avanguardia come RARE Art Labs e Digital Objects. I suoi lavori compaiono già dal 2010 su tumblr con uno stile grezzo e graffiante, che richiama alla memoria le produzioni DIY e delle prime sperimentazioni multimediali. Nell’estetica della rete, le sue immagini spiccano per l’originalità stilistica ed il forte impatto grafico, ma anche per i messaggi critici nei confronti della società contemporanea. Realizzati sotto forma di Gif, sovrapponendo immagini sintetiche simili a graffiti caratterizzate da una palette cromatica essenziale, i lavori di XCOPY colpiscono proprio per la loro efficacia comunicativa, una combinazione di disegno scarno e di animazione minimale, tutta giocata su effetti di intermittenza. I soggetti sono volti quasi scarabocchiati, maschere mostruose, teschi o scheletri che lampeggiano su sfondi monocromi. Sono visioni disturbate dai glitch oppure dal tipico “effetto neve” provocato dall’interferenza dei segnali elettromagnetici sugli schermi dei vecchi televisori a tubo catodico, lo stesso evocato da William Gibson nel celebre incipit di Neuromante. Il linguaggio visivo di XCOPY è figlio della cultura antagonista degli hacker, ma anche evoluzione digitale dell’estetica anarcoide del punk.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/AFTERBURN_RED-1.mp4

Yuga Labs

di Ivan Quaroni

Se i CryptoPunks hanno aperto la strada al mercato degli oggetti da collezione digitali rari, la cui scarsità è verificabile, il progetto denominato Bored Ape Yacht Club ne rappresenta l’ideale continuazione. Sviluppato da Yuga Labs, il Bored Ape Yacht Club è una raccolta di 10,000 illustrazioni di personaggi che rappresentano altrettanti ritratti di scimmie dall’espressione annoiata. Di queste immagini non ne esistono due uguali, perché ognuna delle scimmie possiede colori, accessori o caratteristiche uniche. Come suggerisce il nome, il Bored Ape Yacht Club è una specie di società elitaria e possedere uno di questi NFT è il solo modo per entrare nel club, dato che consente agli utenti l’accesso a un esclusivo server Discord, dove altri proprietari, comprese alcune celebrità, si incontrano e chattano. I membri di questo club, riconoscibili dai loro avatar con l’effige di una delle scimmie annoiate, si ritrovano sui social media formando una sorta di confraternita digitale. Anche in questo caso, considerate le cifre da record raggiunte da alcuni di questi avatar, non conta tanto il loro contenuto estetico, quanto il valore di status symbol ed il fatto che possedere un NFT Bored Ape sblocca l’accesso per ulteriori oggetti da collezione NFT, come gli esemplari di Mutant Ape Yacht Club o i cani di Bored Ape Kennel Club.

https://thefutureisunwritten.ch/wp-content/uploads/2021/11/monkey.png

Eccentrici, apocalittici, pop. Inferno e delizia nell’arte contemporanea

30 Giu

di Ivan Quaroni

Invasione americana

Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider

Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive. 

Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative. 

Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson. 

Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti. 

Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010). 

Genoma italiano

La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale. 

A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].

Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo. 

Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione. 

Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC. 

Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale. 

Eccentrici, apocalittici, pop

Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani. 

La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.

Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.   

L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason. 

Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù. 

Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue opere si possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd. 

Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.

Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione. 

L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.

Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.

Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop SurrealismNicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.

Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro. 

Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.

Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore.  El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso. 

Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.

Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.

Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità. 

Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.


[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.

[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.

[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[4] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.

Il canto della solitudine

31 Mag

Dangiuz meets Giovanni Motta

di Ivan Quaroni

Non è la collisione di due mondi, il forzato innesto di due diverse infosfere, ma piuttosto un’intersezione temporale, la momentanea confluenza di due visioni parallele che raccontano la stessa storia da due prospettive differenti. Ciò che caratterizza la collaborazione tra Dangiuz (Torino, 1995) e Giovanni Motta (Verona, 1971) è anche la possibilità di due generazioni, la Z e la X, di parlare attraverso il codice binario della macchina e il linguaggio tecnologico della pittura. Entrambi costruiscono la propria visione nell’ambiente digitale, ma vogliono tradurre le immagini costruite da bit nella realtà particellare e atomica dell’oggetto. Motta offre a Dangiuz la possibilità di trasformare l’alchimia digitale delle sue proiezioni nella caduca materialità della pittura. In cambio, gli chiede di ospitare Jonny Boy, il suo avatar pittografico, all’interno del suo malinconico universo cyberpunk. Sembra uno scambio equo, l’esplorazione di una potenzialità in cui finalmente reale e virtuale si espandono reciprocamente.  

Il comune terreno d’incontro sono gli anni Ottanta, il decennio che ossessiona le subculture della rete del nuovo millennio con una pervasiva moltiplicazione di generi estetici e musicali, dalla Vaporwave all’Outrun, dalla Synthwave alla Dreamwave, passando attraverso sottogeneri come l’Horror Synth e il Dark Synth, e mediati da reminiscenze cinematografiche e videoludiche che aleggiano, come fantasmi elettrici, nei circuiti neurali dei naviganti. Giovanni Motta gli anni Ottanta li ha vissuti, metabolizzati, rievocati nella memoria e poi perlustrati attraverso le pratiche della meditazione regressiva, Dangiuz, invece, li ha sognati, re-immaginati e filtrati attraverso i paesaggi sintetici di GTA Vice Citye le distopie cyberpunk di Blade Runner e Ghost in The Shell.

Dangiuz, What a Dream Looks Like?, 2021, NFT

L’interscambio avviene tramite la fusione di due psicogeografie: quella di Motta, abitata dalle molteplici incarnazioni dell’inner child, l’eterno infante, fonte di ogni entusiasmo vitale, e quella di Dangiuz, che assume la configurazione di una notturna congerie urbana illuminata da ologrammi e scariche incandescenti di neon, insomma lo scenario di un futuro prossimo più che plausibile. In What a Dream Looks Like?, Jonny Boy viene strappato dalle sue fantasie ludiche (e videoludiche) e dalle sue innocenti pulsioni libidiche e catapultato nella dura realtà del conglomerato, quello che William Gibson preconizzava in Count Zero(1986), lo Sprawl, immane megalopoli che si estende da Boston fino ad Atlanta, o, se preferite, la Neo-Tokyo immaginata da Katsuhiro Otomo in Akira (1988), un incubo verticale di sopraelevate e grattacieli collegati da ponti sospesi, affacciati su un’abissale giungla di livelli stradali.

Giovanni Motta, What a Dream Looks Like?, 2021, acrilico su tela, 100×80 cm

È, infatti, nel visionario territorio delle proiezioni retro-futuristiche della Los Angeles di Rick Dekard, filiazione diretta della Metropolis di Fritz Lang, che s’incrociano due solitudini smisurate. Da una parte, ci sono i romantici personaggi di Dangiuz, buie silhouette stagliate sui lampi intermittenti di una metastasi urbana che incarna, sintetizzandoli, tutti gli squilibri della fase terminale del tardo-capitalismo: dalle feroci disuguaglianze di un mondo iper-gerarchizzato all’immane catastrofe ecologica, dalla polverizzazione del patto sociale alla definitiva sostituzione politica del controllo delle nazioni con lo strapotere delle multinazionali, dalla connettività pervasiva e post-umana dei servo-meccanismi e degli algoritmi della Rete alla definitiva e claustrale solitudine dell’individuo isolato nella propria cellula abitativa. Dall’altra parte, c’è la geografia solipsistica di Giovanni Motta, che tramuta l’infanzia in un sogno dilatato oltre i propri limiti organici e affida al corpo astrale di Jonny Boy il compito di farsi messaggero di una gioventù iperbolica, dispositivo energetico e contagioso di un entusiasmo protratto ad libitum, che finisce, però, per diventare, nella dimensione della vita adulta, una sorta di sostituto psichico delle illusorie promesse della chirurgia estetica. La fonte dell’eterna giovinezza in un mondo che cade a pezzi, polverizzato dai processi caotici e distruttivi dell’Antropocene.

Se nell’universo cyberpunk di Dangiuz gli individui fronteggiano la mostruosa e affascinante immensità architettonica di una civiltà morente, così come il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich fronteggiava, nell’età romantica, l’incommensurabile forza della natura, nella nostalgia estetica e post-manga di Giovanni Motta, l’uomo si trova a fare i conti con il proprio sé infantile, nel tentativo di ricostruire un’identità adulta fiaccata e indebolita dal reticolo di obblighi e costrizioni di quella stessa società morente. Sono due esorcismi che si corrispondono: la fuga in avanti verso un futuro impossibile da scongiurare, la fuga interiore, verso un microcosmo che si oppone all’inevitabile senescenza dei circuiti cerebrali.

Painting – Details, Acrylic on canvas – 2021

Il lavoro bicefalo di Dangiuz e Giovanni Motta è la traduzione visiva di una pletora di dubbi e domande la cui risoluzione richiederebbe pagine e pagine di trattati filosofici, scientifici e sociologici, la condensazione estetica di tutti i dilemmi di un futuro che da tempo non ci appare più roseo. Ma è anche, inevitabilmente, la fotografia di una traiettoria iperstizionale che può essere deviata dal proprio corso ineluttabile e commutata in una potenzialità già inscritta nel presente e, dunque, percorribile. Una via d’uscita forse c’è.

“La possibilità è ancora lì”, scrive Franco “Bifo” Berardi in Futuribilità (Nero edizioni, Roma, 2018), “nascosta nella connessione tra cervelli attualmente costretti a operare per il solo profitto delle grandi corporation, ma potenzialmente in grado di inventare un altro modello fondato sull’utilità sociale, costruire una piattaforma tecnica e sociale che punti all’autonomia dell’intelletto generale: questo è il programma di lungo periodo che può produrre degli effetti”. La collaborazione tra due artisti è il primo passo di questo programma, l’alleanza cognitiva ed estetica intesa come primitivo nucleo utopico e rivoluzionario. L’amicizia come cellula curativa e ricostruttiva di una socialità polverizzata. 

A che cosa somiglia un sogno? Forse a un conglomerato industriale, a una megalopoli ipertrofica, solcata dalle tortuose volute dei viadotti e dei rettifili autostradali. Forse all’immagine di un bambino e di un gatto che attraversano le macerie di una periferia senza fine.  Forse, se ci crediamo abbastanza, a un mondo in frantumi, tutto da ricostruire, un mondo ancora coperto di detriti e rottami, ma in cui finalmente non ci sentiamo più soli.

Giovanni Motta, Painting Detail

Dangiuz, NFT Detail


What a Dream Looks Like? è il frutto della collaborazione tra gli artisti Dangiuz (Leopoldo D’Angelo) e Giovanni Motta che consiste nell’incontro tra due universi visivi paralleli ma coerenti. Dangiuz ha sviluppato l’opera digitale, l’NFT nel quale ha inserito nei suoi classici scenari urbani cyberpunk il personaggio di Jonny Boy creato da Giovanni Motta per rappresentare il bambino interiore che è in tutti noi. Giovanni Motta ha trasferito in pittura l’opera digitale di Dangiuz, realizzando un acrilico su tela in formato 100×80 cm. What a Dream Looks Like? è un’opera di realtà espansa in cui materiale e immateriale s’incontrano nella perfetta combinazione di due pensieri e di due modalità operative. Chi acquista l’NFT si aggiudica anche il dipinto, ottenendo, così, entrambe le opere, espressione di un’unica creazione condivisa.


The English Version on SuperRare.com

The Drop on SuperRare.com

Giovanni Motta Web Site

Dangiuz Web Site

Giovanni Motta. Game Over. Play Again?

9 Apr

di Ivan Quaroni

Huge Me, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm

Intro

La pittura è una “tecnologia”. La parola deriva dalla combinazione di due termini del greco antico, techne (arte, abilità) e loghía (discorso, spiegazione), che insieme significano “trattazione sistematica su un’arte”. Nella concezione classica non c’è distinzione tra arte e tecnica. Entrambe comprendono ogni prodotto dell’abilità umana, si tratti di pittura, scultura, architettura o di qualsiasi altro manufatto e utensile la cui costruzione richieda una conoscenza pratica. Più tardi, nella cultura romana, venne introdotto il concetto di Ars, ma anche in questo caso con l’accezione di “abilità”, cui doveva aggiungersi un aggettivo che ne specificasse il campo: Ars poetica (la poesia), Ars amandi (l’arte amatoria), Ars venandi (la caccia) e così via. Fu nel XVII secolo che lo studioso fiorentino Filippo Baldinucci scrisse, per la prima volta, delle “arti belle dove s’adopera il disegno” riferendosi alla pittura, scultura e architettura. Oggi, alla luce dell’esplosione dell’arte digitale, della crypto art, degli NFT, mentre assistiamo all’esponenziale ampliamento delle possibilità espressive nel campo delle arti visive, ci viene spontaneo recuperare l’antica definizione dei greci. Arte e tecnologia sono intrecciati indissolubilmente nei nuovi linguaggi e non si può essere artisti digitali senza essere anche tecnici che conoscano il funzionamento di software di elaborazione grafica, di animazione, di modellazione 3D e che sappiano agevolmente muoversi tra piattaforme come Rarible, SuperRare o Opensea, che consentono agli utenti di vendere e acquistare NFT (Non Fungible Token) e i diversi social media in cui si approfondiscono temi e argomenti legati all’attuale Rinascimento digitale che promette di ridefinire il concetto stesso di “belle arti”.

L’arte di Giovanni Motta s’inquadra in questo epocale momento di transizione, configurandosi come una pratica, o se preferite una techne, capace di sommare le abilità tecnologiche della digital art con quelle artigianali della pittura propriamente detta. 

Tutte le sue opere nascono in un ambiente digitale, sono, cioè, il prodotto dell’utilizzo di software di elaborazione digitale come Photoshop o Cinema 4D, che successivamente subiscono un ulteriore processo di raffinazione nella dimensione analogica della pittura tradizionale. I suoi lavori possono, quindi, assumere la forma di file Jpeg, Gif o MP4, ma anche avere la consistenza fisica di disegni su carta o di dipinti su tela realizzati manualmente con una precisione quasi maniacale. Questa combinazione di procedure, questa multimedialità, non solo definisce l’estensione del suo campo d’azione ma, corrisponde a una volontà programmatica di rivolgersi a un pubblico ben più ampio di quello convenzionalmente ristretto dell’arte contemporanea. Insomma, Motta vuole trasmettere il suo messaggio visivo a una platea virtualmente molto più estesa, che include il pubblico dei Baby Boomer e della Generazione X, dei Millennial e della Generazione Z. 

Message

Il tema, cioè il contenuto, delle immagini create da Giovanni Motta, è tanto semplice quanto potente: la ricoperta del bambino interiore, la trasmissione di una potenzialità energetica e vitale che risiede nella memoria di ogni individuo. Il bambino interiore è un elemento primordiale della personalità che deve essere recuperato nella vita adulta, un serbatoio pulsionale, emozionale, profondamente vitalistico che ha tutte le qualità dell’archetipo. 

Carl Gustav Jung lo chiamava puer aeternus, l’essere incontrollabile, caotico, passionale, dominato dalle emozioni. Insomma, per dirla con Friedrich Nietzsche, l’incarnazione del principio dionisiaco, orgiastico, furioso che si identifica con gli stati di esaltazione ed ebbrezza spirituale e fisica. La sua ombra, il suo negativo è il senex, l’uomo maturo, disciplinato, controllato, razionale, obbediente al principio apollineo, espressione dei concetti di armonia, ordine, proporzione. L’immaginario pittorico, ma anche esistenziale, di Giovanni Motta è la traduzione visiva di questa strenua volontà di reintegrazione del bambino interiore nella dimensione quotidiana. Reintegrazione condotta attraverso il recupero mnemonico e iconografico di una congerie di segni e simboli transazionali, che catapultano l’osservatore nel meraviglioso caos emozionale dell’infanzia e della pubertà. 

Appartenendo alla cosiddetta Generazione X ed essendo cresciuto, dunque, negli anni Ottanta, non stupisce che i segni e i codici dell’età evolutiva assumano, per lui, la forma di oggetti riconducibili a quel decennio. I manga e gli anime giapponesi, i cartoni animati americani e i primi videogame, la tecnologia user-friendly delle origini, con quel misto di semplicità e candore, e tutto il catalogo merceologico del consumismo degli Eighties compaiono all’interno dei suoi dipinti come epifenomeni, rivelazioni che corrispondono a stati d’animo perduti tra i meandri della memoria, rimossi dagli strati coscienziali della vita adulta. 

Fruit Ninja, 2021, acrilico su tela, 140×120 cm

La personificazione del puer aeternus di Giovanni Motta è Jonny, un bambino che sembra uscito dalla matita di un mangaka, la cui morfologia anatomica è quella tipica dell’individuo in crescita, col corpo minuto e la testa ipertrofica. Jonny è la controfigura infantilizzata dell’artista, l’avatar puberale, il fantasma interiore, la conformazione estetica di una proiezione inconscia, ma è anche, per estensione, un segnale, un simbolo che indica un’assenza, che sottolinea il vulnus, la ferita, lo squarcio che dilania l’esistenza dell’uomo adattato e uniformato. 

Motta usa Jonny come monito per sé stesso e per gli altri, ma anche come dimostrazione empirica che la guarigione, quella di tutti, è possibile attraverso la riscoperta e il recupero di questa entità imperitura, che ci libera dal tempo e dalla senescenza. 

Ad eccezione del dipinto, intitolato To be continued, in cui la figura del bambino è resa con un linguaggio mimetico e realista, le tele dell’artista mostrano Jonny come una sorta di costrutto astratto, come un’identità sintetica, generica, ma pur sempre customizzabile, progettata per assumere multiformi aspetti. Nei quadri di Giovanni Motta Jonny è un’entità sospesa, fluttuante, instabile, che trascina nel suo vortice una pletora di oggetti, complementi o appendici della sua personalità che ne rivelano gusti e passioni, desideri e aspirazioni. Jonny non tocca mai terra, vola, come i cowboy virtuali della mitologia cyberpunk di William Gibson, come l’altro Johnny, il Mnemonico[1], ma il suo scopo non è quello di infrangere lo strapotere delle multinazionali, ma di perpetuare la dimensione del gioco o, meglio, l’esperienza entusiastica del piacere, sia esso legato a un oggetto, un cibo, un giocattolo, un personaggio dei videogame. Anche “entusiasmo” è una parola che deriva dal greco antico (enthusiasmós), che significa “Dio dentro di sé”, “invasamento divino”. Non indica un semplice stato d’animo, un afflato di partecipazione emotiva, ma una forza attiva, travolgente, ilare, contagiosa, che, insomma, ci permette superare ogni ostacolo e di realizzare i propri sogni. Motta cerca l’enthusiasmós che anima il bambino interiore, gli dà corpo, sostanza pittorica e plastica, semplicemente perché le immagini sono potenti attrattori, mille volte più efficaci delle parole. 

Forgetting, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm

Process

Tutta l’arte si fonda sulle idee, le matrici di ogni forma, le stringhe di codice che programmano la realtà tangibile e intangibile delle opere. Ma le idee non sono concetti. Non sono nemmeno parole. Sono immagini. Nella procedura creativa di Giovanni Motta, la memoria è il serbatoio da cui affiorano visioni sinestetiche, forme associate a contenuti tattili, olfattivi, emotivi. Questo tipo di immagini non si trovano su google, ma nei recessi profondi del subconscio. All’origine dei lavori dell’artista c’è, dunque, un particolare modo di raccogliere le informazioni, una metodologia di scandaglio interiore che è, essa stessa, una forma di tecnologia, un sofisticato strumento contemplativo chiamato meditazione. Motta usa la tecnica della meditazione regressiva per “tornare a vite precedenti” e “raccogliere e circoscrivere singoli eventi del periodo della pubertà”. Gli oggetti, i colori, le atmosfere presenti nei suoi dipinti sono informazioni derivate dalle sessioni meditative. Ricordi, impressioni, sensazioni, annotati sotto forma di appunti e bozzetti, costituiscono, dunque, il materiale primario per la costruzione dell’opera. 

In tutti i processi di regressione che sono all’origine di questi lavori di Motta, sono tre gli elementi ricorrenti: i videogame, i cartoni animati e l’estate, tutti riconducibili a esperienze di gioia, piacere, divertimento. “Mi sono accorto”, confessa l’artista, “che tutti i miei viaggi nel tempo riguardavano un bambino che voleva giocare e non voleva fermarsi, ma, come si sa, tutti i giochi finiscono.” Sfruttando questa capacità di retrospezione, l’artista cerca di risolvere il problema di come recuperare alla vita adulta l’entusiasmo del bambino interiore, la sua naturale propensione al godimento. 

La sua arte – pazientemente costruita con l’uso di software e poi declinata nei linguaggi della pittura o della scultura – ruota ossessivamente attorno a questo tema. Motta usa icone dell’immaginario videoludico (da Mario Bros a Pac-Man), richiami ai giocattoli vintage (dai soldatini ai Lego, dal cubo di Rubik ai dinosauri di plastica) allusioni ai cibi che piacciono ai bambini (dalla torta agli hamburger, dalle caramelle alle bevande gassate), per rappresentare quegli oggetti del desiderio che simbolizzano il Principio di piacere Freudiano (Lustprinzip)[2], cioè l’istintiva ricerca di appagamento che domina l’esperienza infantile. Produrre immagini digitali è una condizione necessaria ma non sufficiente del suo processo creativo. Le immagini devono anche tradursi in oggetti tangibili, in dipinti e sculture che amplificano il piacere e il godimento dell’osservatore attraverso l’evidenza sensibile e percettiva. Si può, tuttavia, interpretare tale attitudine come l’espressione della volontà di riconnettersi alla grande Storia dell’arte e alla pratica creativa nella sua dimensione squisitamente artigianale.

Jonny & Sam, 2021, acrilico su tela, 140 cm x 120 cm

Outro

In tutti i dipinti di Giovanni Motta l’enthusiasmós è codificato nella forma della metafora videoludica. La condizione del giocatore, estraniato dalla realtà quotidiana, è rappresentata attraverso l’immagine della fluttuazione di Jonny. La sua pneumatica sospensione simbolizza il flusso dinamico del gioco, una dimensione di dilatazione sensoriale in cui la percezione del tempo è alterata da massicce dosi di endorfina che riducono i livelli di stress, ansia e irritabilità. Secondo Matteo Bittanti, uno dei massimi esperti di Digital Game Culture, “Il videogame è una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea”[3].  Ma per Giovanni Motta il videogame è – come i giocattoli, i cibi e i beni di consumo -, soltanto un simbolo. Quel che conta è lo stato d’animo del giocatore, quella sensazione di “divino invasamento” che accompagna i momenti di euforia e di stupore della fanciullezza, un patrimonio emozionale che sembra destinato a sbiadire nel tempo. In un certo senso, i dipinti dell’artista, e specialmente quelli più narrativi come Huge meJonny & Sam o Fruit Ninja, sono dei dispositivi visuali di intensificazione vitale. Essi si collocano in una posizione antitetica rispetto al genere delle Vanitas, le nature morte che alludevano alla condizione effimera dell’esistenza interpretando il memento mori dei frati trappisti, con immagini di allegoriche. I Memento vivere di Giovanni Motta sono come l’ultimo gettone nella tasca di un bambino, quando compare sullo schermo la scritta Game Over. Insert coin to continue… La moneta che ti serve per fare un’altra partita. O un altro giro di giostra nel luna park della vita. 


[1] William Gibson, Johnny Mnemonic, in Bunring Chrome, 1986, Arbor House, New York.

[2] Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien.

[3] Grazia Casagrande, I videogiochi e la loro filosofia: intervista a Matteo Bittanti, 27 maggio 2008, Wuz.it, https://www.wuz.it/intervista-libro/2224/intervista-matteo-bittanti.html.


Giovanni Motta – GAME OVER play again?
a cura di Ivan Quaroni
Gallery Func
No.13, Lane 182 Fumin Road, Jingan District, Shanghai, China

Opening: Domenica 18 Aprile 2021
Durata: 24 Aprile – 6 Giugno 2021
Riferimento: Ric Liu


Per ulteriori informazioni:
info@giovannimotta.it
ric@galleryfunc.com
Elena Stizzoli – assistente personale Giovanni Motta – Tel. +39 340 1295227
elena@giovannimotta.it
Sito web:
http://www.giovannimotta.it

Giovanni Motta. Thanks

1 Set

di Ivan Quaroni

 

Secoli fa la nostalgia era considerata una malattia. Ne soffrivano i mercenari svizzeri stanziati in Europa durante il Seicento, che esprimevano la propria malinconia per la terra d’origine con una melodia – il Ranz des vaches cantato dai mandriani sulle Alpi – talmente dolce e straziante da essere proibita, pena la morte. Il termine appare per la prima volta proprio nel XVII secolo ad opera di un giovane medico, Johannes Hofer, che nella sua tesi di laurea, intitolata Dissertatio medica de nostalgia, individuava le cause fisiche e materiali di questo doloroso desiderio di tornare in patria non solo nel cambiamento di abitudini, aria, cibo, usi e costumi, ma anche in una precisa sintomatologia: l’immaginazione turbata, la tristezza, il pianto e addirittura la febbre. Questo neologismo, derivato dalla crasi delle parole greche Nóstos (ritorno) e Álgos (sofferenza), definisce il tormento provocato da un inappagato desiderio di ritorno ai luoghi natii. E, in tal senso, l’Odissea è il perfetto poema epico della nostalgia, il meraviglioso racconto dell’accidentato viaggio di Ulisse verso Itaca.

NEON INSEGNA NOSTALGIA

Giovanni Motta, Nostalgia, 2020, installazione, neon e legno

Progressivamente, nel corso del tempo, la nozione di nostalgia è cambiata e alla sua accezione geografica e spaziale se ne sono aggiunte di nuove: la nostalgia del tempo perduto di proustiana memoria e quella per una persona assente o lontana o perfino per un’immagine o un oggetto. L’originaria malattia dei mercenari svizzeri è diventata uno stato d’animo, una condizione esistenziale che è parte del nostro immaginario culturale e sociale. Esistono, però, due tipi di nostalgia secondo l’antropologo Vito Teti, una patologica e una creativa. La prima, di stampo regressivo, vorrebbe tornare al passato e alla tradizione, cristallizzando il tempo in un algido rigor mortis; la seconda, di tipo critico e riflessivo, desidera recuperare tutto ciò che è utile – percorsi, esperienze, deviazioni – per rigenerare il presente e liberare un nuovo potenziale sovversivo.

120x100-Wnder

Giovanni Motta, Wonder, 2020, tecnica mista  su tela, 120×100 cm

È di questo tipo il sentimento che muove, come un impulso rigenerativo, tutta la ricerca estetica di Giovanni Motta e a cui, non a caso, l’artista dedica un lavoro installativo – la grande insegna al neon con la scritta “Nostalgia” – che è un richiamo alle tanto amate atmosfere degli anni Ottanta (quelle, per intenderci, prepotentemente tornate in auge grazie alla serie Stranger Things), ma anche un pungolo all’analisi critica di un sentimento che, attraverso i film, la musica, la moda, è diventato oggi condiviso e formalizzato, e dunque, inevitabilmente, deteriore.

Il confine tra una nostalgia positiva e una negativa è, infatti, quanto mai labile, pericolosamente in bilico tra un quiescente ripiegamento verso tutto ciò che è già noto e un vigile desiderio di recuperare le energie inespresse e i possibili sviluppi dei sentieri della Storia. Ma per Giovanni Motta la questione della nostalgia è solo in senso lato una faccenda che impatta sul tessuto sociale. Piuttosto, per usare le parole dello scrittore Roberto Cotroneo, “è una forma per preservare l’identità psichica, tenerla unita, come una fascia che impedisce al proprio io di disgregarsi.” Le sue incursioni nell’immaginario infantile dei manga e dei cartoni animati servono ad agganciare sensazioni, stati d’animo e illuminazioni che innescano un diverso modo d’interpretare e vivere la realtà odierna. Con le sculture e i quadri popolati di eroi bambini e di prodigiosi mostriciattoli che, insieme ai colori forti, amplificano l’intensità emozionale delle sue storie, Motta non racconta solo la nostalgia di un decennio che è rimasto impresso, come un tatuaggio dell’anima, nella generazione X, ma indaga soprattutto il tempo magmatico ed incandescente della propria formazione emotiva e spirituale (e, per estensione, della formazione di tutti, inclusi quelli che oggi chiamiamo Millennials e che stanno attraversando, forse inconsapevoli, le tempestose acque dell’infanzia e dell’adolescenza).

Il suo sforzo individuale di recuperare la purezza, il vigore e la terribile vemenza delle epifanie vissute nella primavera della vita è a beneficio di tutti. Non solo perché indica una via nuova alla rilettura del passato che scarta il rimpianto esistenziale e ogni facile ripiegamento retrospettivo, ma perché dimostra, con la persuasione e la potenza delle immagini, che la magia, il coraggio, lo stupore e l’eroismo, a volte folle, dei bambini sono risorse inespresse dell’adulto di oggi. Al diavolo, dunque, la sindrome di Peter Pan tanto sbandierata dalla sociologia odierna! Se restare bambini significa tornare ad essere eroi (di noi stessi) con quello slancio pop e vitalistico di cui parla Franco Bolelli, cioè Con il cuore e con le palle (Garzanti, 2005), allora ne vale la pena! Proprio lui, l’eretico filosofo nietzschiano contemporaneo, scrive, infatti, che “l’essenza stessa dell’evoluzione è e non può che essere adolescenziale, quando avanza con i suoi nuovi passi, quando si lascia sospingere e attraversare dall’innovazione e dall’energia.”[1]

100x100-everyone with me copia

Giovanni Motta, Everyone with me, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm

Per questo Giovanni Motta fa coincidere sul piano estetico e linguistico l’epos dei cartoon e degli anime giapponesi con il suo personale bagaglio di esperienze e memorie puberali. Su di lui – come su molti di noi – i cartoni hanno avuto lo stesso impatto delle favole e dei racconti mitologici sui nostri avi. Altrettanto epiche e paradossali, magiche e inverosimili, sono le storie visive della nostra formazione, dipanatesi nei lunghi pomeriggi passati davanti al tubo catodico, dove abbiamo costruito, volenti o nolenti, i fondamenti della nostra weltanschauung e gettato le basi della nostra conoscenza della vita e del mondo.

Nell’immaginazione plastica e pittorica di Motta il vissuto reale s’intreccia e si confonde con le memorie visive dei cartoni animati, grazie a una grammatica che sembra allontanarsi sempre di più dai codici del superflat nipponico per trovare una propria originale formula espressiva, meno freddamente rifinita e più calda e pastosa. Come ai suoi esordi, Motta mescola ancora la pratica artigianale della pittura con le inserzioni serigrafiche, contamina l’arte di plasmare le forme con le più recenti tecniche di stampa tridimensionale, quasi infiammato da una furia sperimentale che sfrutta tutte le potenzialità della tecnologia senza mai scadere in una supervalutazione dei mezzi e degli strumenti. Perché, nel suo caso, il medium non coincide mai col messaggio, ma il suo stile formale, cioè il suo linguaggio visivo, è un elemento essenziale del suo storytelling.

100x100-LADYLADYLADY copia

Giovanni Motta, Lady, Lady, Lady, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm,

Ci sono due aspetti complementari nell’arte di Giovanni Motta, quello pittorico e disegnativo e quello plastico e scultoreo, che enucleano due diversi momenti della sua indagine: uno caotico, esplosivo e partecipe che si riflette nelle affollatissime composizioni delle sue tele e delle sue carte, dove il dinamismo dello slancio, dell’impeto e del turbinio dell’azione dominano il racconto; l’altro icastico, contemplativo, aurorale che emana dalle sculture di medie e grandi dimensioni che invitano lo spettatore a un confronto più intimo e meditato con le immagini. Sono i due tempi di uno stesso respiro, le aritmie di un unico battito cardiaco, le contrazioni e distensioni del medesimo muscolo creativo che variano il ritmo della narrazione.

I dipinti di Motta ci trascinano di getto al centro della storia, nel mezzo di un’azione che, con la forza centripeta di un ciclone, sconquassa luoghi, cose e persone. Il nostro occhio è forzato a immedesimarsi con gli eroi bambini e le loro schiere di mostri, ad adottare una visione in soggettiva degli eventi, quasi senza poter opporre resistenza. Diventiamo parte di quello sturm un drang emotivo, fatto di passioni e entusiasmi eroici che l’allegoria della lotta e del conflitto illustrano così sapientemente. Mentre guardiamo, siamo la furia rabbiosa in Lady, Lady, Lady, dove il bambino con la maschera da lupo lotta per liberarsi da tentacolari spire vegetali, oppure ci immedesimiamo con lo sconsiderato ardimento dei ragazzi che si gettano nella fossa delle tigri in Orphans; siamo il risoluto coraggio del guerriero che corre incontro alla battaglia in Thankse in Everyone With Me, ma anche la concentrazione massima di un pensiero fluttuante, come il bambino di Wonder che brilla di quell’energia potenziale in procinto di esplodere in un atto risolutivo.

100x100-Orphans copia

Giovanni Motta, Orphans, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm,

Tutte queste emozioni precipitano al centro delle tele di Giovanni Motta, magneticamente attratte da un fuoco prospettico che coincide, sempre, con l’immagine di Johnny Boy, il bambino allegorico, la metafora animata del vulcanico magma viscerale non solo dell’infanzia, ma di tutte le infanzie. Un espediente che l’artista usa per ricordarci quel che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare, se vogliamo ritornare a sentire la magia dell’esperienza vitale. Le sue storie hanno sempre del miracoloso e usano i registri dello straordinario, dell’eclatante e del sorprendente perché la vitalità e l’entusiasmo non conoscono limiti e restrizioni (e non osservano le regole del bon ton!).

Paradossalmente, nelle sue sculture, la capacità di coinvolgere lo sguardo diventa più sottile e persuasiva rispetto ai dipinti. Lo spettatore recupera il senso di unità soggettiva e percepisce l’oggetto tridimensionale, una delle numerose variazioni di Johnny Boy, come altro da sé, un corpo immobile nello spazio che gli consente un approccio apparentemente più analitico. I tempi di fruizione si allungano, la contemplazione si dilata e si fraziona. Nel muoversi attorno alla forma plastica, l’osservatore adotta molteplici punti di vista, non riesce, cioè, a risolvere la complessità delle forme di un oggetto solido così come risolve otticamente lo spazio illusorio di un’immagine dipinta. Motta conta su questa complessità per irretire l’osservatore in una trama più complessa, in un gioco che più quietamente innesca i meccanismi identificativi. L’immagine è fissa, statica, come una fotografia solidificata nella terza dimensione e il personaggio – uno solo questa volta – concentra su di sé tutte le possibili narrazioni.

93cca1da-06cf-4a6a-8341-ac0516d757d2

Giovanni Motta, Joe, 2020, resina stratificata, resina, creta, acrilico, legno,60x26x26 cm ,

Lo storytelling, così evidente nei dipinti, si trasferisce ora alla mente dello spettatore. Johnny Boy è la porta d’ingresso dei suoi circuiti proiettivi, proprio come i simboli in pietra scolpiti sui portali delle chiese romaniche e gotiche. La funzione del simbolo è di riunire cose diverse, di mettere insieme pensieri, esperienze, sentimenti e significati contrastanti, di essere, appunto, come una porta che conduce a differenti luoghi o come una chiave che apre diverse porte. Johnny Boy, in tutte le sue numerose incarnazioni, non è mai il latore di un messaggio predefinito, ma l’interruttore che accende la pletora di ricordi e impressioni che riposano nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Il suo scopo è risvegliare qualcosa che credevamo sepolto nelle macerie della memoria non per crogiolarsi in un malinconico rimpianto, ma perché possa servirci ora ad affrontare il presente. La nostalgia, così come la intende Giovanni Motta, e come la intendo io, è uno strumento di conoscenza, un tool. Qualcosa che può addirittura assumere le sembianze di un QR Code che ci rimanda alla voce di un bambino mentre recita una poesia imparata a memoria, spalancando, così, dentro di noi un nuovo giacimento di emozioni dimenticate.


[1] Franco Bolelli, Cartesio non balla. Garzanti, 2007, Milano, p.22.

140x100-THANKS copia

Giovanni Motta, Thanks, 2020, tecnica mista su tela, 140×100 cm


INFO:

Giovanni Motta – THANKS
a cura di Ivan Quaroni

Galleria Doppia V
via Moncucco, 3 – 6900 Lugano – Svizzera
Opening: Venerdi 11 Settembre h. 18.00
Durata: 11 settembre – 9 ottobre 2020
Orari: dal Martedi al Venerdi, dalle ore 9.00 alle 12.00 / dalle 14.30 alle 17.00; Sabato su appuntamento

Catalogo disponibile in galleria: stampato da Grafiche Aurora, Verona

Galleria Doppia V
Via Moncucco 3, 6900 Lugano, Svizzera
Riferimento: Eugenia Walter
Tel. +41 091 966 0894
info@galleriadoppiav.com

Per ulteriori informazioni:
info@giovannimotta.it

Elena Stizzoli – assistente personale Giovanni Motta –
Tel. +39 340 1295227 elena@giovannimotta.it

Sito web:
www.giovannimotta.it