Piazza Mimmo Paladino, 2025, acrilico su tela, 50×70 cm.
Come possano dialogare la grammatica pop di Giuseppe Veneziano e la Metafisica del pictor optimus è cosa facile da capire se si considera che nella pletora degli artisti influenzati da Giorgio De Chirico si può annoverare – oltre ai surrealisti Salvador Dalì, Max Ernst, Paul Delvaux e René Magritte – anche Andy Warhol. Il padre della Pop Art ammirava, infatti, il pittore italiano e lo considerava, in un certo senso, il precursore di quella tecnica che conferisce agli oggetti banali un nuovo statuto, elevandoli dalla sfera del quotidiano alla dimensione colta dell’arte. Nel 1982 Warhol realizzò una serie di opere ispirate a De Chirico, confluite nella mostra Warhol versus De Chirico, allestita nello stesso anno alla sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio a Roma e poi alla Galerie Kammer di Amburgo. Tra le opere di quel periodo ci sono anche i disegni Hector and Andromache e Furniture in the Valley ispirate a soggetti che De Chirico aveva ridipinto nel 1963.
Actarus e Adromaca, 2009, acrilico su tela, 100×72 cm.
Curiosamente, la versione originaria del 1917 di Ettore e Andromaca è stata anche la fonte di ispirazione di uno dei due dipinti metafisici di Giuseppe Veneziano che precedono la serie dedicata alle Piazze d’Italia. Si tratta di Actarus e Andromaca (2020), in cui l’artista fonde il mito classico con l’immaginario dei cartoni animati giapponesi (Atlas Ufo Robot di Go Nagai), operando uno dei suoi tipici mash-up iconografici.
L’enigma di Edipo, 2024, acrilico su tela, 100×70 cm.
L’altra opera è, invece, l’Enigma di Edipo (2024), in cui l’immagine della scultura della sfinge collocata sul plinto, presente nel dipinto originale di De Chirico, è sostituita dalla Edipo Lamp di Corrado Levi, oggetto di design ispirato al mito dell’accecamento del figlio di Laio e Giocasta. Nella logica compositiva della pittura di Veneziano, le tecniche di rielaborazione, distorsione e sostituzione di parte dell’iconografia artistica tradizionale hanno sempre giocato un ruolo fondamentale, spesso col proposito di innestare nella stabile composizione di un’opera classica (e spesso anche riconoscibile) la sua personale lettura del presente.
Piazza Michelangelo Pistoletto, 2025, acrilico su tela, 70×100 cm.
La nuova serie delle Piazze d’Italia non fa eccezione. Qui, i dipinti più apprezzati della produzione di De Chirico, quelli in cui l’artista compendia i caratteri dell’urbanistica italiana in una teoria di porticati e sculture classiche che gettano ombre lunghe sulle piazze vuote e silenziose in un limpido pomeriggio autunnale, diventano il pretesto per una riflessione sull’odierno concetto di fama e, insieme, un’occasione per fare di ogni quadro un doppio d’après, che, di volta in volta, inserisce nel ricorrente impianto della piazza dechirichiana, l’opera iconica di un diverso artista contemporaneo vivente. Se un tempo la fama era il risultato di un percorso lungo, spesso accidentato, e legato a un talento riconosciuto o a un’impresa straordinaria, oggi è diventata un bene legato alla visibilità, all’esposizione continua, alla capacità di stare al centro del palcoscenico mediatico, anche solo per un momento. Veneziano sostituisce le sculture classiche di Ariadne (o Arianna), le statue di Cavour e i monumenti equestri di Carlo Alberto di Savoia, con una teoria di iconiche opere contemporanee, che adombrano l’idea (ma anche la speranza) di un imminente adeguamento della toponomastica delle città italiane al nuovo pantheon di celebrities della società liquido-moderna. Se l’iter verso la notorietà è diventato più rapido, possiamo immaginare non solo che le opere degli artisti viventi possano più facilmente entrare a far parte dell’arredo urbano, ma che addirittura le piazze adottino il nome non solo di artisti scomparsi, ma anche di autori viventi come Maurizio Cattelan, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Marco Lodola.
Piazza Maurizio Cattelan, 2025, acrilico su tela, 60×80 cm.
Da pittore colto, narrativo, programmaticamente post-ideologico, Veneziano costruisce le sue Piazze d’Italia come un aggiornato atlante della visione, dove l’architettura metafisica è, allo stesso tempo, spazio mentale, dispositivo estetico e palcoscenico critico. Se per De Chirico la piazza è il teatro di un enigma esistenziale, una sorta di sospensione ontologica, per Veneziano è un deposito di stratificazioni semantiche, dove si sovrappongono codici passati e presenti e dove la storia e l’attualità si passano il testimone. Nella Metafisica Pop di Veneziano, però, non ci sono elementi nostalgici, né compiaciuti anacronismi, ma immagini metafisiche in dialogo con la diabolica fenomenologia delle arti contemporanee, in cui l’instagrammabilità dell’immagine sembra aver rimpiazzato i fondamenti estetici e concettuali dell’opera.
Piazza Alessandro Mendini, 2025, acrilico su tela, 40×30 cm.
Le sculture che prendono il posto delle statue classiche sono le più emblematiche del lavoro degli artisti evocati, quelle che hanno raggiunto una certa riconoscibilità mediatica. Ad esempio, in Piazza Maurizio Cattelan (2025), il famoso dito medio installato nel 2010 davanti alla Borsa di Milano, assume la monumentalità algida di un reperto post-contemporaneo, equidistante tanto dalla svettante ciminiera industriale sulla sinistra, quanto dall’edificio classicheggiante sulla destra (una sorta di prefigurazione dell’architettura postmoderna di Aldo Rossi). In Piazza Michelangelo Pistoletto campeggia –ovviamente – una versione extra-large della Venere degli Stracci, simile a quella installata nella Piazza del Municipio di Napoli, proditoriamente data alle fiamme da anonimi vandali e, poi, sostituita da una scultura falliforme di Gaetano Pesce.
Piazza Giuseppe Veneziano, 2025, acrilico su tela, 60×80 cm.
La Montagna di sale di Mimmo Paladino occupa il primo piano della rivisitazionedi una delle opere fondative della Metafisica, L’enigma dell’ora (1911), dove sulla parete frontale del porticato, ispirato allo Spedale degli Innocenti e al Corridoio vasariano di Firenze, compare un orologio che segna cinque minuti alle 15, indicazione temporale che cristallizza “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso.”[1] Nell’opera, intitolata Piazza Mimmo Paladino, Veneziano organizza lo spazio antistante il porticato come un’area sacra, un recinto simbolico su cui sorge l’opera carica di suggestioni arcaiche di Paladino. Piazza Alessandro Mendini (2025) è, invece, un tributo al grande architetto e designer – unica eccezione alla teoria di piazze dedicate ad artisti non trapassati – dove protagonista è la versione monumentale della celebre Poltrona Proust, un oggetto progettato nel 1978 e poi divenuta una delle forme più iconiche dell’estetica postmodernista.
Piazza Marco Lodola, 2025, acrilico su tela, 30×40 cm.
Non manca, infine, l’autocitazione di Piazza Giuseppe Veneziano, dove l’artista siciliano installa la sua monumentale banana blu, esposta nella piazza principale di Pietrasanta nell’estate del 2021, un’opera che tra critiche e lodi, ha attirato una grande attenzione mediatica, suscitando un salutare confronto sulla forza comunicativa di un’arte pop monumentale. Con Piazze d’Italia, Giuseppe Veneziano afferma le possibilità di una pittura che sa offrire insieme una visione e un’analisi della contemporaneità. Una pittura che guarda al passato come una risorsa, non come un vincolo e che sa agire dentro il presente con gli strumenti della cultura visiva, della storia dell’arte e della consapevolezza critica.
Piazza Fabio Novembre, 2025, acrilico su tela, 40×60 cm.
[1] Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita (1945-1962), 2002, Bompiani, Milano, pp. 73-74.
Cominciamo dalla fine, o quasi. Cominciamo dal 2010, l’anno in cui Ronnie Cutrone ha presenziato alla sua ultima mostra in Italia alla galleria Lorenzelli arte di Milano, intitolata Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match. Sono passati dieci anni, ma sembra ieri. Ronnie vestiva un panciotto su una t-shirt e portava al polso dei braccialetti colorati che lo facevano sembrare una via di mezzo tra un vecchio hippie e un rocker duro a morire. Aveva l’aria comprensibilmente stanca per il viaggio da New York a Milano e l’espressione colpevole di chi sapeva di dover ancora finire di dipingere alcuni quadri per mostra che sarebbe stata inaugurata di lì a qualche giorno.
Nella galleria milanese c’era aria di tensione. Matteo Lorenzelli era in trepidante attesa che Ronnie finisse quello che aveva iniziato e a me, con tempismo perfetto, era venuta l’idea di realizzare un’intervista per una famosa rivista d’arte che fornisse un identikit dell’artista ironico e graffiante che aveva reinventato la Pop Art. Mentre tutti si adoperavano per finire i lavori di preparazione della mostra, io accompagnai Ronnie Cutrone a realizzare il servizio fotografico per l’intervista d’imminente pubblicazione.
Nello studio di un fotografo milanese, durante lo shooting, vidi compiersi un’incredibile trasformazione: Ronnie posava come un attore consumato, mentre brandiva come una pistola una banana gialla di warholiana memoria o mentre beveva una Coca Cola fingendo di discutere con i protagonisti delle sue opere, da Felix the Cat a Woody Woodpeker, da Mickey Mouse a Donald Duck. Ronnie sapeva divertirsi e soprattutto sapeva divertire. Elargiva un sacco di aneddoti sui personaggi più improbabili e sulle situazioni più assurde che aveva vissuto e aveva un modo particolare di raccontare che includeva l’imitazione delle voci e una serie di buffe smorfie. Con lui non ci si annoiava mai… Fu un pomeriggio spassoso, l’ultimo raggio di sole, prima della definitiva eclissi.
A bad, bad news!
Milano, martedi 23 luglio 2013, ore 6.19 di mattina. Sulla segreteria telefonica la voce rotta di Matteo Lorenzelli mi comunica il decesso di Ronnie. Buio. È un momento assolutamente surreale. Le circostanze della sua morte sembrano uscite da un bollettino di C.S.I.: il corpo viene ritrovato dal suo assistente nella casa di Lake Peeskskill, vicino a New York. Qualche tempo dopo si viene a sapere che alcuni suoi dipinti sono stati trafugati e che il suo assistente trentacinquenne, accusato del furto, è stato tradotto nel carcere della Contea di Putnam, nell’area metropolitana di New York. La stampa nazionale americana dedica al fatto pochi e succinti trafiletti, ricordando Ronnie Cutrone come il principale assistente di Andy Warhol e dimenticando completamente che alcune sue opere sono nelle collezioni d’importanti musei come il Whitney, il MoMA e il Brooklyn Museum di New York, il Los Angeles County Museum, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, il Groningen Museum e il Ludwig di Colonia. Maledetti giornalisti!
Rewind and start again.
Ripartiamo d’accapo.Ronald Curtis Cutrone – questo il suo nome per intero – è nato a New York il 10 luglio 1948. Il suo cognome tradisce un’evidente origine italoamericana, ma lui, cresciuto a Brooklyn, non ha mai parlato italiano. C’è una vecchia fotografia di Ronnie bambino con un vestito da cowboy, seduto in poltrona mentre legge un fumetto. La foto è del 1953 e Ronnie ha appena cinque anni. In quell’immagine sbiadita c’è molto del futuro Cutrone: l’innocenza, l’ironia, la voglia di divertirsi, la passione per i comics. Come tutti i bambini, Ronnie amava disegnare… soprattutto indiani e cowboy, auto da corsa e copertine di riviste. Non è strano, quindi, che, dopo aver frequentato la Brooklyn High School, si sia iscritto alla School of Visual Arts di Manhattan, dove ha studiato tra il 1966 e il 1970, anni cruciali e turbolenti della sua formazione d’artista. Ronnie non dipingeva ancora. All’epoca – come raccontò in quella mia ultima e unica intervista – eseguiva delle performance in cui legava degli oggetti al proprio corpo. Siccome gli ci voleva un’ora per prepararsi e un’altra per svestirsi, il professore e gli studenti del corso di pittura trovarono più comodo trasferirsi a casa sua per le lezioni. Le qualità performative di Ronnie, però, si esprimevano soprattutto al di fuori della scuola, attraverso altri incontri e altre frequentazioni.
Andy Warhol Superstar
Ronnie incontra per la prima volta Andy Warhol a una festa. Lui sta uscendo, Ronnie sta entrando: fatalmente si scontrano. Un comune amico li presenta e il gioco è fatto. Ronnie non lo sa ancora, ma la sua vita sta cambiando per sempre. In quel lontano 1966, il vivace teenager di Brooklyn si divide tra le lezioni alla School of Visual Arts e i weekend alla Factory. Diventa persino uno dei performer dell’Exploding Plastic Inevitable Show dei Velvet Underground. Mentre il gruppo suona, Ronnie e altri ragazzi si esibiscono sul palco. Lui è il ballerino che fa schioccare la frusta sul suono ipnotico e alieno della band di Lou Reed.
L’Exploding Plastic Inevitable sarebbe stato ricordato come uno dei più importanti e rappresentativi spettacoli multimediali degli anni Sessanta. Ronnie non sa nemmeno questo. Come potrebbe, tra l’altro, immaginare che quel cantante sarebbe diventato uno dei suoi più cari amici? Tre anni dopo, Warhol fonda la rivista Interview dichiaratamente per essere invitato, come editore, alle proiezioni dei film e per conoscere le star del cinema. A Ronnie è affidato il compito di recensire le mostre e i concerti più cool. Per quattro anni incontra artisti e musicisti di ogni sorta, diventando la longa manus di Warhol in città. Quando nel 1972 decide di lasciare Interview, Warhol gli chiede di diventare suo assistente. Per una decade Ronnie sarà il braccio destro di Warhol, non solo l’uomo che prepara le tele, mischia i colori, dipinge le opere e si occupa delle spedizioni.
Andy e Ronnie erano due stakanovisti: di giorno lavoravano sodo e la sera uscivano a divertirsi. La Weltanshauung di Warhol (ma anche di Ronnie), come raccontava Tommaso Labranca nel fenomenale saggio Andy Warhol era un coatto (Castelvecchi, 1995), era riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso. Negli anni Settanta, relativamente più quieti rispetto agli anni d’oro della Factory, Ronnie lavora principalmente ai ritratti su commissione di celebrità e personalità facoltose, che costituiscono l’ossatura commerciale della bottega di Warhol. Nello scorcio finale del decennio si fa festa alla discoteca Studio 54 e al nightclub Max’s Kansas City, crocevia di artisti, intellettuali, attori e rockstar. In un altro locale, il celebre CBGB’s, New York preannuncia, con l’esplosione al fulmicotone del punk, l’avvento di una nuova era.
Living Sculptures in a Cage
Il rapporto di Ronnie Cutrone con la pittura era sempre stato episodico, se non addirittura sporadico. Alla School of Visual Arts aveva eseguito qualche dipinto in stile neoespressionista e durante i primi anni alla Factory si era interessato soprattutto alla fotografia. Negli anni Settanta, mentre lavorava per Warhol, Ronnie realizzò una serie di sculture che rappresentavano le paure della gente. Tra queste c’erano delle gabbie in cui le eventuali reazioni tra due persone all’interno di uno spazio ristretto potevano essere osservate dagli spettatori. Alcune delle cosiddette The Getting To Know You Cage furono esposte al Mudd Club, un locale fondato nel 1978 da Steve Mass, Anya Phillips e Diego Cortez e gestito dallo stesso Cutrone tra il 1979 e il 1982. Al piano superiore del Mudd Club, dietro le sbarre delle sue sculture, si potevano vedere personaggi come David Bowie e Grace Jones.
The Eighties
Il 1980 è l’anno che segna il distacco formale da Andy Warhol e l’inizio della sua carriera di artista. Cutrone stava pensando di fare una serie di dipinti sugli stessi temi affrontati nelle sculture, ma non si era ancora deciso a realizzarne uno. Fu Lucio Amelio, il gallerista napoletano di Warhol, a chiedergli di dipingere il primo quadro in occasione della sua partecipazione ad Art Basel. Ronnie non dipingeva da dodici anni ed era comprensibilmente preoccupato, tuttavia comprò una grande tela e si mise al lavoro. Il primo tentativo, a suo dire, fu una vera schifezza, ma non si lasciò scoraggiare: girò la tela e si rimise a dipingere. Il risultato fu Red Eating Cannibals (1981), un dipinto ricavato da uno schizzo, fatto su un autobus mentre attraversava New York, che intendeva illustrare la violenza latente delle persone, un tema ricorrente in molti suoi dipinti successivi.
L’arte di Ronnie Cutrone, così come la conosciamo, nasce nel 1982, quando per la prima volta dipinge Picchiarello (Woody Woodpecker), il celebre personaggio inventato da Walter Lantz nel 1940, protagonista di molti cartoni animati della Universal Picture. Per trovare se stesso come pittore, Ronnie doveva capire che cosa amasse veramente:
“Amavo le donne, ma non volevo dipingerle, amavo Dio in quel periodo, ma non volevo dipingere Dio, perché, tra l’altro, Dio è senza volto. Fu un vero problema perché non sapevo che cosa amassi, ma ogni notte dormivo con il mio peluche di Picchiarello, così una mattina mi svegliai e capii che… amavo Picchiarello. È li che credo di avere amato Woody. E pensai… come posso fare… e lo dipinsi su una bandiera.”[1]
New York, New Pop
Nei primi anni Ottanta New York è la culla di un Rinascimento che coinvolge la musica, le arti, la cultura urbana. Il punk si è trasformato in New Wave, o meglio in No Wave, proprio nelle sale scalcinate del CBGBs. Andy Warhol è tornato sulla cresta dell’onda e la Factory è di nuovo un polo d’attrazione per star e celebrità di ogni genere. Per le strade impazza l’arte dei graffiti, un fenomeno virale che parte dalle comunità latine e afroamericane del South Bronx e si diffonde a macchia d’olio sui muri, sui vagoni della metropolitana e in ogni angolo della città, tappezzando ogni superficie disponibile d’immagini intrecciate a grandi lettere gommose. In seno alla cultura Hip Hop si sviluppano nuove pratiche di resistenza urbana, come la Breakdance, il Rap, il Writing. C’è fermento in città. Le gallerie d’arte si aprono ai nuovi linguaggi, mentre l’Europa è dominata dal neoespressionismo di Transavanguardia, Neue Wilden, Figuration Libre, Haftige Malerei. La febbre della pittura contagia il vecchio continente e trova il modo di sbarcare sulle coste statunitensi dell’Atlantico con la complicità di Leo Castelli e Ileana Sonnabend. Si chiude l’epoca dei concettualismi e dei minimalismi e si apre la gioiosa (ma irresponsabile) stagione dell’Edonismo Reganiano (Roberto D’Agostino).
Ronnie è nel posto giusto e al momento giusto per rivitalizzare, anzi per reinventare la Pop Art. Dipinge i personaggi dei cartoni animati sulle stelle e strisce della bandiera americana con un’attitudine completamente diversa rispetto agli artisti pop degli anni Sessanta. Avrebbe potuto seguire la scia della moda neoespressionista, accodarsi agli epigoni della Bad Painting e dei Neoprimitivi americani (da James Brown a Donald Beachler), seguire la neonata scuola dei graffitisti, ma preferisce ripartire dalla propria esperienza e infondere un nuovo spirito nella grammatica, fino ad allora fredda e intellettuale, della Pop Art. Espone i dipinti con Woody Woodpecker prima da Lucio Amelio, a Napoli (1982), poi da Tony Shafrazi, a New York (1982 e 1983).
Tony Shafrazi è un tipo curioso, salito alla ribalta della cronaca nel 1974 per aver vandalizzato con una bomboletta spray la Guernica di Picasso esposta al MoMA. Pensava che quel dipinto avesse perso la sua carica politica e rivoluzionaria e che bisognasse fare qualcosa perché tornasse a far riflettere la gente sul dramma della guerra. La sua galleria newyorchese, aperta nel 1979, si fa una reputazione esponendo nuovi talenti come Ronnie Cutrone, Keith Haring, James Brown, Jean-Michel Basquiat, Kenny Sharf, Jonathan Lasker e Futura 2000.
Cartoons and TV Generation
Woody Woodpecker è il primo di una lunga serie di personaggi dei cartoni animati dipinti su bandiere americane. Ci sono, tra gli altri, Mickey Mouse, Donald Duck, Pink Panther, Krazy Kat, Felix the Cat e Blaze, l’unico inventato dall’artista. Ronnie non è il primo a dipingere gli eroi dei comics. Lo avevano già fatto Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Mel Ramos, ma il suo modo è completamente nuovo: partecipe, caldo, innocente.
Ronnie appartiene alla prima generazione cresciuta completamente con la televisione. Fumetti e cartoni animati sono parte del suo patrimonio culturale e sentimentale e possono essere usati per raccontare il mondo in cui viviamo, come se fossero lettere di un alfabeto universale che tutti possono comprendere. Se gli artisti pop degli anni Sessanta avevano un atteggiamento più distaccato, più freddo, gli artisti New Pop, come Cutrone, Keith Haring e Kenny Scharf, vogliono arrivare al cuore della gente. I personaggi di Cutrone esprimono tutta la gamma dei sentimenti umani: la gioia, la rabbia, l’allegria, la tristezza, il dubbio e lo stupore che proviamo davanti alle assurde vicende della vita.
The Politics of Painting
Ronnie è sempre stato apolitico. Non votava. Credeva fondamentalmente che Dio gli avesse dato sufficiente autostima per non mettere il proprio destino nelle mani dei governanti, di qualsiasi partito politico fossero. Si definiva un liberale e se avesse un giorno deciso di votare avrebbe scelto i democratici perché non gli dispiaceva l’idea di pagare più tasse per migliorare la vita degli altri. Nonostante odiasse qualsiasi tipo di connotazione politica, culturale, religiosa o di genere, si rendeva conto che dipingere su una bandiera rendeva automaticamente i suoi dipinti politici.
“La politica”, mi disse, “fa parte della vita e io dipingo la vita”. Sono convinto che a lui piacessero le bandiere, non solo quelle americane, per i meravigliosi colori, così come gli piacevano i simboli della cultura di massa, i supereroi con le loro calzamaglie sgargianti, le copertine dei dischi pop e i loghi delle multinazionali. Le bandiere erano state un modo per portare i suoi personaggi nel mondo reale, per calarli sul palcoscenico dell’esistenza in modo che potessero scardinare, come ammetteva lui, “i nazionalismi, i razzismi e tutti gli ismi, per arrivare fino al cuore”. Il suo New Pop dava anche un altro messaggio, semplice e chiaro: “questo è il mondo, questo è ciò che siamo, nel bene e nel male”.
Matteo
Il rapporto di Ronnie Cutrone con l’Italia, iniziato nel 1982 con Lucio Amelio – per il quale in seguito realizzò anche il grande acrilico su bandiera napoletana intitolato You run to the sea, the sea wilI be boiling – You run to the rocks, the rocks wiII be melting, parte della celebre collezione Terrae Motus – è proseguito negli anni successivi con due mostre alla galleria Salvatore Ala di Milano nel 1984 e 1987 e poi con altre due mostre di disegni e acquarelli organizzate dallo Studio d’Arte Raffaelli (1991 e 1994), che si è occupato soprattutto della sua produzione grafica. C’è stata anche una mostra alla Galleria Il Capricorno di Venezia nel 1992, ma si può tranquillamente affermare che, dopo il primo periodo con Tony Shafrazi, il gallerista di fiducia di Ronnie Cutrone divenne Matteo Lorenzelli.
Ronnie e Matteo si conoscono a Milano nel 1984, quando Keith Haring, insieme a LA II (Angel Ortiz), realizza il negozio di Elio Fiorucci in San Babila. Si rivedranno a New York nell’aprile del 1986, poco dopo il disastro di Chernobyl, e continueranno ad avere contatti periodici fino alla fine degli anni Ottanta, periodo in cui la loro conoscenza si trasforma in rapporto professionale e, soprattutto, anche in una lunga e duratura amicizia. Quello tra gallerista e artista è da sempre un rapporto controverso, spesso costellato di incomprensioni, ma nel loro caso le cose sono sempre filate lisce. Mai una discussione su questioni veniali, mai uno screzio. Il loro è stato un legame solido, come se ne vedono pochi nel mondo dell’arte. Prova ne sono i nomignoli con cui erano soliti chiamarsi e che facevano parte di un lessico privato e affettuoso, incomprensibile a tutti gli altri.
Dopo il 1987, Lorenzelli rileva parte dei lavori in deposito alla galleria Salvatore Ala di Miano. Tra quei dipinti ci sono, oltre a My Future is None of my Business (1985) Happy Valley (1985-86), Mister Kilowatt (1985-86) e Living Water (1985-86), due grandi bandiere americane di soggetto italiano. La prima, Saint George and the Appropriation (1987), è una ripresa del classico tema di San Giorgio e il drago con Picchiarello nelle vesti del santo e, al posto del drago, il celebre cane a sei zampe dell’AGIP, disegnato nel 1952 dallo scultore varesino Luigi Broggini. Intorno alle due figure, sulle strisce orizzontali della bandiera, campeggiano il biscione araldico, simbolo della municipalità milanese, e i loghi di Fiorucci, Olivetti, Campari e Alitalia. Gli stessi marchi, con l’aggiunta di un grande monogramma di McDonald, compaiono in David and the Corporate Structure (1987), una bandiera verticale dominata dalla figura del David di Michelangelo.
Nell’opera di Cutrone, accanto all’immaginario pop americano, di tanto in tanto compaiono riferimenti al mondo italiano, che dal 1982 diventa una delle più frequenti mete espositive, grazie anche alla collaborazione con la galleria di Lucio Amelio per il quale, l’anno successivo, realizza un dittico su bandiera napoletana intitolato Corri verso il mare, il mare ribollirà – Corri verso le rocce, le rocce si scioglieranno (1983), poi entrato a far parte della famosa Collezione Terrae Motus. La prima tela “italiana” è, però, Birden (1982), in cui sono raffigurati Picchiarello e un mitologico Atlante che si stagliano per la prima volta sullo sfondo della bandiera Tricolore. In seguito, in occasione delle diverse mostre alla galleria Lorenzelli arte di Milano, compaiono, tra gli altri, i dipinti Lira (1993) e Shopping (1993), che recano sul fondo, rispettivamente, delle immagini serigrafate delle banconote da centomila lire (quelle con il ritratto di Caravaggio) e una piantina del centro di Milano, e Diabolik Creamsicle (2003), realizzato grazie alla scoperta del famoso personaggio dei fumetti creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani.
Here Come the 90’s
Gli anni Novanta si aprono all’insegna della novità. Ronnie inizia a dipingere anche su nuovi supporti come i quilt, le tradizionali trapunte decorate con motivi a patchwork che fanno parte del patrimonio dell’arte folk americana. Quilt n.1, n. 2 e n. 3 (tutti del 1990), Big Star (1991), Crazy Quilt (1990-91), Star Stepping (1991) e Black and White Mickey (1993) sono lavori di altissima qualità formale, in cui i tradizionali personaggi di Cutrone dialogano con raffinatissimi pattern di tessuto, raggiungendo una dimensione inedita di eleganza e raffinatezza. I Quilt sono la perfetta sintesi di Pop e Folk, il confine in cui s’incontrano la cultura consumista della civiltà urbana e quella agricola e provinciale dell’America rurale, la stessa evocata nei sacchi di mangime Beacon, che l’artista usa come supporti su cui trasferire il proprio armamentario iconografico. Un serbatoio d’immagini che rimane sostanzialmente inalterato fino all’ultimo scorcio del decennio, quando fanno capolino nuovi soggetti che, a posteriori, sembrano preavvertire la tregenda di quel fatale 11 settembre del 2001.
Sex, sex, sex!
All’inizio dei Novanta, la proverbiale joie de vivre del decennio precedente, prematuramente soffocata dall’incubo dell’Aids, trova un prolungamento in Love-Spit-Love (1991), una performance alla Simon Watson Gallery di New York organizzata da Ronnie insieme alla moglie Kelly Cutrone, una PR, poi divenuta una celebre autrice di programmi televisivi. Durante la performance – da cui prese il nome la nuova band dell’amico Richard Butler, i Love Spit Love[2] – tre coppie nude e di diverso orientamento sessuale (una gay, una lesbica e una etero) amoreggiavano su una bandiera americana. Love-Spit-Love era una protesta esplicita contro la censura del Governo nei confronti dell’arte e della musica ritenute oscene, ma il sesso era sempre stato al centro degli interessi di Ronnie fin dai tempi della Factory. Nel 1994, al Club U.S.A. di New York, Cutrone organizza un’altra performance, intitolata Birdbath, ancora più spinta della precedente: “[…] ho realizzato un evento di donne e pipì, facevano pipì semplicemente su ogni cosa: sulla bandiera, sui mappamondi, nelle cassette dei gatti […] Si, la mia nuova arte è tutta sul sesso.”[3]
La performance Birdbath, divenuta poi un video, è un’ennesima protesta contro l’America puritana e le sue contraddizioni:
“[…] in America facciamo di tutto ma la gente religiosa è veramente pazza. Sono pazzi riguardo al sesso. […] Quindi in America io faccio il sesso. Voglio dire, dipingo anche ma faccio sesso su videotape e nelle performances. Nelle performances delle donne che fanno pipì, per via dell’AIDS non possiamo avere scambi di fluidi corporali così le donne pisciavano lustrini dorati sulla gente, ma nel video era reale. Lo abbiamo fatto nel mio studio, tutto il pavimento coperto di fluidi e noi ci sguazzavamo.”[4]
L’anno seguente, in occasione della prima mostra alla Galleria Lorenzelli Arte, Ronnie organizza un’altra performance, più castigata rispetto alle precedenti, ma, nondimeno, ricca di allusioni sessuali. Inter-view, questo il titolo, è un’azione ripresa da Fabio Ilacqua, che mostra una donna nuda distesa su un tavolo, mentre viene toccata e massaggiata da Cutrone. Durante la performance, artista e modella si parlano, ognuno nella propria lingua, generando una sorta di conversazione dadaista, completamente priva di senso logico. Nelle performance e nei video di Ronnie Cutrone, molto più che nei dipinti, l’elemento libertario diventa dominante: il sesso e la nudità servono a denunciare l’ambiguità del moralismo occidentale. E d’altra parte, per uno che ha vissuto la stagione della liberazione sessuale degli anni Sessanta a stretto contatto con gli adepti della Factory di Warhol e con personaggi come Lou Reed, Jim Morrison e Jimi Hendrix, il puritanesimo degli anni Novanta doveva sembrare una cosa assolutamente intollerabile.
Before and After 9/11
Alla fine degli anni Novanta, il disastro delle Due Torri era ancora un incubo inimmaginabile. Ronnie, però, aveva già iniziato a sentire puzza di bruciato. Qualcosa stava cambiando. E in peggio. L’Occidente, dominato dalle multinazionali e ossessionato dal dio-denaro, aveva completamente smarrito la propria identità in una sorta di nuovo colonialismo finanziario ed economico. Nelle tele di Cutrone, accanto ai personaggi dei cartoon e ai brand delle multinazionali, compaiono nuove entità: Apostoli, Santi e Supereroi. Insomma, figure di redentori, salvatori e perfino vendicatori che, in fondo, sono la cartina di tornasole di un diffuso senso d’allarme e di pericolo. Ci rivolgiamo ai santi (o ai supereroi) solo quando le cose non vanno per il verso giusto.
Tutta la serie degli Apostles (2000) rivela un inedito carattere drammatico, inconsueto per l’artista. La croce, intesa nelle sue varie accezioni simboliche – religiosa, funerea o di soccorso – diventa un’iconografia ricorrente sia prima che dopo l’11 settembre (Purple Cross, 2000; Apostle #5, 2000; Red Cross, 2001; Polka Dot Cross, 2002; Cross Rose, 2002; Cross Hendrix, 2002).
Per Ronnie i supereroi della Marvel e della DC rappresentavano l’ennesimo espediente per dare voce a tutta la gamma delle speranze, delle aspirazioni e delle emozioni umane, ma avevano un carattere molto più incisivo nel delicato passaggio verso il Terzo Millennio. Tra il 1999 e il 2001, diventano protagonisti di una serie di quadri anti-pop, che denunciano l’avidità consumistica e la decadenza spirituale degli Stati Uniti, ma dopo l’11 settembre incarnano lo shock collettivo del popolo americano di fronte al crollo delle Twin Towers e le differenti reazioni della massa. Una tela emblematica, Sunshine Superman (Green Lantern) del 2001, mostra due opposte reazioni, i due volti dell’America: quello forte, placido, apollineo di Superman e quello viscerale, emotivo, dionisiaco di Green Lantern. Ronnie riusciva sempre a interpretare i fatti con incredibile oggettività, usando un abbecedario iconico semplice ed efficace. Il serbatoio d’immagini della Pop Art lo aiutava a focalizzare il messaggio: un gelato che si squaglia era la fine del sogno americano, una croce rossa era una richiesta di aiuto, un’esplosione era un simbolo di guerra.
The Age of Terror
“Dopo l’11 settembre il mondo cambiò, almeno a New York, e le esplosioni sembravano più cocenti che mai. Vedevo anche il simbolo della Croce Rossa dappertutto, in televisione, per la strada, compresi i vecchi film che guardavo. Tutto iniziava a confluire nel lavoro che stavo preparando. Supereroi, esplosioni e gelati sono temi tradizionali nell’iconografia Pop, ma l’inserimento della croce rossa aggiungeva il margine di contemporaneità a questo corpo di lavoro, e sembrava avere senso, date le mie influenze, la mia storia Pop personale, lo stato del mondo. Abbiamo tutti bisogno di aiuto”[5] Almeno fino al 2005 i segni dell’avvenuta tragedia continuano a manifestarsi nei dipinti di Ronnie Cutrone. La faticosa gestazione di quel trauma irrisolto influenza la sua opera artistica in modo evidente. In Boom, Oom, Ka Blam, Ka Blam – Handgun, tutti dipinti del 2005, riecheggiano gli assordanti rimbombi delle esplosioni, in un clima di “scontro tra civiltà” che non promette nulla di buono. Il volto dell’America che i falchi Neocon dell’amministrazione di Bush Jr. propugnano è abilmente sintetizzato in una delle opere più iconiche del periodo: Crusade (2005), dove tra un proiettile e un rossetto, sorge il simbolo sanguinante di Superman sormontato da una Croce Rossa. È una moderna pala d’altare, la cruda metafora di una nazione ferita, emotivamente sospesa tra l’odio e il perdono, tra l’amore e la morte. In questa temperie drammatica, appena rischiarata dall’ironia dei suoi Pop Shots, dove ancora sopravvive un’eco del suo spirito ludico, Ronnie Cutrone concepisce la più inquietante delle sue serie pittoriche: le Cell Girls (2004).
Sono undici piccole tele (50×50 cm.) che rappresentano volti di donne mediorientali col tradizionale Jibab e la bocca coperta dalle bandiere delle nazioni nemiche del fondamentalismo islamico. Sono cellule dormienti insediate nei paesi che hanno preso parte alle guerre in Iraq e in Afghanistan o che hanno fornito supporto logistico durante le operazioni militari e che, dunque, sono considerate dei bersagli del terrorismo islamico. A queste si aggiungono due grandi tele con le bandiere degli Stati Uniti (2005) e dell’Afghanistan (2006), che simboleggiano il principale target di Al Qaeda, e il paese che ospita l’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden.
Sorprende, di questa serie di ritratti muliebri, la conturbante e intimidatoria bellezza, capace di dispensare uno strisciante senso d’inquietudine e d’incarnare, al massimo grado, le più profonde paure dell’occidente. Le Cell Girls chiudono un ciclo e, di fatto, rappresentano dopo gli Apostles, i Superheroes, gli Ice-Cream, le Crosses e le Explosions, il capitolo conclusivo di una fase cruciale della sua produzione, peraltro emblematica di uno dei periodi più critici della recente storia americana.
Look Better.
C’è un quadro che inequivocabilmente registra un mutamento di temperatura. Si chiama Look Better (2006), un polittico su tela. È un quadro pop alla vecchia maniera: pulito, privo di sbavature, rasserenante. Rappresenta cinque sorrisi di donna e un riquadro con la scritta bianca “Look Better” in campo giallo. Potrebbe sembrare un dipinto di Alex Katz, se non fosse per la figura di Flash, il velocissimo supereroe DC che sfreccia al centro dell’opera. Qualche volta le cose cambiano alla velocità della luce, ma nell’opera di Cutrone i cicli non si susseguono mai, meccanicamente, l’uno dopo l’altro, ma s’intrecciano e si sovrappongono, esattamente come il registro comico e drammatico della sua pittura. Non si direbbe, ma la serie dei Trasformer, dedicata alle copertine dei dischi più amati dall’artista, nasce nello stesso periodo delle Cell Girls e dei Pop Shots.
Trasformers
Trasformer non è solo il titolo del secondo album solista di Lou Reed, uscito nel 1972, ma è anche il nome di una serie di dipinti di Ronnie, dedicati alle copertine dei suoi dischi preferiti, o di quelli degli amici più stretti. Sketches of Spain di Miles Davis, ad esempio, è uno dei preferiti di Matteo Lorenzelli ed è anche il primo dei Trasformer. Un disco per appassionati di Jazz, non certo un disco pop. Ronnie preferiva dischi più ballabili ed era ossessionato da tendenze e fenomeni culturali capaci di cambiare la società. Definiva “trasformatori” tutti i dischi che avevano creato nuove tendenze e nuovi fenomeni culturali, come The Paragons Meet The Jesters (1959), che aveva lanciato il genere del Doo-Wop, una fusione di Rhytm & Blues e Rock & Roll inventata dai Greaser italoamericani.
Nella lunga serie dei Trasformer ci sono album come Are You Experienced? di Jimi Hendrix, Meet The Beatles, Erotica di Madonna, What’s Going On di Marvin Gaye, Blond on Blond di Bob Dylan, Thriller di Michael Jackson e naturalmente i dischi con le copertine di Warhol di Rolling Stone (Sticky Fingers) e Velvet Undergrond & Nico, ma ci sono anche tributi a singole canzoni, come Don’t Be Cruel di Elvis Presley o Rapper’s Delight di Sugarhill Gang, che ha contribuito a diffondere la cultura dell’Hip Hop. Ronnie aveva un gusto onnivoro, che spaziava dal vecchio rock & roll dei Teddy Boys alla New Wave o al Kraut Rock più raffinati. Sapeva quanto fossero importanti quei dischi perché ne aveva vissuto personalmente l’impatto sulla società ed erano parte della sua storia.
Il critico d’arte Michael McKenzie lo aveva definito un “collagista nel cuore” perché aveva capito che Ronnie era un collezionista di esperienze disparate e che la sua vita era una sorta di patchwork incredibilmente ricco. I quadri della serie Trasformer e quelli di Mix & Match esposti alla Lorenzelli Arte nel 2010, erano la perfetta incarnazione di questa sua attitudine verso il melange, il crossover e tutto il promiscuo meticciato della cultura suburbana. La sua pittura includeva tutte le espressioni popolari in una rappresentazione fedele e agrodolce della contemporaneità, peraltro senza mai ricorrere ai tipici artifici snob e intellettualistici tanto abusati dai maitre à penser dell’arte contemporanea. Era schietta, diretta, autentica, come le copertine dei dischi che la gente ballava nelle discoteche e nei club di New York.
What a… Krazy Life in Naples
Perché What a… Krazy Life? Perché un titolo come questo? C’è un quadro molto grande dipinto tra il 1990 e il 1991 che si chiama Crazy Quilt, dove compare, accanto a un personaggio da cartoon, la scritta “Life” con i caratteri tipografici del celebre mensile americano, per il quale Ronnie avrebbe forse dovuto fare una copertina. Se poi sia stata fatta o meno non importa. Quel che conta è che quella di Ronnie è stata senza dubbio una “Crazy Life”, piena di saliscendi come le montagne russe. Quindi quel dipinto è in qualche modo iconico, oltre che assolutamente veritiero.
Ronnie sarebbe stato contento di fare una mostra come questa e di chiamarla così, What a… Krazy Life, come un commento a freddo, fatto col senno di poi, come si dice, alla fine di una carriera e di una vita a dir poco interessante. Soprattutto, sarebbe stato felice di ritornare là dove era iniziata la sua carriera di pittore, nella città di Lucio Amelio, in quella Napoli che è ancora oggi uno strano mix di tradizione e innovazione, insieme antica e moderna, ibrida e ambigua, ma soprattutto misteriosa. Di questa Napoli velata, lui sarebbe stato il discepolo devoto, l’apprendista stregone che, come il Mickey Mouse di quei suoi dipinti ispirati a Fantasia di Walt Disney… avrebbe fatto per noi un’ultima magia.
[1] Ronnie Cutrone, in AA.VV., hey ronnie, hey paloma, Lorenzelli Arte, Milano, 3 ottobre – 21 dicembre 2013, p. 164.
[2] I Love Spit Love sono stati un gruppo di rock alternativo attivo tra il 1992 e il 2000. Hanno prodotto due album: l’omonimo Love Spit Love(1994) e Trysome Eatone (1997).
[3] Maurzio Turchet, Ronnie Cutrone. Talkin’ about golden shower, in AA.VV., hey ronnie, hey paloma, Lorenzelli Arte, Milano, 3 ottobre – 21 dicembre 2013, p. 65.
[5] Ronnie Cutrone, Tataboo. Apostoli, Supereroi, Gelati, Croci ed Esplosioni, in AA.VV., Ronnie Cutrone. Tataboo. Apostles, Superheroes, Ice-Cream, Crosses and Explosions, Lorenzelli Arte, Milano, 2 ottobre – 22 novembre 2003, p. 7.
Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider.
Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive.
Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative.
Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson.
Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti.
Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010).
Genoma italiano
La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale.
A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].
Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo.
Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione.
Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC.
Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale.
Eccentrici, apocalittici, pop
Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani.
La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.
Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.
L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason.
Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù.
Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue operesi possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd.
Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.
Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione.
L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.
Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.
Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop Surrealism, Nicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.
Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro.
Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.
Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore. El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso.
Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.
Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.
Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità.
Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.
[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.
[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.
[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.
[4]Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.
La pittura è una “tecnologia”. La parola deriva dalla combinazione di due termini del greco antico, techne (arte, abilità) e loghía (discorso, spiegazione), che insieme significano “trattazione sistematica su un’arte”. Nella concezione classica non c’è distinzione tra arte e tecnica. Entrambe comprendono ogni prodotto dell’abilità umana, si tratti di pittura, scultura, architettura o di qualsiasi altro manufatto e utensile la cui costruzione richieda una conoscenza pratica. Più tardi, nella cultura romana, venne introdotto il concetto di Ars, ma anche in questo caso con l’accezione di “abilità”, cui doveva aggiungersi un aggettivo che ne specificasse il campo: Ars poetica (la poesia), Ars amandi (l’arte amatoria), Ars venandi (la caccia) e così via. Fu nel XVII secolo che lo studioso fiorentino Filippo Baldinucci scrisse, per la prima volta, delle “arti belle dove s’adopera il disegno” riferendosi alla pittura, scultura e architettura. Oggi, alla luce dell’esplosione dell’arte digitale, della crypto art, degli NFT, mentre assistiamo all’esponenziale ampliamento delle possibilità espressive nel campo delle arti visive, ci viene spontaneo recuperare l’antica definizione dei greci. Arte e tecnologia sono intrecciati indissolubilmente nei nuovi linguaggi e non si può essere artisti digitali senza essere anche tecnici che conoscano il funzionamento di software di elaborazione grafica, di animazione, di modellazione 3D e che sappiano agevolmente muoversi tra piattaforme come Rarible, SuperRare o Opensea, che consentono agli utenti di vendere e acquistare NFT (Non Fungible Token) e i diversi social media in cui si approfondiscono temi e argomenti legati all’attuale Rinascimento digitale che promette di ridefinire il concetto stesso di “belle arti”.
L’arte di Giovanni Motta s’inquadra in questo epocale momento di transizione, configurandosi come una pratica, o se preferite una techne, capace di sommare le abilità tecnologiche della digital art con quelle artigianali della pittura propriamente detta.
Tutte le sue opere nascono in un ambiente digitale, sono, cioè, il prodotto dell’utilizzo di software di elaborazione digitale come Photoshop o Cinema 4D, che successivamente subiscono un ulteriore processo di raffinazione nella dimensione analogica della pittura tradizionale. I suoi lavori possono, quindi, assumere la forma di file Jpeg, Gif o MP4, ma anche avere la consistenza fisica di disegni su carta o di dipinti su tela realizzati manualmente con una precisione quasi maniacale. Questa combinazione di procedure, questa multimedialità, non solo definisce l’estensione del suo campo d’azione ma, corrisponde a una volontà programmatica di rivolgersi a un pubblico ben più ampio di quello convenzionalmente ristretto dell’arte contemporanea. Insomma, Motta vuole trasmettere il suo messaggio visivo a una platea virtualmente molto più estesa, che include il pubblico dei Baby Boomer e della Generazione X, dei Millennial e della Generazione Z.
Message
Il tema, cioè il contenuto, delle immagini create da Giovanni Motta, è tanto semplice quanto potente: la ricoperta del bambino interiore, la trasmissione di una potenzialità energetica e vitale che risiede nella memoria di ogni individuo. Il bambino interiore è un elemento primordiale della personalità che deve essere recuperato nella vita adulta, un serbatoio pulsionale, emozionale, profondamente vitalistico che ha tutte le qualità dell’archetipo.
Carl Gustav Jung lo chiamava puer aeternus, l’essere incontrollabile, caotico, passionale, dominato dalle emozioni. Insomma, per dirla con Friedrich Nietzsche, l’incarnazione del principio dionisiaco, orgiastico, furioso che si identifica con gli stati di esaltazione ed ebbrezza spirituale e fisica. La sua ombra, il suo negativo è il senex, l’uomo maturo, disciplinato, controllato, razionale, obbediente al principio apollineo, espressione dei concetti di armonia, ordine, proporzione. L’immaginario pittorico, ma anche esistenziale, di Giovanni Motta è la traduzione visiva di questa strenua volontà di reintegrazione del bambino interiore nella dimensione quotidiana. Reintegrazione condotta attraverso il recupero mnemonico e iconografico di una congerie di segni e simboli transazionali, che catapultano l’osservatore nel meraviglioso caos emozionale dell’infanzia e della pubertà.
Appartenendo alla cosiddetta Generazione X ed essendo cresciuto, dunque, negli anni Ottanta, non stupisce che i segni e i codici dell’età evolutiva assumano, per lui, la forma di oggetti riconducibili a quel decennio. I manga e gli anime giapponesi, i cartoni animati americani e i primi videogame, la tecnologia user-friendly delle origini, con quel misto di semplicità e candore, e tutto il catalogo merceologico del consumismo degli Eighties compaiono all’interno dei suoi dipinti come epifenomeni, rivelazioni che corrispondono a stati d’animo perduti tra i meandri della memoria, rimossi dagli strati coscienziali della vita adulta.
Fruit Ninja, 2021, acrilico su tela, 140×120 cm
La personificazione del puer aeternus di Giovanni Motta è Jonny, un bambino che sembra uscito dalla matita di un mangaka, la cui morfologia anatomica è quella tipica dell’individuo in crescita, col corpo minuto e la testa ipertrofica. Jonny è la controfigura infantilizzata dell’artista, l’avatar puberale, il fantasma interiore, la conformazione estetica di una proiezione inconscia, ma è anche, per estensione, un segnale, un simbolo che indica un’assenza, che sottolinea il vulnus, la ferita, lo squarcio che dilania l’esistenza dell’uomo adattato e uniformato.
Motta usa Jonny come monito per sé stesso e per gli altri, ma anche come dimostrazione empirica che la guarigione, quella di tutti, è possibile attraverso la riscoperta e il recupero di questa entità imperitura, che ci libera dal tempo e dalla senescenza.
Ad eccezione del dipinto, intitolato To be continued, in cui la figura del bambino è resa con un linguaggio mimetico e realista, le tele dell’artista mostrano Jonny come una sorta di costrutto astratto, come un’identità sintetica, generica, ma pur sempre customizzabile, progettata per assumere multiformi aspetti. Nei quadri di Giovanni Motta Jonny è un’entità sospesa, fluttuante, instabile, che trascina nel suo vortice una pletora di oggetti, complementi o appendici della sua personalità che ne rivelano gusti e passioni, desideri e aspirazioni. Jonny non tocca mai terra, vola, come i cowboy virtuali della mitologia cyberpunk di William Gibson, come l’altro Johnny, il Mnemonico[1], ma il suo scopo non è quello di infrangere lo strapotere delle multinazionali, ma di perpetuare la dimensione del gioco o, meglio, l’esperienza entusiastica del piacere, sia esso legato a un oggetto, un cibo, un giocattolo, un personaggio dei videogame. Anche “entusiasmo” è una parola che deriva dal greco antico (enthusiasmós), che significa “Dio dentro di sé”, “invasamento divino”. Non indica un semplice stato d’animo, un afflato di partecipazione emotiva, ma una forza attiva, travolgente, ilare, contagiosa, che, insomma, ci permette superare ogni ostacolo e di realizzare i propri sogni. Motta cerca l’enthusiasmós che anima il bambino interiore, gli dà corpo, sostanza pittorica e plastica, semplicemente perché le immagini sono potenti attrattori, mille volte più efficaci delle parole.
Forgetting, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm
Process
Tutta l’arte si fonda sulle idee, le matrici di ogni forma, le stringhe di codice che programmano la realtà tangibile e intangibile delle opere. Ma le idee non sono concetti. Non sono nemmeno parole. Sono immagini. Nella procedura creativa di Giovanni Motta, la memoria è il serbatoio da cui affiorano visioni sinestetiche, forme associate a contenuti tattili, olfattivi, emotivi. Questo tipo di immagini non si trovano su google, ma nei recessi profondi del subconscio. All’origine dei lavori dell’artista c’è, dunque, un particolare modo di raccogliere le informazioni, una metodologia di scandaglio interiore che è, essa stessa, una forma di tecnologia, un sofisticato strumento contemplativo chiamato meditazione. Motta usa la tecnica della meditazione regressiva per “tornare a vite precedenti” e “raccogliere e circoscrivere singoli eventi del periodo della pubertà”. Gli oggetti, i colori, le atmosfere presenti nei suoi dipinti sono informazioni derivate dalle sessioni meditative. Ricordi, impressioni, sensazioni, annotati sotto forma di appunti e bozzetti, costituiscono, dunque, il materiale primario per la costruzione dell’opera.
In tutti i processi di regressione che sono all’origine di questi lavori di Motta, sono tre gli elementi ricorrenti: i videogame, i cartoni animati e l’estate, tutti riconducibili a esperienze di gioia, piacere, divertimento. “Mi sono accorto”, confessa l’artista, “che tutti i miei viaggi nel tempo riguardavano un bambino che voleva giocare e non voleva fermarsi, ma, come si sa, tutti i giochi finiscono.” Sfruttando questa capacità di retrospezione, l’artista cerca di risolvere il problema di come recuperare alla vita adulta l’entusiasmo del bambino interiore, la sua naturale propensione al godimento.
La sua arte – pazientemente costruita con l’uso di software e poi declinata nei linguaggi della pittura o della scultura – ruota ossessivamente attorno a questo tema. Motta usa icone dell’immaginario videoludico (da Mario Bros a Pac-Man), richiami ai giocattoli vintage (dai soldatini ai Lego, dal cubo di Rubik ai dinosauri di plastica) allusioni ai cibi che piacciono ai bambini (dalla torta agli hamburger, dalle caramelle alle bevande gassate), per rappresentare quegli oggetti del desiderio che simbolizzano il Principio di piacere Freudiano (Lustprinzip)[2], cioè l’istintiva ricerca di appagamento che domina l’esperienza infantile. Produrre immagini digitali è una condizione necessaria ma non sufficiente del suo processo creativo. Le immagini devono anche tradursi in oggetti tangibili, in dipinti e sculture che amplificano il piacere e il godimento dell’osservatore attraverso l’evidenza sensibile e percettiva. Si può, tuttavia, interpretare tale attitudine come l’espressione della volontà di riconnettersi alla grande Storia dell’arte e alla pratica creativa nella sua dimensione squisitamente artigianale.
Jonny & Sam, 2021, acrilico su tela, 140 cm x 120 cm
Outro
In tutti i dipinti di Giovanni Motta l’enthusiasmós è codificato nella forma della metafora videoludica. La condizione del giocatore, estraniato dalla realtà quotidiana, è rappresentata attraverso l’immagine della fluttuazione di Jonny. La sua pneumatica sospensione simbolizza il flusso dinamico del gioco, una dimensione di dilatazione sensoriale in cui la percezione del tempo è alterata da massicce dosi di endorfina che riducono i livelli di stress, ansia e irritabilità. Secondo Matteo Bittanti, uno dei massimi esperti di Digital Game Culture, “Il videogame è una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea”[3]. Ma per Giovanni Motta il videogame è – come i giocattoli, i cibi e i beni di consumo -, soltanto un simbolo. Quel che conta è lo stato d’animo del giocatore, quella sensazione di “divino invasamento” che accompagna i momenti di euforia e di stupore della fanciullezza, un patrimonio emozionale che sembra destinato a sbiadire nel tempo. In un certo senso, i dipinti dell’artista, e specialmente quelli più narrativi come Huge me, Jonny & Sam o Fruit Ninja, sono dei dispositivi visuali di intensificazione vitale. Essi si collocano in una posizione antitetica rispetto al genere delle Vanitas, le nature morte che alludevano alla condizione effimera dell’esistenza interpretando il memento mori dei frati trappisti, con immagini di allegoriche. I Memento vivere di Giovanni Motta sono come l’ultimo gettone nella tasca di un bambino, quando compare sullo schermo la scritta Game Over. Insert coin to continue… La moneta che ti serve per fare un’altra partita. O un altro giro di giostra nel luna park della vita.
[1] William Gibson, Johnny Mnemonic, in Bunring Chrome, 1986, Arbor House, New York.
Giovanni Motta – GAME OVER play again? a cura di Ivan Quaroni Gallery Func No.13, Lane 182 Fumin Road, Jingan District, Shanghai, China Opening: Domenica 18 Aprile 2021 Durata: 24 Aprile – 6 Giugno 2021 Riferimento: Ric Liu
Per ulteriori informazioni: info@giovannimotta.it ric@galleryfunc.com Elena Stizzoli – assistente personale Giovanni Motta – Tel. +39 340 1295227 elena@giovannimotta.it Sito web: http://www.giovannimotta.it
In molti sostengono che d’ora in avanti cambierà tutto, che la relazione tra esseri viventi, come pure il rapporto con i luoghi (abitativi, scolastici, didattici, amministrativi, commerciali e d’intrattenimento) subiranno profonde modifiche. È vero, infatti, che a causa della pandemia del Covid-19 stiamo sperimentando una radicale alterazione delle nostre abitudini. In particolare, il lockdown, cioè la forzata (e dovuta) reclusione domestica dei primi mesi del 2020, ci ha obbligato a riconsiderare la natura progettuale del nostro rapporto col mondo. O meglio, ci ha costretto a riprogrammare e rinegoziare il nostro posto nello spazio naturale e urbano. Città e borghi improvvisamente silenti – incredibilmente simili alle Piazze d’Italia di De Chirico – ci hanno mostrato una realtà davvero inedita, una visione di come potrebbe essere la Terra alla fine dell’antropocene. A mutare, però, non è stato solo il panorama esteriore, restituito, obtorto collo, alle forze della natura, ma anche il landscape interiore ed emotivo di tutti noi. Ogni individuo, adattandosi all’emergenza del momento, è stato condotto a ridurre il proprio raggio d’azione, tracciando nuovi tragitti e perimetri nello spazio quotidiano e adattandosi alle regole di una socialità sempre più virtuale, ma non per questo meno necessaria. I cambiamenti più profondi, però, sono quelli intervenuti sul piano dell’immaginario sia personale che collettivo, di cui sono stati straordinari interpreti soprattutto gli artisti visivi che, con l’immediatezza delle loro immagini, hanno saputo trasmettere quel che non si poteva con la ragione e con la logica stringente delle parole. I migliori sono stati coloro che, come Giuseppe Veneziano, hanno testimoniato questo momento apicale della storia attraverso la potenza della trasfigurazione, non limitandosi, cioè, a riprodurre in figura i fatti di cronaca, ma spalancando le emozioni del momento sugli abissi della fantasia e dell’immaginazione.
Si è detto e scritto molte volte che Veneziano è artista attento ai fatti di cronaca, talora capace persino di anticipare l’attualità con una qualità di visione quasi profetica. Ciò non significa, però, che la sua pittura sia il prodotto di una semplice osservazione dei fatti. Al contrario, credo che la sua arte germini e fiorisca nel territorio del possibile, dell’ipotetico e, in definitiva, del plausibile proprio perché l’oggetto delle sue fantasie e dei suoi mash-up iconografici è il frutto di un’acuta sensibilità contemporanea. E siccome Mala tempora curruntsed peiora parantur, come ritenevano i latini, non deve stupire se le sue opere contengono talvolta, oltre a una buona dose di ironia, un fondo di amara verità. La profonda differenza tra la pittura di Veneziano e quella di artisti che, almeno apparentemente, sembrano usare analoghe grammatiche pop, sta proprio in questa capacità di filtrare il sentimento del proprio tempo, lo zeitgeist, con quel mix di fantasia, cultura e sensibilità trasformati in linguaggio che purtroppo manca a molti suoi colleghi. Non mi stancherò mai di ripetere, infatti, che l’originalità della sua opera non può essere attribuita alle sole invenzioni iconografiche, cioè ai pur sorprendenti accostamenti visivi coi quali mescola realtà e finzione, cronaca e storia, sesso e politica, sacro e profano, e che piacciono tanto al pubblico generalista quanto a quello di appassionati e connoisseur del mondo dell’arte. A dare sostanza e originalità al suo fulminante armamentario inventivo è soprattutto il suo lessico visivo, pazientemente affinato in una sintesi lineare che crea i volumi per netti accostamenti di tono e maturato nella distillazione di una personalissima gamma cromatica.
Come spiego spesso a fan e detrattori della sua opera, nel suo caso la semplicità e l’accessibilità sono il frutto di una riduzione della complessità (di riferimenti, citazioni e possibilità interpretative). Come diceva Charles Bukowski, “il segreto, la verità profonda, per far qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta [appunto] nella semplicità”. Una verità che riecheggia anche nel Calvino delle Lezioni Americane, quando afferma – con una sentenza che sembra descrivere perfettamente il metodo creativo di Veneziano – che la fantasia “è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli e divertenti”. Quanto allo stile, per usare un concetto desueto, ormai sparito dalla sintassi della critica contemporanea, non c’è dubbio che quello di Veneziano sia inconfondibile e che non ci sia possibilità di scambiarlo con quello di altri artisti. Il suo modo di disegnare le figure e i suoi colori – i viola e gli azzurri inimitabili e i gialli e i rossi accesi che rimandano alla sua amata Sicilia -, non lasciano spazio a equivoci o incertezze. Personalmente, se non fosse paradossale affermarlo, saprei riconoscere un Veneziano a occhi chiusi. Ed è qualcosa che inconsciamente avverte anche chi non è un esperto di cose d’arte.
Con questi strumenti, che sono poi quelli di sempre, è riuscito a sviluppare gli anticorpi creativi alla reclusione collettiva e al distanziamento sociale, ispirandosi, ancora una volta, al mondo dei supereroi e alla Storia dell’arte, per capire a fondo il senso di un cambiamento epocale che ci obbliga a rileggere non solo il passato e il presente, ma anche a interpretare il futuro. Con spirito satirico e sognante, infatti, l’artista ha immaginato come avrebbero affrontato questo delicato momento personaggi come Spiderman e Wonder Woman, Superman e Jocker, ma anche come sarebbe mutata, retroattivamente, l’iconografia del Rinascimento se i grandi pittori del Quattrocento e Cinquecento avessero vissuto l’esperienza del Covid-19. Attraverso gli eroi in calzamaglia e i santi e martiri della tradizione cristiana, Veneziano ha impaginato il racconto di una parabola collettiva in cui trovano posto non solo la paura e la sofferenza che hanno segnato i giorni più bui della pandemia, ma anche le speranze e i sogni per il mondo che verrà. Lo ha fatto, peraltro, collegandosi ogni giorno sui socialper mostrare in diretta come nasce il suo lavoro e in che modo, nel passaggio dal disegno all’acquarello fino alla tela finita, si dispiegano le varie tappe di un processo creativo a lenta decantazione.
Frutto dell’esperienza di una quotidianità claustrale che ha acutizzato la capacità di concentrazione e contemplazione sono molte delle opere di questa mostra: dal San Sebastiano a La Venere della mascherina (entrambi ispirati da Tiziano), dal leonardesco Corona mundi ai raffaelleschi La Madonna della sanificazione e San Donald e il Virus, fino a La nascita della mascherina, ironica reinterpretazione della Creazione di Adamo della volta Sistina. Sono dipinti che connettono la percezione drammatica (e mediatica) dei giorni del lockdown con una comprensibile e necessaria voglia d’evasione e leggerezza, e coi quali Veneziano perpetua il suo programma di riconnessione con le radici auliche dell’arte rinascimentale. Un patrimonio, da troppi ignorato, sui quali fondare il senso di una moderna sensibilità pittorica, intimamente latina e mediterranea ma, allo stesso tempo, aperta al lessico globalista delle immagini pop. In tal senso, i supereroi possono essere considerati la naturale evoluzione degli eroi del mito classico o dei paladini dei romanzi cavallereschi. L’unica differenza, come scriveva Ardengo Soffici nel suo Giornale di bordo pubblicato sulla rivista Lacerba, è che “L’eroe antico era quello che affrontava la morte: l’eroe moderno è colui che accetta la vita”.
E, infatti, i supereroi di Veneziano si trovano alle prese con problemi reali, talvolta persino prosaici. Non sono gloriosamente martirizzati come San Sebastiano, né combattono valorosamente contro “il male” come il Trump di San Donald e il Virus e nemmeno rifulgono della sacra aura del Cristo di Corona mundi, della materna grazia della Madonna della Mascherina o della sensuale bellezza della Venere della mascherina. Piuttosto, sono la variante kitsch e camp delle persone comuni, di cui condividono uguali passioni e sentimenti. Ecco allora che la solitudine del supereroe moderno nell’era della reclusione forzata si traduce, nelle tele e nelle carte di Veneziano, in un catalogo di emozioni talvolta pedestri, che spaziano dall’estasi autoerotica dell’amazzone di Themyscira (Wonder Woman’s Intimacy) al desolato avvilimento precoitale di Spiderman (Default), dalla rabbiosa goffaggine di Superman (Collateral Effects) alla malinconia esistenziale della nemesi del Cavaliere oscuro (Jocker’s Lockdown). Eppure, l’intento dell’artista non è di smitizzare santi, martiri e supereroi per puro gusto dello sberleffo, ma umanizzarli per rendere più efficace e accessibile il loro valore simbolico. Un valore che non riguarda la forza o l’invulnerabilità, ma semmai il coraggio. Una qualità che è servita a tutti noi per superare i momenti di crisi e che Veneziano ha saputo raccontare con quello spirito ironico e lieve e quella disarmante empatia che fanno di lui il più umano degli artisti.
Secoli fa la nostalgia era considerata una malattia. Ne soffrivano i mercenari svizzeri stanziati in Europa durante il Seicento, che esprimevano la propria malinconia per la terra d’origine con una melodia – il Ranz des vaches cantato dai mandriani sulle Alpi – talmente dolce e straziante da essere proibita, pena la morte. Il termine appare per la prima volta proprio nel XVII secolo ad opera di un giovane medico, Johannes Hofer, che nella sua tesi di laurea, intitolata Dissertatio medica de nostalgia, individuava le cause fisiche e materiali di questo doloroso desiderio di tornare in patria non solo nel cambiamento di abitudini, aria, cibo, usi e costumi, ma anche in una precisa sintomatologia: l’immaginazione turbata, la tristezza, il pianto e addirittura la febbre. Questo neologismo, derivato dalla crasi delle parole greche Nóstos (ritorno) e Álgos (sofferenza), definisce il tormento provocato da un inappagato desiderio di ritorno ai luoghi natii. E, in tal senso, l’Odissea è il perfetto poema epico della nostalgia, il meraviglioso racconto dell’accidentato viaggio di Ulisse verso Itaca.
Giovanni Motta, Nostalgia, 2020, installazione, neon e legno
Progressivamente, nel corso del tempo, la nozione di nostalgia è cambiata e alla sua accezione geografica e spaziale se ne sono aggiunte di nuove: la nostalgia del tempo perduto di proustiana memoria e quella per una persona assente o lontana o perfino per un’immagine o un oggetto. L’originaria malattia dei mercenari svizzeri è diventata uno stato d’animo, una condizione esistenziale che è parte del nostro immaginario culturale e sociale. Esistono, però, due tipi di nostalgia secondo l’antropologo Vito Teti, una patologica e una creativa. La prima, di stampo regressivo, vorrebbe tornare al passato e alla tradizione, cristallizzando il tempo in un algido rigor mortis; la seconda, di tipo critico e riflessivo, desidera recuperare tutto ciò che è utile – percorsi, esperienze, deviazioni – per rigenerare il presente e liberare un nuovo potenziale sovversivo.
Giovanni Motta, Wonder, 2020, tecnica mista su tela, 120×100 cm
È di questo tipo il sentimento che muove, come un impulso rigenerativo, tutta la ricerca estetica di Giovanni Motta e a cui, non a caso, l’artista dedica un lavoro installativo – la grande insegna al neon con la scritta “Nostalgia” – che è un richiamo alle tanto amate atmosfere degli anni Ottanta (quelle, per intenderci, prepotentemente tornate in auge grazie alla serie Stranger Things), ma anche un pungolo all’analisi critica di un sentimento che, attraverso i film, la musica, la moda, è diventato oggi condiviso e formalizzato, e dunque, inevitabilmente, deteriore.
Il confine tra una nostalgia positiva e una negativa è, infatti, quanto mai labile, pericolosamente in bilico tra un quiescente ripiegamento verso tutto ciò che è già noto e un vigile desiderio di recuperare le energie inespresse e i possibili sviluppi dei sentieri della Storia. Ma per Giovanni Motta la questione della nostalgia è solo in senso lato una faccenda che impatta sul tessuto sociale. Piuttosto, per usare le parole dello scrittore Roberto Cotroneo, “è una forma per preservare l’identità psichica, tenerla unita, come una fascia che impedisce al proprio io di disgregarsi.” Le sue incursioni nell’immaginario infantile dei manga e dei cartoni animati servono ad agganciare sensazioni, stati d’animo e illuminazioni che innescano un diverso modo d’interpretare e vivere la realtà odierna. Con le sculture e i quadri popolati di eroi bambini e di prodigiosi mostriciattoli che, insieme ai colori forti, amplificano l’intensità emozionale delle sue storie, Motta non racconta solo la nostalgia di un decennio che è rimasto impresso, come un tatuaggio dell’anima, nella generazione X, ma indaga soprattutto il tempo magmatico ed incandescente della propria formazione emotiva e spirituale (e, per estensione, della formazione di tutti, inclusi quelli che oggi chiamiamo Millennials e che stanno attraversando, forse inconsapevoli, le tempestose acque dell’infanzia e dell’adolescenza).
Il suo sforzo individuale di recuperare la purezza, il vigore e la terribile vemenza delle epifanie vissute nella primavera della vita è a beneficio di tutti. Non solo perché indica una via nuova alla rilettura del passato che scarta il rimpianto esistenziale e ogni facile ripiegamento retrospettivo, ma perché dimostra, con la persuasione e la potenza delle immagini, che la magia, il coraggio, lo stupore e l’eroismo, a volte folle, dei bambini sono risorse inespresse dell’adulto di oggi. Al diavolo, dunque, la sindrome di Peter Pan tanto sbandierata dalla sociologia odierna! Se restare bambini significa tornare ad essere eroi (di noi stessi) con quello slancio pop e vitalistico di cui parla Franco Bolelli, cioè Con il cuore e con le palle (Garzanti, 2005), allora ne vale la pena! Proprio lui, l’eretico filosofo nietzschiano contemporaneo, scrive, infatti, che “l’essenza stessa dell’evoluzione è e non può che essere adolescenziale, quando avanza con i suoi nuovi passi, quando si lascia sospingere e attraversare dall’innovazione e dall’energia.”[1]
Giovanni Motta, Everyone with me, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm
Per questo Giovanni Motta fa coincidere sul piano estetico e linguistico l’epos dei cartoon e degli anime giapponesi con il suo personale bagaglio di esperienze e memorie puberali. Su di lui – come su molti di noi – i cartoni hanno avuto lo stesso impatto delle favole e dei racconti mitologici sui nostri avi. Altrettanto epiche e paradossali, magiche e inverosimili, sono le storie visive della nostra formazione, dipanatesi nei lunghi pomeriggi passati davanti al tubo catodico, dove abbiamo costruito, volenti o nolenti, i fondamenti della nostra weltanschauung e gettato le basi della nostra conoscenza della vita e del mondo.
Nell’immaginazione plastica e pittorica di Motta il vissuto reale s’intreccia e si confonde con le memorie visive dei cartoni animati, grazie a una grammatica che sembra allontanarsi sempre di più dai codici del superflat nipponico per trovare una propria originale formula espressiva, meno freddamente rifinita e più calda e pastosa. Come ai suoi esordi, Motta mescola ancora la pratica artigianale della pittura con le inserzioni serigrafiche, contamina l’arte di plasmare le forme con le più recenti tecniche di stampa tridimensionale, quasi infiammato da una furia sperimentale che sfrutta tutte le potenzialità della tecnologia senza mai scadere in una supervalutazione dei mezzi e degli strumenti. Perché, nel suo caso, il medium non coincide mai col messaggio, ma il suo stile formale, cioè il suo linguaggio visivo, è un elemento essenziale del suo storytelling.
Giovanni Motta, Lady, Lady, Lady, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm,
Ci sono due aspetti complementari nell’arte di Giovanni Motta, quello pittorico e disegnativo e quello plastico e scultoreo, che enucleano due diversi momenti della sua indagine: uno caotico, esplosivo e partecipe che si riflette nelle affollatissime composizioni delle sue tele e delle sue carte, dove il dinamismo dello slancio, dell’impeto e del turbinio dell’azione dominano il racconto; l’altro icastico, contemplativo, aurorale che emana dalle sculture di medie e grandi dimensioni che invitano lo spettatore a un confronto più intimo e meditato con le immagini. Sono i due tempi di uno stesso respiro, le aritmie di un unico battito cardiaco, le contrazioni e distensioni del medesimo muscolo creativo che variano il ritmo della narrazione.
I dipinti di Motta ci trascinano di getto al centro della storia, nel mezzo di un’azione che, con la forza centripeta di un ciclone, sconquassa luoghi, cose e persone. Il nostro occhio è forzato a immedesimarsi con gli eroi bambini e le loro schiere di mostri, ad adottare una visione in soggettiva degli eventi, quasi senza poter opporre resistenza. Diventiamo parte di quello sturm un drang emotivo, fatto di passioni e entusiasmi eroici che l’allegoria della lotta e del conflitto illustrano così sapientemente. Mentre guardiamo, siamo la furia rabbiosa in Lady, Lady, Lady, dove il bambino con la maschera da lupo lotta per liberarsi da tentacolari spire vegetali, oppure ci immedesimiamo con lo sconsiderato ardimento dei ragazzi che si gettano nella fossa delle tigri in Orphans; siamo il risoluto coraggio del guerriero che corre incontro alla battaglia in Thankse in Everyone With Me, ma anche la concentrazione massima di un pensiero fluttuante, come il bambino di Wonder che brilla di quell’energia potenziale in procinto di esplodere in un atto risolutivo.
Giovanni Motta, Orphans, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm,
Tutte queste emozioni precipitano al centro delle tele di Giovanni Motta, magneticamente attratte da un fuoco prospettico che coincide, sempre, con l’immagine di Johnny Boy, il bambino allegorico, la metafora animata del vulcanico magma viscerale non solo dell’infanzia, ma di tutte le infanzie. Un espediente che l’artista usa per ricordarci quel che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare, se vogliamo ritornare a sentire la magia dell’esperienza vitale. Le sue storie hanno sempre del miracoloso e usano i registri dello straordinario, dell’eclatante e del sorprendente perché la vitalità e l’entusiasmo non conoscono limiti e restrizioni (e non osservano le regole del bon ton!).
Paradossalmente, nelle sue sculture, la capacità di coinvolgere lo sguardo diventa più sottile e persuasiva rispetto ai dipinti. Lo spettatore recupera il senso di unità soggettiva e percepisce l’oggetto tridimensionale, una delle numerose variazioni di Johnny Boy, come altro da sé, un corpo immobile nello spazio che gli consente un approccio apparentemente più analitico. I tempi di fruizione si allungano, la contemplazione si dilata e si fraziona. Nel muoversi attorno alla forma plastica, l’osservatore adotta molteplici punti di vista, non riesce, cioè, a risolvere la complessità delle forme di un oggetto solido così come risolve otticamente lo spazio illusorio di un’immagine dipinta. Motta conta su questa complessità per irretire l’osservatore in una trama più complessa, in un gioco che più quietamente innesca i meccanismi identificativi. L’immagine è fissa, statica, come una fotografia solidificata nella terza dimensione e il personaggio – uno solo questa volta – concentra su di sé tutte le possibili narrazioni.
Giovanni Motta, Joe, 2020, resina stratificata, resina, creta, acrilico, legno,60x26x26 cm ,
Lo storytelling, così evidente nei dipinti, si trasferisce ora alla mente dello spettatore. Johnny Boy è la porta d’ingresso dei suoi circuiti proiettivi, proprio come i simboli in pietra scolpiti sui portali delle chiese romaniche e gotiche. La funzione del simbolo è di riunire cose diverse, di mettere insieme pensieri, esperienze, sentimenti e significati contrastanti, di essere, appunto, come una porta che conduce a differenti luoghi o come una chiave che apre diverse porte. Johnny Boy, in tutte le sue numerose incarnazioni, non è mai il latore di un messaggio predefinito, ma l’interruttore che accende la pletora di ricordi e impressioni che riposano nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Il suo scopo è risvegliare qualcosa che credevamo sepolto nelle macerie della memoria non per crogiolarsi in un malinconico rimpianto, ma perché possa servirci ora ad affrontare il presente. La nostalgia, così come la intende Giovanni Motta, e come la intendo io, è uno strumento di conoscenza, un tool. Qualcosa che può addirittura assumere le sembianze di un QR Code che ci rimanda alla voce di un bambino mentre recita una poesia imparata a memoria, spalancando, così, dentro di noi un nuovo giacimento di emozioni dimenticate.
[1] Franco Bolelli, Cartesio non balla. Garzanti, 2007, Milano, p.22.
Giovanni Motta, Thanks, 2020, tecnica mista su tela, 140×100 cm
INFO:
Giovanni Motta – THANKS a cura di Ivan Quaroni
Galleria Doppia V via Moncucco, 3 – 6900 Lugano – Svizzera Opening: Venerdi 11 Settembre h. 18.00 Durata: 11 settembre – 9 ottobre 2020 Orari: dal Martedi al Venerdi, dalle ore 9.00 alle 12.00 / dalle 14.30 alle 17.00; Sabato su appuntamento
Catalogo disponibile in galleria: stampato da Grafiche Aurora, Verona
Galleria Doppia V Via Moncucco 3, 6900 Lugano, Svizzera Riferimento: Eugenia Walter Tel. +41 091 966 0894 info@galleriadoppiav.com
“È vero, la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità.”
(Lucio Anneo Seneca)
Ho incontrato Giuseppe Veneziano la prima volta durante l’inaugurazione di una mostra alla galleria di Antonio Colombo a Milano. Della mostra non mi ricordo, ma di lui si. Cercava un curatore per la sua personale da Luciano Inga Pin, il gallerista che in Italia aveva lanciato Gina Pane e Marina Abramovic, e così mi chiese se ero interessato alla cosa. Non avevo idea di chi fosse, anche se avrei dovuto sapere che una sua opera, qualche tempo prima, aveva guadagnato la copertina di Flash Art con l’immagine di Maurizio Cattelan impiccato. Quella copertina era una specie di contrappasso per l’artista che nel 2004 aveva appeso tre bambini-fantoccio sull’albero di Piazza XXIV maggio a Milano. Il ritratto era parte di una serie di dipinti che raffiguravano personaggi controversi come Osama Bin Laden e lo scrittore Andrea G. Pinketts, che l’artista aveva esposto sulla facciata del famoso Le Trottoir, storico covo di bohémien e aspiranti artisti e scrittori.
Quella sera di dicembre del 2005, accettai l’incarico, scoprendo poi che qualche minuto prima aveva chiesto la stessa cosa a una mia collega. Così, ci ritrovammo in due a curare quella che fu la sua prima e famigerata mostra in una galleria milanese: American Beauty. Posso dire di aver iniziato a capire chi fosse Giuseppe Veneziano solo dopo, quando andai a trovarlo in uno scialbo studio alla periferia di Milano. Dei suoi quadri mi era piaciuto subito lo stile semplice e immediato, pieno di riferimenti alla cultura pop e ai fumetti e il modo in cui dipingeva personaggi riconoscibili che appartenevano all’immaginario di massa.
American Beauty fu una bomba lanciata sul pruriginoso e benpensante mondo dell’arte contemporanea, ma non solo. La mostra fu accompagnata da uno stuolo di polemiche e contestazioni generate da un’opera in particolare: il grande ritratto di Oriana Fallaci decapitata intitolato Occidente, Occidente. La scrittrice non la prese bene e si scagliò contro l’artista sulle pagine del Corriere della Sera, di Libero e perfino del New Yorker e al dibattito parteciparono anche il Premio Nobel Dario Fò, i critici d’arte Philippe Daverio e Flavio Caroli e il fotografo Oliviero Toscani. Ci fu addirittura una manifestazione di protesta dell’associazione Sos Italia davanti alla sede della galleria in via Pontaccio. Per la stampa fu una benedizione. Le principali testate giornalistiche si gettarono sulla notizia, strumentalizzando l’opera di Veneziano per fomentare lo scandalo. In pochi ebbero l’intelligenza di capire che l’artista non voleva augurare la morte a Oriana Fallaci, ma far riflettere il pubblico sulle paure che il mondo occidentale nutriva verso il fondamentalismo islamico. American Beauty, tra l’altro, era anche il titolo di una serie di tele che rappresentavano le torture dei soldati americani sui detenuti iracheni nella prigione di Abu Ghraib. A queste si aggiungevano opere come Zio Sam, Statua della Libertà e 9/11, che registravano il generale clima di rabbia e terrore che esacerbava gli animi della società americana ed europea. In molti pensarono che l’artista fosse un provocatore e che lo scandalo fosse stato architettato ad arte per ottenere la massima esposizione mediatica. Veneziano, invece, si era limitato a fare quel che aveva sempre fatto: osservare la società in modo critico e mettere in dubbio ogni forma di verità precostituita. D’altra parte, si era fatto le ossa come vignettista del Giornale di Sicilia ed era abituato a commentare i fatti di cronaca con ironia e distacco. La politica, il sesso, la religione erano stati, fin dall’inizio, i temi della sua pittura, insieme alla tendenza a mescolare personaggi reali e fittizi per dimostrare quanto fosse labile il confine tra verità e fantasia. La sua intenzione era sempre stata quella di suscitare, attraverso le sue opere, un dibattito, cioè facendo discutere il pubblico e incoraggiandolo a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della realtà.
Forse per questo è spesso stato definito come una sorta di “cronista dell’arte”. Anche se in Veneziano c’è molto di più. Ci sono, per esempio, le sue passioni culturali, musicali, letterarie e cinematografiche. C’è il fumetto d’autore che, ben prima di laurearsi in Architettura a Palermo, aveva sorretto le sue ambizioni di disegnatore. Le storie di Manara, Crepax, Giardino, Liberatore, ma soprattutto di quel geniaccio di Pazienza avevano nutrito l’immaginario di Veneziano per tutti gli anni della sua formazione, plasmando in lui l’idea che l’arte sarebbe stata la sua strada. Infatti, dopo l’apprendistato dall’architetto Glauco Gresleri a Bologna e l’avviamento di un proprio studio in Sicilia, Veneziano aveva deciso di cambiare rotta e tentare la fortuna come artista a Milano.
Self-Portrait, la seconda mostra di Giuseppe Veneziano, si presentava come un riassunto della sua Bildung culturale, un autoritratto attraverso le passioni giovanili che, implicitamente, faceva l’occhiolino a Prolisseide. Tutti gli uomini importanti che mi hanno conosciuto di Andrea Pazienza. La mostra raccoglieva una serie di ritratti di personaggi illustri che avevano avuto un ruolo nella sua formazione. Sulla scorta di uno scritto autobiografico – intitolato Dalle seghe all’arte – Veneziano celebrava la propria mitografia adolescenziale con l’espediente del ritratto in absentia, un po’ come aveva fatto Giuseppe Pontiggia nel romanzo La grande sera, fornendo uno spaccato di cultura generazionale come non se ne vedeva dai tempi del Weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli.
Veneziano sceglieva “di dipingere con il suo stile piatto e ostentatamente pop, personaggi riconoscibili alla stragrande maggioranza delle persone (o quasi), in modo da instaurare, fin da subito, un rapporto immediato con gli spettatori” e, allo stesso tempo, aveva “il coraggio di mescolare il sacro col profano, affiancando figure di intellettuali mitici come Baudelaire e Dalì con personaggi del più puro trash mass-mediatico quali Rambo e Cicciolina”. [1] Curiosamente, l’artista partiva dalle proprie esperienze, dai propri gusti e passioni, ma approdava inevitabilmente alla dimensione collettiva, sociale, politica o mediatica che fosse.
Con l’intensificarsi dei nostri rapporti, aumentarono le nostre comuni occasioni espositive. Il 2007 fu l’anno della mostra Rivoluzione d’Agosto in cui appariva chiaro che i suoi interessi iconografici includevano anche la storia in generale e la storia dell’arte in particolare. Il Secolo breve, con i suoi dittatori, iniziava a diventare un tema ricorrente nella sua pittura. I grandi leader comunisti, come Lenin, Stalin e Che Guevara, così come i simboli delle dittature fasciste e naziste, comparivano accanto ai feticci della società dei consumi. Mao, il grande timoniere, vestiva occhiali Dolce & Gabbana, Che Guevara diventava un eroe psichedelico, mentre Stalin diventava una ieratica icona ortodossa. Con ironia, Veneziano registrava il definitivo passaggio a un’epoca post-ideologica, che diluiva le contrapposizioni politiche del Novecento nel concentrato pop e surreale della società liquido-moderna teorizzata da Bauman. In fondo, l’artista non faceva che ratificare le previsioni di Lyotard sull’appiattimento tra cultura alta e cultura bassa. Come osservava Luca Beatrice l’anno successivo, in occasione della mostra Pregiudizio Universale, “non è colpa sua se l’arte oggi considera Cattelan un eroe e Beuys un cimelio storico, se la cronaca la spunta sempre sulla politica, se le terze pagine dei giornali raccontano di Paris Hilton, se la storia del ‘900 è diventata una macchietta post-ideologica con i dittatori nel ruolo di capocomici”.[2]
La crasi operata da Veneziano tra realtà e finzione e tra storia e modernità, coinvolgeva anche l’arte antica e moderna in una pletora di dissacranti accostamenti che fondevano Velasquez con Biancaneve, Guido Reni con Maurizio Cattelan, Salvador Dalì con Jessica Rabbit, la Madonna con l’Uomo Ragno. L’associazione tra arte e supereroi non era una novità. Nel 2006, accogliendo il mio invito a partecipare alla mostra Crisis. Il declino del supereroe[3], Veneziano si era cimentato in una nuova interpretazione di Made in Heaven, la conturbante serie di opere di Jeff Koons con Ilona Staller. Per l’occasione, Veneziano aveva sostituito l’artista americano con Spiderman, il più umano dei supereroi della Marvel. Da quel momento in avanti, gli eroi in calzamaglia, sarebbero entrati stabilmente nell’armamentario iconico dell’artista siciliano, integrandosi nel tessuto citazionistico di un linguaggio fatto di colori piatti e tinte zuccherine.
Nelle interviste di quegli anni, l’artista dichiarava spesso che l’opera d’arte non è un oggetto d’arredamento, ma qualcosa che serve a suscitare delle reazioni nello spettatore, generando giudizi contrastanti. Dopo la Fallaci decapitata, un’altra opera era destinata a confermare l’attitudine critica della sua pittura e a validarne la qualità previsionale e profetica. Nel 2009, infatti, Veneziano dipinse uno dei suoi lavori più controversi, Novecento. L’opera, una tela di grandi dimensioni, era una perfetta allegoria dell’eterno rapporto tra sesso e potere e anticipava di un soffio il sexgate che di lì a poco tempo avrebbe travolto il Presidente del Consiglio italiano. Berlusconi vi era rappresentato insieme ai più grandi dittatori della storia (Hitler, Mussolini e Stalin) in un’orgia con la porno star Cicciolina e con un nugolo d’eroine da cartoon come Candy Candy, Eva Kant, Jessica Rabbit e Valentina di Crepax. L’anno dopo, l’opera finì sulla copertina del libro di Paolo Guzzanti, La mignottocrazia. La sera andavamo a ministre (Alberti editore), un saggio sulla storia politica italiana attraverso l’immagine delle donne.
Il 2009 fu un anno cruciale anche per altre ragioni. Prima fra tutte la fondazione di Italian Newbrow, il gruppo di artisti italiani che – con Giuseppe Veneziano – s’impegnava a perseguire, contro tutti i concettualismi e gli snobismi del sistema dell’arte, la linea di una pittura figurativa chiara e comprensibile, che non rinunciava alla possibilità di raccontare storie. Il 14 maggio, il gruppo esordì alla quarta edizione della Biennale di Praga. Alla fine dell anno il gruppo fu esposto in blocco ad Art Verona dalla Galleria Carini & Donatini. In quell’occasione, Veneziano espose uno dei suoi lavori più importanti, La Madonna del Terzo Reich. Il dipinto, una dissacrante rivisitazione della Piccola Madonna Cowper di Raffaello, rappresentava la Vergine con in braccio un piccolo Adolf Hitler. I giornali presero la palla al balzo e scatenarono il solito inferno mediatico. Dopo le proteste del sindaco, del vescovo e della comunità ebraica di Verona, il gallerista si vide costretto a ritirare l’opera. A difesa di Veneziano intervenne solo lo scrittore Aldo Busi, facendosi fotografare con indosso la t-shirt con la riproduzione dell’opera. Lo scandalo di Verona, però, non era che l’antipasto di quanto sarebbe successo dieci mesi dopo a Pietrasanta, durante la prima retrospettiva dedicata all’artista siciliano. La mostra, intitolata Zeitgeist, era suddivisa in sei sezioni che raggruppavano le opere in gruppi tematici: In-Visi (con i ritratti del primo periodo, tra cui quello della Fallaci); Novecento (con l’opera omonima e quelle dedicate a dittatori e personaggi politici); Eretica (con la Madonna del Terzo Reich e tutti i dipinti legati all’icnografia sacra); Il declino del supereroe (con gli eroi in calzamaglia); Modern Love (sull’amore e il sesso); infine Villains (con ritratti dei cattivi dei fumetti). Per il manifesto della mostra, patrocinata dal comune di Pietrasanta negli spazi di Palazzo Panichi, si scelse La Madonna del Terzo Reich. I giornali cannibalizzarono la notizia, sulla scia delle vive proteste del parroco di Pietrasanta, che aveva informato anche il vescovo di Lucca e l’arcivescovo di Pisa. La mostra venne addirittura bandita dalla curia e agli ingressi di tutte le chiese comparve un avviso che invitava i fedeli a non visitare l’esposizione. Ancor prima dell’inaugurazione il clima di tensione era palpabile, tanto che il Comune decise di ritirare il patrocinio della mostra. La sera dell’opening, il 17 luglio 2010, la piazza prospiciente Palazzo Panichi era presidiata da vigili e carabinieri. Il vicequestore e alcuni poliziotti in borghese si mescolarono tra il pubblico dei visitatori per valutare la eventuale chiusura dell’esposizione. Incredibilmente, a salvare la situazione fu la scoperta da parte dell’artista e del vicequestore della comune passione per il fumettista Andrea Pazienza. Quella stessa sera, nella piazza del Duomo di Pietrasanta fu fatto “levitare” Il Cristo dei palloncini, una scultura in poliuretano espanso legata a palloncini gonfiati con elio. Fu la prima opera tridimensionale di Veneziano.
Per tutta la durata della mostra, visitata da quasi diecimila persone, le polemiche non accennarono a sopirsi. Nel dibattito mediatico intervennero anche lo scrittore Andrea G. Pinketts, il giornalista Giampiero Mughini e i critici d’arte Achille Bonito Oliva e Vittorio Sgarbi. Quest’ultimo, allora sindaco di Salemi, decise di ospitare l’intera mostra nella cittadina siciliana. Il vero coup de theatre, però, fu l’acquisto della Madonna del Terzo Reich da parte del gallerista Stefano Contini e il conseguente ingresso dell’artista nella scuderia della sua galleria. Il 28 maggio 2011, infatti, Veneziano inaugurò alla galleria veneziana la mostra La surreale cronistoria del reale, mentre contemporaneamente partecipava alla 54° edizione della Biennale di Venezia. La sua opera, esposta nel Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi e intitolata Solitamente vesto Prada, rappresentava un Cristo crocifisso con underwear griffato Dolce & Gabbana. Il dipinto, peraltro inserito nel catalogo ufficiale della manifestazione, fu notato dai due celebri stilisti che in seguito divennero suoi entusiasti collezionisti e sostenitori. L’anno seguente, nella mostra pubblica del gruppo Italian Newbrow al Fortino di Forte dei Marmi, Veneziano presentò una serie di opere sull’iconografia del male. “Nella sua reiterata e pendolare oscillazione tra realtà e finzione”, annotavo nel catalogo, “la pittura di Giuseppe Veneziano affronta il tema del male sotto il profilo dell’ambiguità e del travestimento”.[4]La maschera delle apparenze, come codice comunicativo che adombra la menzogna e la violenza, era un soggetto centrale di molte sue opere. Faceva parte della mostra anche David’s Renaissance, una monumentale scultura in bronzo dipinto, in cui il tema rinascimentale del David si fondeva con l’iconografia consumistica di Ronald McDonald, clown simbolo di una famosa catena di fast-food. Inutile dire che le polemiche non tardarono ad arrivare, ma questa volta la scultura, posta in una delle piazze più frequentate della cittadina versiliana, attirò soprattutto famiglie e bambini, desiderosi d’immortalarsi davanti alla testa mozzata del celebre pagliaccio. Come spesso avviene con le opere di Veneziano, il pubblico si divise: le autorità e la stampa cavalcarono la polemica, i visitatori e la gente comune si godettero lo spettacolo. La mostra Italian Newbrow. Cattive compagnie, promossa dal Comune di Forte dei Marmi e dalla Fondazione Villa Bertelli, fu una delle più viste nel periodo estivo. Tra i visitatori Vip c’era lo stilista britannico Paul Smith, che s’innamorò delle opere di Veneziano. David’s Renaissance ebbe il merito di catalizzare l’attenzione del pubblico, rafforzando l’idea di un’arte che si rifaceva apertamente ai maestri del passato, pur adattandone i contenuti al contesto attuale. Il Rinascimento è da sempre un modello di riferimento imprescindibile per Giuseppe Veneziano, come testimoniano molte sue opere ispirate a Dürer, Raffaello, Michelangelo, Botticelli o Leonardo. Non è un caso che l’artista abbia spesso parlato della necessità di inaugurare un nuovo Rinascimento dell’arte italiana, capace di recuperare orgogliosamente le proprie origini culturali e contemporaneamente d’interpretare le contraddizioni del presente. Nei suoi lavori, Storia e cronaca, arte colta e cultura popolare, passato e presente concorrono alla creazione di una visione pittorica originale, allo stesso tempo pop e profondamente italiana. Fu per questo motivo che l’anno successivo invitai Veneziano tra i sessanta artisti italiani della Prima Biennale Italia-Cina alla Villa Reale di Monza. La sua capacità di rappresentare la contemporaneità nella sua accezione globale, pur mantenendo un vivo rapporto con le sue origini culturali, d’altra parte era uno dei tratti salienti del suo lavoro. Basti pensare all’installazione temporanea Innocenti evasioni, realizzata nel 2015 al Belvedere Marconi di Enna, per accorgersi di come l’artista abbia saputo “fondere” l’immaginario pop e disneyano con la tradizione dolciaria siciliana. La sua sensuale Biancaneve in scala reale, pigramente immersa in una piscina gonfiabile attorniata dai sette nani, era, infatti, una scultura di zucchero destinata a sciogliersi sotto il sole d’agosto.
Dopo David’s Renaissence, l’artista capì di poter adattare il suo linguaggio pittorico alla scultura, all’installazione ambientale e perfino alla street art. Nel novembre dello stesso anno, in occasione della mostra diffusa Pop Re-Generation, Veneziano fu invitato a eseguire un dipinto murale nel centro di Pordenone. Il soggetto dell’opera era un Vincent Van Gogh calato nei nostri giorni, sorpreso nell’atto di dipingere con la bomboletta spray uno dei i suoi celebri Girasoli. Van Gogh, una delle icone preferite di Veneziano, cui aveva persino dedicato un articolo sulle misteriose circostanze della sua morte[5], venne qui trasformato in un moderno writer. L’anno dopo, Chiara Canali ed io chiedemmo a Veneziano di realizzare un intervento sulla facciata del Teatro Sociale di Como, nella centralissima piazza Verdi per la quinta edizione di Streetscape, una manifestazione di urban art. Il suo progetto, intitolato Todo modo, adattava alla facciata neoclassica dell’edificio una selezione d’immagini del suo immaginario pittorico.
È, però, del 2017, l’opera tridimensionale più ambiziosa dell’artista. White slave, ancora una sensuale Biancaneve, viene scolpita, questa volta, nella purezza del marmo statuario di Carrara. Esposta a Palazzo Crespi a Milano durante la Design Week, in pendant con il dipinto omonimo da cui è tratto il soggetto, l’opera rappresenta una Biancaneve seduta sulla celebre Sedia Panton con le braccia legate dietro lo schienale. L’accostamento di uno dei simboli del design internazionale con l’icona disneyana, è, ancora una volta, un suo tipico esempio di mash up iconografico.
Oggi, mentre l’artista è intento a ultimare le ultime sculture da inviare alla galleria Kronsbein di Monaco di Baviera per quella che è, a tutti gli effetti, la sua prima mostra personale all’estero, ripensando a questi nostri dieci anni e più di collaborazione, agli entusiasmi e alle delusioni, alle discussioni e alle liti che ci hanno tenuti vivi e vigili in questo roboante mondo dell’arte, posso affermare, in tutta sincerità, che Giuseppe Veneziano è uno degli artisti più importanti della sua generazione. L’unico che abbia saputo superare i confini elitari del Sistema dell’arte, per farsi intendere da un pubblico più vasto, ma non per questo meno sensibile alla bellezza.
Note
[1] Ivan Quaroni, Autoritratto dell’artista assente, in Giuseppe Veneziano. Self-Portrait, 13 aprile – 12 maggio 2007, KGallery; Legnano. [2] Luca Beatrice, Tanto di cappello, in Giuseppe Veneziano. Pregiudizio universale, 17 aprile – 18 maggio 2008, Angel Art Gallery, Milano. [3] Ivan Quaroni, Crisis. Il declino del supereroe, 15 settembre – 14 ottobre 2006, galleria San Salvatore, Modena. [4] Ivan Quaroni, Cattive compagnie, in Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi, Umberto Allemandi & C., Torino, 2012, p. 14. [5] Giuseppe Veneziano, Indagine sulla morte di Van Gogh, http://www.lobodilattice.com, 19 ottobre 2009.
“Come ho spesso scritto, ogni mio quadro nasce e prende la sua vita nel disegno, in quel foglio di carta di 36×48 centimetri, il cui formato i miei occhi e la mia mano conoscono e possiedono oramai da tempo, e subito dominano”.[1] Con queste parole, scritte a Parigi nel 2015, Valerio Adami avverte, ancora una volta, il bisogno di rimarcare l’importanza di una pratica su cui ha fondato l’intero corpus della sua opera. Adami si dedica, infatti, al disegno con grande assiduità fin dal 1952 quando, iscritto all’Accademia di Brera, prende a frequentare i corsi di Achille Funi. Sotto il suo magistero, apprende la tecnica e la disciplina quotidiana del disegno e quel procedere “in forma chiusa” da cui deriva il forte senso di rigore e pulizia formali. “Da allora”, ammette Adami, “non c’è stato giorno in cui, gomma e matita alla mano, non abbia inseguito i miei pensieri con il disegno”.[2]
Adami inizia, però, a dipingere già qualche mese prima, nello studio di Felice Carena a Venezia, dove conosce Oskar Kokoshka, il grande artista austriaco che in quei giorni espone alla Biennale un suo grande trittico sul mito di Prometeo che lascia una profonda impressione sul giovane artista. In quello stesso anno, Adami visita anche il Salon de Mai a Parigi, dove incontra il poeta Eduard Glissant, grazie al quale entrerà in contatto con Sebastian Matta e Wilfredo Lam. Ma è, questo, solo il primo di una serie interminabile di viaggi e d’incontri che forgeranno la sua cultura cosmopolita.
Mentre la generazione uscita dalla guerra trova nell’Informale e nell’Astrazione la risposta ai problemi compositivi, gli esordi pittorici di Adami avvengono, piuttosto, sotto l’egida dell’espressionismo. I suoi quadri con i fondi neri degli anni Cinquanta guardano, infatti, a Kokoshka, ma anche a Francis Bacon e Sebastian Matta. Tuttavia, all’artista non interessa la pittura degli stati d’animo e dell’inconscio, ma la ricostruzione dello spazio del quadro e di un nuovo linguaggio figurativo.
Già nel 1959, in occasione della mostra personale alla Galleria del Naviglio di Milano, Emilio Tadini nota come, nello sviluppo della sua pittura, l’artista non sia “caduto” nella soluzione tachiste e nell’espressionismo astratto: “Adami si è reso conto che è necessario disintegrare dall’interno la sostanza della vecchia convenzione visiva: e ricostruire una nuova possibilità figurale”.[3]La cultura visiva di Adami, alla fine degli anni Cinquanta, subisce soprattutto l’influsso della lezione di Matta e il suo modo di comporre l’opera, fino al 1958 incentrato sull’analisi del personaggio, secondo Enrico Crispolti “si apre ad una più ampia rete di relazioni: al personaggio subentra il fatto”.[4]
Il concetto di “fatto” deriva dal pensiero di Wittgenstein, il quale riteneva che la realtà fosse un insieme strutturato di fatti e che un fatto fosse, a sua volta, una struttura organizzata di cose che non possono essere ulteriormente suddivise in altri elementi. Adami si serve di questo concetto per emancipare lo spazio del quadro dalla linearità della narrazione e dissolvere, dunque, la dimensione temporale in una sorta di simultaneità (com’è dato rilevare nell’olio su tela Senza titolo del 1960).
Alla “ricostruzione del quadro”, contribuiscono anche le riflessioni generate dagli ascolti musicali di Adami che, ispirandosi all’approccio formalista della dodecafonia, va maturando la convinzione che la pittura debba fare tabula rasa della psicologia e sostituire gli stati d’animo con i valori plastici.
“Il mio tentativo di trovare una trasposizione figurale al linguaggio dodecafonico”, confesserà più tardi, “corrispondeva alla volontà di chiudere nella forma un pensiero sul tragico”.[5]
Proprio la ricerca di un nuovo linguaggio lo avrebbe portato, entro qualche anno, a reintrodurre nel quadro il colore e a inserire elementi tipici del fumetto, come la forma dei balloon, le linee a trattini e le parole onomatopeiche.
I disegni e le tele dei primi anni Sessanta (tra cui, ad esempio, l’olio Senza titolo del 1963, l’acrilico del 1964 intitolato Polish e le diverse carte eseguite nello stesso periodo) testimoniano come l’artista, pur non essendo un lettore di fumetti, si serva di quei significanti grafici per consolidare le linee di forza delle sue composizioni e accentuarne il carattere sonoro, insieme dissonante ed esplosivo.
Il 1963 è l’anno in cui Adami realizza opere come Alice nel paese della Violenza, Invito al Crash e Auto-suggestione, dove emerge una chiara tendenza compositiva alla metamorfosi delle forme. A tal proposito, Alain Jouffroy osserva che “Adami integra, fonde, concilia: vuole legare ciò che è separato, risolvere gli antagonismi, e trovare nella dispersione, la diversità, il dissidio e la discordia, la chiave di una felice comunicazione – un voto di unità con lo spettatore”. [6]
Gli anni che intercorrono tra le partecipazioni a Documenta III di Kassel (1964) e alla XLII Biennale di Venezia (1968), sono quelli in cui si precisa il linguaggio pittorico di Adami, sempre più contrassegnato da colori piatti imbrigliati in una trama disegnativa dai contorni marcati, in cui compaiono, quasi ibridandosi, oggetti banali e feticci erotici della società dei consumi, secondo una formula solo apparentemente debitrice delle iconografie del fumetto e della Pop Art.
In verità, Adami porta alle estreme conseguenze un iter compositivo in cui l’osservazione esteriore della realtà si fonde con una pletora di associazioni mentali che a quella stessa realtà forniscono una struttura e un ordine interiori. Lo intuisce, più di altri, Carlos Fuentes quando nel testo pubblicato in occasione dell’esposizione dell’artista alla Biennale del 1968 scrive: “[Adami] ha detto a se stesso che tutto quel che usciva fuori era prima entrato dentro, e che tutto quello che entrava era prima uscito; e io che l’ho sentito pensare, gli ho risposto che la differenza stava tutta qui, perché oggi succede che tutto ci viene imposto dall’esterno, mentre fino a poco tempo fa niente aveva importanza se non c’era imposto dall’interno e dunque siamo andati in giro dimidiati, zoppicando da un piede o dall’altro, tra i pieni poteri dell’oggetto o del soggetto, tra il realismo e il solipsismo”.[7]
Quel che lo scrittore messicano sembra rilevare, pur non menzionandolo direttamente, è lo scarto tra la procedura della Pop Art, orientata alla descrizione degli epifenomeni della società dei consumi, e l’operazione di Adami, in costante oscillazione tra la dimensione reale e mentale, tra l’osservazione e la “visione”. Il disegno di Adami – come dirà molto più tardi Loredana Parmesani – “oppone all’immagine della pop art, che dal basso della cronaca tenta di innalzarsi alla storia, una cultura alta che sa abbassarsi al colorito del mondo”.[8] Insomma, l’artista bolognese non si sottrae alla responsabilità di esprimere la propria “visione”, di proiettarla sulla realtà, consapevole – come avverte Fuentes – che “niente esiste in sé e tutto è parte di una struttura: di una somma di rapporti”.[9] La sua strategia disegnativa implica un’attività intellettuale, ideativa, in grado di organizzare le associazioni mentali, proiettandole sull’immagine oggettiva, reale.
Le due evidenze, quella esteriore e quella interiore, raggiungono una sorta compromesso nel processo formativo del disegno. La progettualità di Adami, infatti, si declina in itere, nel farsi stesso dell’immagine, linea dopo linea, attraverso uno svolgimento erratico che alterna affermazioni e ripensamenti, segni e cancellazioni.
“Così è come agisco io”, racconta l’artista, “quando disegno: mi metto di fronte ad un interno con figure, per esempio, e lo penso così com’è. Cioè non lo guardo soltanto: lo penso così com’è. E poi è come se l’immagine facesse un viaggio, dalla sua apparizione attraverso un nuovo spazio. Io divento spettatore e protagonista: nel mio inconscio si muovono allora altre associazioni. La mia mano segue questo percorso privato, organizza questi impulsi dando nuove forme oggettive all’oggettività da cui si era mossa”.[10]
Mentre i disegni recano i segni delle cancellature, registrando la natura metamorfica dell’immagine che si va costruendo, i suoi quadri, che pure da quei disegni derivano, come una sorta di riproduzione amplificata, appaiono ben più severi, quasi cristallizzati.
Il nitore formale e la rigorosa pulizia compositiva dei Miraggi e dei Toys, si riversa, nella seconda metà degli anni Sessanta, in una pletora d’interni domestici, anonime camere d’albergo, bagni pubblici, scuole di ballo, palestre. Luoghi che a New York Adami archivia in ordinate schede fotografiche. Opere come Studio per un grand hotel (1966), Interno con tappeto (1966) e Déjeuner sur l’herbe (1967) appartengono a questa fase, peraltro caratterizzata da una riflessione sui metodi di scomposizione del cubismo analitico e da un’evidente austerità stilistica. “Chi non ha avvertito”, scrive Jean François Lyotard, “guardando i quadri di Adami da vent’anni a questa parte, la loro severità?”.[11]
Quella proverbiale severità formale andrà, in effetti, acuendosi nei lavori successivi. Basti osservare, a titolo esemplificativo, la sequenza dei tre acquarelli in mostra: La scuola di ballo (1970), Tennis (1973) e Chi è la vittima (1973). “Le opere di Adami”, nota, infatti, il filosofo francese, “avevano sempre indurito ciò che mostravano per far rimpiangere una santa dolcezza scomparsa”.[12]
L’elemento tragico, già presente nelle solitarie e transitorie intimità delle stanze d’albergo, si estende in seguito anche alla rappresentazione dell’umano. In particolare, alla sequela di ritratti di letterati, filosofi, musicisti, artisti. Benché i primi ritratti siano eseguiti negli anni Sessanta (Henri Matisse che lavora a un quaderno di disegni e Nietzsche), è soprattutto dal decennio successivo che essi diventano ricorrenti nell’opera di Adami, insieme all’inclusione di quegli elementi calligrafici che, secondo José Jimenéz, “operano come riduttori antropologici, come vie d’accesso alla nostra umanità latente”.[13]
Ma i ritratti di artisti e pensatori, come pure la presenza di libri e parole, testimoniano il tragico senso di perdita del sentimento naturale, il rimpianto, appunto, della santa dolcezza scomparsa.
La natura sopravvive nella cultura e nel pensiero e ha i tratti di una metamorfosi ovidiana in cui il corpo umano, tempio sacro per gli antichi, assume posizioni forzate e innaturali (si vedano, ad esempio, Il violinista del 1985, Studio per In vista della costa del 1995 e We are proud of you del 1997). “Non solo appaiono frammentati e sovrapposti”, spiega Jimenéz, “ma anche in incessante transizione, rendendo visibile il transito che li interessa interiormente: la figura vestita, il nudo, i muscoli sotto la pelle, lo scheletro”.[14]
La qualità metamorfica si cristallizza nella rappresentazione simultanea di corpi, oggetti, paesaggi e quadri dentro il quadro, una fusione che tradisce, inevitabilmente, il trascorrere del tempo – “Si cammina fra le tombe, fra le nostalgie e i propri amori…”, dirà Adami.[15] Eppure, il rimpianto e la nostalgia per un tempo mitico, anche negli anni a venire, saranno sempre disciplinati e raffreddati nell’esercizio del disegno. Il presunto classicismo di Adami e tutti i riferimenti che costituiscono buona parte della sua Bildung culturale sono, infatti, l’emanazione diretta di un certo modo di concepire il disegno. Un modo che consiste nello sforzo di ordinare i segni, le forme e gli alfabeti sepolti nella memoria e di traghettarli, attraverso una disciplina che è innanzitutto cognitiva, dal caos degli impulsi a una forma logica di rappresentazione. D’altra parte, come afferma perentorio l’artista, “non sta al disegno suscitare emozioni, chi le vuole se le vada a cercare altrove, al cinema o allo stadio, un disegno le raffigura ma poco le provoca”
NOTE
[1] Valerio Adami, Note brade, in VALERIO ADAMI 1964-1999. GLI ANNI DI LONDRA, PARIGI, NEW YORK, CITTÀ DEL MESSICO…, Skira Editore, Milano, 2016, p. 13. [2] Amelia Valtolina, Nulla dies sine linea. Una conversazione con Valerio Adami, in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 9. [3] Emilio Tadini, Valerio Adami, Galleria del Naviglio, Milano, dal 17 al 26 ottobre 1959, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 19. [4] Enrico Crispolti, Adami, Galleria L’Attico, Roma, 2 dicembre 1961, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 23. [5] Amelia Valtolina, Nulla dies sine linea. Una conversazione con Valerio Adami, Op. Cit., p. 13. [6] Alain Jouffroy, Valerio Adami, Galleria del Naviglio, Milano, dal 23 novembre al 6 dicembre 1963, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 29. [7] Carlos Fuentes, Righe per Adami, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia, 1968, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1964-1999. GLI ANNI DI LONDRA, PARIGI, NEW YORK, CITTÀ DEL MESSICO…, Skira Editore, Milano, 2016, p. 27. [8] Loredana Parmesani, Filo a piombo e filo-disegno, in GLI ADAMI DI ADAMI. OPERE DAL FONDO ADAMI PER L’INSTITUT DU DESSIN, Galleria del Gruppo Credito Valtellinese, Refettorio delle Stelline, Milano, dal 20 giugno al 9 agosto 1997, Skira Editore, Milano, p. 11. [9] Carlos Fuentes, Righe per Adami, Op. Cit., p. 31. [10] Valerio Adami, Sinopie, SE Editore, Milano, 2000, p. 17. [11] Jean François Lyotard, Si direbbe che una linea…, in Gli Adami di Adami, Skira Editore, Milano, 1996, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1964-1999. GLI ANNI DI LONDRA, PARIGI, NEW YORK, CITTÀ DEL MESSICO…, Skira Editore, Milano, 2016, p. 199. [12] Jean François Lyotard, Si direbbe che una linea…, Op. Cit., p. 201-205. [13] José Jimenéz, L’artista viaggiatore, in GLI ADAMI DI ADAMI. OPERE DAL FONDO ADAMI PER L’INSTITUT DU DESSIN, Galleria del Gruppo Credito Valtellinese, Refettorio delle Stelline, Milano, dal 20 giugno al 9 agosto 1997, Skira Editore, Milano, p. 52. [14] José Jimenéz, L’artista viaggiatore, Op. Cit. pp. 55-56. [15] Valerio Adami, Disegno & Confessioni, in GLI ADAMI DI ADAMI. OPERE DAL FONDO ADAMI PER L’INSTITUT DU DESSIN, Galleria del Gruppo Credito Valtellinese, Refettorio delle Stelline, Milano, dal 20 giugno al 9 agosto 1997, Skira Editore, Milano, p. 57.
INFO: VALERIO ADAMI
a cura di Ivan Quaroni Galleria L’Incontro, Chiari (BS)
via XXVI aprile 38, Chiari (Brescia) Opening: Sabato 9 Dicembre 2017
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.